Brevetti software un freno all’innovazione?

L’Europa è chiamata a decidere sul tema della brevettabilità del software. La materia è complessa così come accesa è la discussione tra chi la vede come uno strumento di salvaguardia degli investimenti nello sviluppo del software e chi sostiene che essa rischi di tagliare fuori centinaia di migliaia di aziende che non avrebbero la forza e la capacità di sostenere una pratica di brevetto. Zerouno cerca di fare il punto della situazione attraverso la voce dei diversi protagonisti.

Pubblicato il 02 Lug 2005

imm-zerouno

Il 7 luglio (o il 15 al più tardi) la direttiva CII (Computer Implemented Inventions) verrà votata in sede di Unione Europea e, in seconda lettura, verrà presa dai responsabili dell’organismo comunitario una posizione definitiva in materia di brevettabilità del software. Se la direttiva non verrà bocciata dalla maggioranza assoluta degli europarlamentari aventi diritto di voto, la stessa diventerà legge a tutti gli effetti, aprendo una nuova “era”, dai connotati tutt’oggi ancora poco definibili, per quanto riguarda lo sviluppo e la distribuzione di programmi e applicazioni per computer nel Vecchio Continente. Prima di affrontare in modo analitico e dettagliato l’argomento, è doveroso fare una semplice ma precisa premessa: la brevettabilità del software è una questione di importanza assoluta seppur non sempre al centro dell’attenzione dei media; una materia assai complessa che interessa istituzioni e sistemi Paese, vendor di tecnologia e utenti, e che alimenta da tempo due diversi fronti diametralmente in opposizione fra loro ed entrambi nella condizione di rivendicare la consistenza di “diritti” che ne giustificano le rispettive cause. Nell’affrontare il tema, ZeroUno vuole soprattutto aprire una finestra informativa adeguata alla portata della problematica, partendo quindi dai fatti che sono alla base della votazione in programma a Bruxelles per arrivare alle diverse interpretazioni fornite dagli attori (più o meno direttamente) coinvolti.
È necessario innanzitutto ricordare che la Commissione Europea, sotto la presidenza irlandese prima e per volontà del Commissario olandese Bolkestein di recente, ha sconfessato il Parlamento Europeo, che in prima lettura aveva sancito la non brevettabilità delle innovazioni software, riproponendo in forma ancora più rafforzata il testo della direttiva a favore della brevettabilità nella sua forma originale nonostante l’astensione in Consiglio dei ministri di Austria, Belgio e Italia, il voto contrario della Spagna e le richieste di approfondimento di Polonia, Danimarca e Portogallo. La mera cronaca degli eventi conferma quindi come la Commissione Europea sia fortemente intenzionata a rendere i brevetti software facilmente applicabili in tutta Europa esaudendo di fatto le richieste elaborate dalla Business Software Alliance, l’organismo mondiale che vede fra i suoi membri principali i colossi del software statunitense, attualmente detentori di oltre il 60% delle migliaia di brevetti software depositati presso l’Ufficio Europeo Brevetti (Epo, www.european-patent-office.org/index.en.php).

Modello usa e la minaccia pirateria
Da quanto sopra, emerge subito una delle chiavi di lettura più delicate della questione, e cioè il diverso status di regolamentazione della “proprietà” del software fra Europa e Stati Uniti: se a livello continentale vigono ad oggi i principi contenuti nella Convenzione Europea sui Brevetti che esclude la brevettabilità degli algoritmi, dei programmi per elaboratore e dei metodi commerciali e che protegge l’opera e il suo autore con il copyright preservando integralmente la possibilità di utilizzare le idee. Oltreoceano una normativa ad hoc sui brevetti è in essere da qualche anno con tutti i pro e contro del caso, dalle cause multimiliardarie in primis agli accordi di cross licensing fra ex nemici-rivali (vedi la vicenda Microsoft e Sun Microsystem). Sui tavoli dei responsabili dell’Unione deputati a gestire l’iter finale della direttiva si sono via via accumulate pagine e pagine di relazioni volte a descrivere l’intero scenario, attuale e futuribile. Stando alle associazioni operanti in difesa del “software libero” e agli esponenti del movimento open source, nessuno studio economico ha messo in evidenza come i brevetti sul software possano portare a una maggiore produttività e innovazione nel settore. Ancora più estremista, per certi aspetti, la posizione di una vasta fetta di professionisti e imprese di piccole e medie dimensioni che si sente minacciata dall’introduzione dei brevetti sul software sotto il profilo del considerevole aumento dei costi per supportare gli inevitabili coinvolgimenti in dispute legali e di una chiusura oggettiva all’utilizzo di idee o soluzioni innovative. Dalla parte delle grandi multinazionali, invece, parlano i dati che puntualmente rende pubblici la Business Software Alliance: nel 2004 (i numeri sono relativi al Global Piracy Study condotto da Idc) la pirateria in Europa e nell’area Emea è calata di due punti percentuali ma il software illegale venduto copre pur sempre il 35% e il 39% della domanda. In contro tendenza, purtroppo, si segnalano Danimarca e Italia: nel Belpaese il tasso di pirateria è cresciuto dal 49 al 50% (solo la Grecia, in Europa, ha un indice peggiore). E il grido d’allarme lanciato dal vice presidente di Microsoft Corporation, Umberto Paolucci, suona come una sorta di ultimatum indiretto alle orecchie degli europarlamentari di Bruxelles che dovranno votare la direttiva CII: “Il 75-80% del software utilizzato dalle Pmi italiane è pirata e si tratta di un danno quantificabile per le vendite di programmi venduti legalmente pari a 1,2 miliardi di euro l’anno”.

