Il software sotto brevetto: a chi giova?

Sul tema della brevettabilità del software si scontrano visioni differenti sul ruolo, sulla diffusione e sull’accesso alla conoscenza. Il terreno di scontro non è, quindi, esclusivamente tecnologico ma investe fortemente l’ambito etico, per non parlare delle ripercussioni in campo economico

Pubblicato il 02 Lug 2005

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Nel dibattito sulla brevettabilità del software ci sembra significativa della posizione di chi considera fondamentale, per lo sviluppo equo di un mondo sempre più globalizzato, la libera circolazione delle idee e il diritto di accesso alla conoscenza, la Dichiarazione di Ginevra sul futuro dell’Organizzazione Mondiale per la Proprietà Intellettuale – Wipo, che afferma: “Il Wipo deve far sì che i suoi membri capiscano le vere conseguenze sociali ed economiche che una eccessiva protezione della proprietà intellettuale comporta, e l’importanza di raggiungere un equilibrio tra la competizione e il dominio pubblico da un lato, e l’ambito dei diritti di proprietà dall’altro…..”
I termini dello scontro sul terreno del software sono sintetizzati da Alfonso Fuggetta, professore del Politecnico di Milano e direttore del Cefriel (www.cefriel.it): “Della questione dei brevetti software in Europa si è iniziato a parlare relativamente da poco. Molti sostengono che sia un tentativo di attacco alla comunità open source. Altri la ritengono invece una necessaria forma di tutela per chiunque sviluppi software”.

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Il senatore dei Verdi Fiorello Cortiana, delegato presso Wsis (World Summit Information Society-Onu) e promotore di una mozione che ha raccolto un centinaio di firme di senatori appartenenti a tutti gli schieramenti (visibile sul sito del Senato www.senato.it), sostiene che dietro la questione della brevettabilità si scontrano due culture: quella Usa che definisce le regole alla luce degli equilibri presenti fra gli attori di mercato e quella europea che prevede di definire le regole su cui poi si va a giocare sul mercato. Indipendentemente dalle ragioni di fondo che determinano la scelta di uno o dell’altro schieramento (anche se esiste una gradualità di posizioni intermedie che nel corso dell’articolo cercheremo di esplorare), ciascuno prospetta diversi modelli di business per gli attori del software, in termini di ricavi (nessuno nega infatti la necessità di remunerazione), di sviluppo, di distribuzione, di assistenza, di manutenzione, di servizi. L’affermarsi del fenomeno del free software e dell’open source (vedi riquadro), anche sotto l’influenza esercitata da Internet e dalla pratica di condivisione delle informazioni in rete, è indubbiamente una delle cause scatenanti della revisione dei modelli di business fino a oggi dominanti. “Il concetto di rete e di informazioni fruibili in modo condiviso ha superato il concetto di business; questa novità va presa in considerazione anche dai fornitori per trovare nuovi modelli. Mentre è a mio parere errata e perdente la scelta opposta, di tipo difensivo alla base della spinta per la brevettabilità del software”, sostiene

Mauro Toffetti, presidente di Assonet (www.assonet.it) e di Confesercenti, riferendosi in particolare alle posizioni di Microsoft, a cui pure riconosce un ruolo fondamentale nell’alfabetizzazione e nell’ informatizzazione a livello mondiale.

Copyright o brevetto?

“Il modello di business prevalente dei software vendor fino a oggi si è basato soprattutto sul copyright e sul trademark (ossia la fama riconosciuta, come ad esempio Linux). Questi modelli continuano ad essere prevalenti anche negli Usa nonostante la possibilità da vent’anni di brevettare il software”, sostiene