Una direttiva oggetto di contesa
I brevetti “all’americana” sulle tecniche usate nei programmi per computer: c’è chi ha riassunto in questi termini il senso della direttiva che verrà votata a giorni dagli europarlamentari dell’Unione. La definizione di cui sopra, per quanto assai calzante, va comunque estesa: la direttiva pone l’accento sulla “brevettabilità delle invenzioni implementate per mezzo di elaboratori elettronici”, e quindi i singoli frammenti di codice informatico, e specifica il mezzo col quale l’invenzione viene attuata, il computer. Non c’è invece chiarezza su ciò che dovrebbe essere l’oggetto del brevetto, e quindi la natura “fisica” dell’innovazione (i programmi software sono beni sempre e comunque immateriali), di fatto volutamente indefinita e di conseguenza soggetta a un vasto campionario di interpretazioni.
Cercando di fare un quadro concreto della norma, il titolare di un brevetto potrà impedire la nascita di un qualunque software che utilizzi gli stessi codici fonte o oggetto (diritto che il copyright non sempre può impedire) per almeno 20 anni, la durata fissata per legge di un brevetto. Se, come sostiene la Commissione, “i brevetti tutelano l’interesse della società e non devono essere utilizzati in modo da ostacolare la concorrenza” è lecito chiedersi se tutte le aziende produttrici di software abbiano pari opportunità per sviluppare un’adeguata politica per ottenere un brevetto e cosa, soprattutto, si potrà brevettare se la direttiva diventerà legge?
La lista dei programmi papabili è naturalmente molto estesa ma il nocciolo della questione è un altro: si protegge l’idea a prescindere dai contesti nei quali il software è applicato e dalle righe di codice originali con le quali è scritto o si ribadisce la necessità di brevettare programmi integrati strettamente in un dispositivo elettronico, e quindi l’intera soluzione innovativa nel suo complesso? Al di là del ruolo esercitato dai produttori di software, piccoli o grandi che siano, come procederebbero nel primo caso gli sviluppatori indipendenti e i programmatori attivi in realtà aziendali extra settore Ict? Se il principio espresso dalla direttiva secondo cui “…. un algoritmo considerato come entità teorica isolata dal contesto di un ambiente fisico e avente un carattere intrinsecamente non tecnico non può essere considerato un’invenzione brevettabile” rispetta la legislazione vigente va però rilevato come il teorema dell’algoritmo astratto sia valido in realtà solo per le formule matematiche (da sempre non brevettabili) e non per una “una sequenza di istruzioni, che eseguite, consentono la risoluzione di un problema”. Il software è per sua definizione “un’entità” tecnica in quanto programma che utilizza differenti algortimi per attivare un’applicazione o un processo concreto: se, come stabilisce la direttiva, “tutti i programmi funzionanti su un elaboratore sono per definizione tecnici (perché un elaboratore è una macchina) e possono quindi essere considerati una invenzione brevettabile” è del tutto coerente il diritto (del titolare di un brevetto per un’invenzione attuata per mezzo di elaboratori elettronici) “d’impedire ai terzi di utilizzare un software, il cui codice fonte od oggetto differisce da quello di ciascun altro, che metta in atto la sua invenzione”? C’è, come sostengono i detrattori, una precisa volontà di favorire “legalmente” brevettazioni di massa)?
Oppositori e promotori della direttiva, che non consente in modo esplicito di brevettare i software ma pone la questione in modo ambiguo e a volte contraddittorio sono ormai al resoconto finale e neppure la Convenzione Brevetti Europea (CBE) del 1977 aiuta a fare chiarezza in quanto da una parte sancisce che il software non è brevettabile e dall’altra specifica che il divieto è applicabile al software in quanto tale, lasciando quindi aperto il dubbio che i software applicativi si possano in effetti brevettare. Uno stato di impasse che spiega i circa 20mila brevetti software già registrati presso l’Ufficio Brevetti Europeo (Epo) in contraddizione, dicono i fautori dell’abrogazione della direttiva, con il testo e lo spirito della legge attualmente in vigore circa la protezione dei programmi con il diritto d’autore (convenzione di Berna del 1971 e direttiva europea 91/250 del 1991 o nel Trips del Wto del 1994). Al di là dei cavilli “testuali”, ma è su questo campo che si gioca forse la partita più importante, la chiusura ermetica del software sarà un reale danno per le software house europee e darà un vantaggio enorme alle multinazionali americane, le uniche in grado di gestire ampi portafogli di brevetti e attualmente impossibilitate (al pari dei vendor asiatici) a perseguire eventuali violazioni di loro brevetti in Europa? Il dibattito è da tempo molto acceso e mette anche sotto esame (in questa come in altre materie) i meccanismi decisionali dell’Unione Europea, abilitati ad annullare la volontà dell’unica istituzione dell’Unione legittimata dal voto popolare, il Parlamento Europeo, grazie a procedure regolamentari poco trasparenti.