Giacomo Cosenza, fondatore e presidente di Sinapsi (www.sinapsi.com), system integrator orientato all’impiego di componenti software open source. “Oggi però i software vendor hanno individuato nel modello open source un attacco ai loro profitti e stanno reagendo con la ricerca di nuovi modelli”. La battaglia per la brevettabilità del software anche nell’Unione Europea starebbe a dimostrarlo. Gli oppositori ai brevetti sostengono che sia sufficiente il copyright per tutelare chi produce il software, pur indicando la necessità di superare l’attuale sistema della licenza d’uso, che concede solo il codice eseguibile senza visibilità e possibilità di modificare il codice sorgente.
Il software aperto, invece, prevede la possibilità di analizzarlo, modificarlo e distribuirlo e si basa sulla collaborazione sia per la sua produzione sia per il suo mantenimento. Il modello di business proposto è dunque un’evoluzione del copyright, verso il cosiddetto “copyleft” (vedi ancora riquadro), che non pone restrizioni agli utenti e agli sviluppatori, ma offre anzi molti vantaggi a chi lo utilizza, come ci ricorda Cosenza.
Sul fronte opposto si spinge invece sull’acceleratore della protezione non accontentandosi più di limitarla al codice, come nel caso del copyright, ma estendendola all’idea che ne sta alla base (ad esempio un certo algoritmo), come ci spiega Fuggetta. Il fatto curioso è che le motivazioni addotte per questa scelta siano la tutela dell’idea del singolo “genio”, ma che i principali fautori dell’estensione dei brevetti fuori dagli Usa siano le grandi società di software.

Esiste ancora il genio isolato?

Richard Stallman, fondatore in Usa della Free Software Foundation (www.fsfeurope.org), in occasione di un recente incontro organizzato da Assonet, (www.assonet.it), smonta però molti degli argomenti addotti.
Le argomentazioni a sostegno della brevettabilità si basano su uno scenario a suo parere del tutto risibile in quanto basato su presupposti totalmente infondati, come per esempio che il progresso sia prodotto da genio isolato; un’asserzione del tutto priva di fondamento quando ci si riferisca al software pacchettizzato che include invece migliaia di idee di tecnici, spesso sconosciuti. Un ulteriore mito da sfatare è che i geni siano in grado di fare business, mentre molte nuove aziende basate su idee innovative falliscono; ad esempio in Usa oltre il 90% delle nuove aziende hi-tech chiude entro il primo anno. Ma se anche il genio fosse un abile uomo d’affari potrebbe creare una piccola impresa in un ambito di nicchia. E quando vorrà inserire la sua idea in un qualche software pacchettizzato finirà per utilizzare qualche componente sotto licenza di un grande vendor (Ibm ha 40mila brevetti negli Usa, ci ricorda Stallman); i grandi vendor coinvolti, per consentire al “genio” di sfruttare la sua idea, gli proporrebbero allora un accordo di cross-licencing da cui trarrebbero il massimo vantaggio. “Il brevetto non protegge dunque affatto il genio, o al massimo lo protegge nei confronti di qualche altra piccola impresa, ma non blocca certo Ibm, Hp , Microsoft, Sun, e probabilemente neppure Nokia o Sony”, è il teorema di Stallman. “Per parte loro i grandi vendor, a dispetto della tanta proclamata concorrenza firmano fra loro accordi di cross licencing, perché in un momento difficile come l’attuale il loro ultimo pensiero è combattersi. È davvero comico vedere come le grandi aziende si preoccupino per le piccole aziende di software, ma non esitino poi ad acquisirle e inglobarle”.
Per questa ragione, a parte un’unica associazione (Eicta, www.eicta.org) a favore della direttiva europea sulla brevettabilità, che raccoglie 54 Pmi, sotto la guida di un dirigente Microsoft, la maggior parte delle imprese europee del settore sono contrarie, secondo Stallman, alla brevettabilità; una percentuale che in Germania, secondo una ricerca governativa, raggiungerebbe ad esempio l’85%.
La vera origine del dibattito sui brevetti sarebbe dunque, sempre secondo Stallman, l’allarme da parte delle grandi aziende americane per la crescita del software libero e delle loro pressioni sul proprio governo affinché influenzi le scelte europee. Anche secondo Cosenza la battaglia sui brevetti è un modo per bloccare il nemico, rappresentato per i grandi software vendor dall’open source, di cui temono l’assalto ai loro profitti.

I nuovi modelli di business
I grandi fornitori di software pacchettizzato, utilizzerebbero, secondo Cosenza, l’opportunità del brevetto sul software per guidare l’evoluzione del proprio modello di ricavi verso due principali fonti: i profitti derivanti dalle royalty da brevetto e dai servizi di distribuzione del software pacchettizzato (in logica Asp). Ma tutto ciò non ha niente a che vedere, secondo Stallman, con la creazione di nuovi modelli di business per lo sviluppo del software, che è stato invece sviluppato senza brevetti per molto tempo: “Il modello proposto non è un modello di business per sviluppare il software, ma serve solo ad impedire agli altri di svilupparlo”.
“La brevettazione non stimola l’innovazione, ma blocca la ricerca degli altri, visto che chi la adotta ritiene più economico bloccare gli altri (e vivere di rendita) che investire in ricerca e sviluppo”, concorda Cosenza citando uno studio condotto da James Bessen, Research on Innovation and Boston University School of Law (Visiting Researcher) e Robert M. Hunt Federal Reserve Bank of Philadelphia. Secondo l’analisi, oggi negli Usa si è assistito a un’impennata dei brevetti relativi al software (che infatti hanno raggiunto il 15% del totale) non giustificata né dall’aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo, né dalla crescita dell’occupazione nell’It né da una maggior produttività nel settore. Anzi, dallo studio emergerebbe che i brevetti sul software hanno sostituito la ricerca a livello aziendale e sono associati a una sua minore intensità. Il rischio prospettato sarebbe dunque la riduzione della propensione all’innovazione: i software vendor anziché investire per migliorare i prodotti e realizzarne di nuovi, finirebbero per investire soprattutto in sistemi di tutela legale.
Se si affermasse invece il modello di business del free software non cambierebbe molto rispetto alla situazione attuale, secondo Stallman, che sostiene: “Il modello di business alla base dello sviluppo del software deriva dalla richiesta di uno specifico utente di utilizzarlo; questa motivazione, che “paga” il 90% degli sviluppatori, non viene in alcun modo modificata dal free software”. Anche se poi all’interno del free software si vanno delineando diversi modelli che Stallman enumera, come la vendita di supporto, che impiega un numero crescente di persone nei vari paesi europei; gli sviluppatori in questo caso impiegano la maggior parte del tempo nel migliorare in modo collaborativo i programmi, ma vengono pagati da uno specifico utente per fare una certa particolare estensione di uno dei programmi sviluppati collettivamente. Un altro modello è quello di aziende come Mysql (www.mysql.com/), un dei più popolari fornitori di database – che rilasciano programmi free software sotto una specifica licenza che consente a chiunque di migliorare il software, di utilizzarlo, ma non di includerlo in programmi non free.
Il modello open source, dove non costa il prodotto quanto il servizio (personalizzazione, training, estensione, supporto…) sembra dunque più vicino alla cultura dei fornitori di servizi di supporto e dei system integrator di quanto non sia a quello dei grandi produttori di software pacchettizzato. Non è un caso, che ideologie a parte, la diversa specializzazione sul mercato finisca per essere il vero spartiacque fra favorevoli e contrari alla brevettabilità. Ed è anche vero che alla prima categoria appartiene la maggior parte delle imprese italiane ed europee.
“Il free software e l’open source indicano un tipico modello ‘glocal’, di sviluppo condiviso a livello globale, ma che necessita di aziende locali con forte legame con i propri clienti e che fondano la propria competitività sulla competenza delle persone; un modello dunque più aderente alle imprese di software e servizi italiane”, esplicita Cosenza, che sottoliena. ”In Italia vengono spesi circa 5 miliardi di euro in licenze (escludendo i software Oem). Questi vanno per il 90% a produttori di software che sviluppano all’estero ricerca e sviluppo. Mentre per la system integration vengono spesi circa 4 miliardi l’anno.”