Interoperabilità del software: basterà a garantire la libera concorrenza?
Dal 15 giugno Microsoft è tenuta a vendere ai produttori di pc una versione del sistema operativo Windows priva del programma multimediale Media Player, ottemperando così a quanto richiesto dalle normative antitrust dell’Unione Europea. La vertenza a cui è giunta la causa perorata dalla Commissione contro il gigante del software ha ribadito il concetto secondo cui i produttori di computer devono poter acquistare programmi alternativi (nello specifico RealNetworks e Apple iTunes) a quello preconfigurato da Microsoft. Un fatto di per sé indipendente dalla questione “brevetti” ma che in realtà lascia intuire quanto siano in stretta relazione fra loro l’infinita vicenda giudiziaria che fa capo a Microsoft e le iniziative della Commissione volte a delineare il futuro prossimo venturo del software in Europa, di cui la direttiva per la brevettabilità (da una parte) e la volontà di ribadire il principio dell’interoperabilità tra diversi sistemi applicativi (dall’altra) ne sono i capitoli chiave. Di questo tema ne abbiamo parlato con Carlo Piana, avvocato e consulente della Commissione europea per la causa Microsoft, traendo dalla sua diretta esperienza vari spunti di riflessione. “Lo scorporo di Media Player da Windows Xp – ha precisato innanzitutto Piana – ha una funzione pro-competitiva e poco ha a che vedere con il rapporto fra software libero e proprietario: semplicemente si riafferma il valore della concorrenza di mercato quale driver fondamentale per supportare innovazione tecnologica e migliori servizi all’utente finale”. Decisamente più impattante in prospettiva è invece l’interoperabilità del software, per cui i lavori della Commissione sono in corso d’opera. “A livello di Ue – ha precisato Piana – i primi risultati sono giudicati positivi perché il rilascio delle informazioni inerenti la sicurezza e il recupero dei file che presuppongono l’interscambiabilità fra diversi sistemi, che Microsoft voleva limitare alla sola Europa, è un traguardo raggiunto su scala internazionale. La volontà è quella di garantire piena libertà di azione per gli utilizzatori del software, che devono poter valutare senza barriere di sorta applicazioni di altri fornitori, e di ribadire il principio secondo cui il software deve potersi parlare senza vincoli di sorta a livello di interfacce e linguaggi sorgenti. Microsoft ha modificato nel tempo molti dei protocolli sui quali si regge il sistema operativo per renderli vincolanti e inaccessibili per chiunque volesse sviluppare applicazioni o programmi compatibili. L’obiettivo della Commissione è quello di garantire concorrenza e maggiore reciproco controllo fra gli operatori del settore, a prescindere dal ruolo coperto dai fornitori open source”. Il primo passo cui mira il programma comunitario prevede comunque l’interoperabilità di base dei sistemi proprietari (Windows, ma non solo) verso il software open source, nei termini per cui il software che non è reale innovazione va licenziato in forma aperta a terzi, mentre è solo a tendere, al momento, l’ipotesi che venga completamente o parzialmente liberizzato l’accesso ai codici sorgente e ai protocolli per gli sviluppatori. La diatriba relativa alla brevettabilità del software rischia di avere, come ha rilevato Piana, “impatti assai rilevanti sugli equilibri socio-economici in seno all’Unione”. Come inquadrare quindi una direttiva promossa da un organismo europeo, da una parte grande accusatore e dall’altra grande alleato di Microsoft & C.? “Se la direttiva andrà in vigore – questa l’opinione di Piana – viene meno quella dinamica innovativa che invece il copyright ha sempre garantito e verrebbero parzialmente ridimensionati i risultati ottenuti in ottica interoperabilità. Esenzioni in materia sono però ipotizzabili e il fatto che Ibm e Nokia abbiano messo a disposizione le rispettive tecnologie brevettate in chiave open source e Linux può essere di buon auspicio per contrastare l’effetto ‘sclerotizzazione’ della tutela del software che si porta con sé la direttiva”.

Mentre il Parlamento europeo proprio pochi giorni fa ha detto "no alla brevettabilità del software"

Gli altri articoli:
Il software sotto brevetto: a chi giova?
Direttiva UE: favorevoli e contrari…e pure astenuti
L’opinione dei fornitori

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