Quale modello conviene alle imprese italiane ed europee?
Il ragionamento conseguente è: i risparmi in costi di licenze fin da oggi ed eventualmente in royalty domani, potrebbero da un lato favorire progetti a maggior contenuto di servizi e dall’altro ampliare il mercato consentendo alle tante imprese che oggi non se lo possono permette di accedere a soluzioni open, dove l’unico costo deriverebbe dai servizi offerti localmente. A tutto vantaggio delle imprese utenti e dei system integrator italiani. Queste imprese, secondo Toffetti, sarebbero invece messe in grave difficoltà dalla direttiva sulla brevettabilità: “Molte di loro utilizzano software open e free, soprattutto per la facilità di accedere ad una conoscenza condivisa, ma temono, in un regime di brevettazione, i rischi che potrebbero derivare dall’inclusione nei prodotti da loro sviluppati di componenti sottoposte a brevetto”.
“In Italia ci sono pochi produttori di software di base e molti sviluppatori e system integrator che temono di dover mettere in piedi un ufficio legale per essere sicuri di non incorrere in conflitti sui brevetti”, è l’ulteriore spiegazione di Fuggetta per l’opposizione della maggior parte delle imprese italiane alla normativa sulla brevettabilità. “Negli Usa, se un’azienda non è in grado di reggere il contenzioso legale che deriva dal sistema dei brevetti esce dal mercato. Ma la maggior parte delle imprese europee, non comincerebbe neppure a giocare vista la loro dimensione – è il commento di Cortiana: “A livello europeo c’è spazio di crescita per le imprese di software solo se la tutela del software si limita al copyright. In caso di brevettabilità la logica del contenzioso porterebbe le imprese europee, nel migliore dei casi, ad essere assorbite”. “Dal momento che le regole sui brevetti valgono solo per il singolo paese, se l’Unione Europea respingesse la brevettabilità del software, le aziende americane non potrebbero ottenere in Europa i brevetti, con grande vantaggio degli utenti e degli sviluppatori, visto che i concorrenti americani non potrebbero attaccarli in casa loro. Agli europei possono venire solo vantaggi dal consentire a tutti di condividere liberamente il software”, è l’appello finale di Stallman. Ci resta però ancora qualche dubbio. Il primo è quello espesso da Fuggetta, che, premettendo di essere contrario all’attuale ipotesi di direttiva europea (che fra l’altro considera di difficile interpretazione), ammette tuttavia che si debbano prendere in considerazione alcuni casi nei quali idee davvero innovative richiedano il brevetto. “L’attuale ricorso esasperato alla brevettazione da parte dei grandi fornitori crea notevoli difficoltà alla piccola impresa che si trova nella necessità di dover verificare su una mole enorme di brevetti se ci siano conflitti – ammette Fuggetta, che aggiunge: “Che nella situazione attuale risulti controproducente l’estensione all’Europa della brevettabilità è un dato certo ed è dunque condivisibile la posizione di chi vi si oppone. Ma da ciò non consegue necessariamente che il software sia per definizione non brevettabile e che l’unica forma di difesa sia il copyright”. Si dovrebbe dunque trovare un modo per tutelare le idee davvero innovative (e che dunque non possono che essere in numero limitato), che richieda tempi ragionevoli per essere ottenuto e abbia una durata limitata.
C’è poi da chiedersi qual è la strada giusta da intraprendere per le aziende europee del software, già oggi molto dipendenti dalla tecnologia che proviene da Oltreoceano anche senza la presenza della normativa sui brevetti: è davvero sufficiente, come promette Stallmann, lasciare le cose come stanno dal punto di vista normativo e attendere la graduale crescita del modello free? Non sono invece necessarie strategie innovative (qui però esuliamo dalla specifica tematica della brevettabilità) capaci di dare risultati anche nel breve periodo?
E infine, la via del brevetto non potrebbe essere, sul lungo periodo, rischiosa anche per i grandi fornitori di software se, come gli oppositori di questa strada sostengono, essa implicherebbe una riduzione della propensione all’innovazione?


Open Source e Free Software: le diverse prospettive secondo Richard Stallman

“L’Open Source è una metodologia di sviluppo (e aggiungiamo pure un modello di distribuzione commerciale affermato); il Software Libero è un movimento di carattere sociale”: sono queste le parole che, nel corso di un’intervista rilasciata a ZeroUno, Richard Stallman ha utilizzato per sottolineare la differenza tra Open Source e Software Libero. Per conoscere la storia di Stallman, bisogna risalire ai giorni del boom del personal computing, in cui i ricercatori nelle università e nelle stesse corporation lavoravano condividendo le innovazioni software. Il futuro alfiere del free software si dimette nel 1984 dal laboratorio di Intelligenza Artificiale del Mit perché non vuole intralci legali al compito che si accolla: “Scrivere un sistema software completo e compatibile Unix per distribuirlo liberamente a chiunque lo possa utilizzare”. Chiama la piattaforma Gnu che sta per “Gnu is Not Unix”. Il progetto è un successo, il suo nucleo centrale (kernel), realizzato da Linus Torvalds presto prende un nome contratto fra Unix e Linus: Linux. Ed è qui che le vie di Software libero e Open Source si separano. Perché, secondo Stallman, Software Libero è meglio di Open Source? La domanda è scontata. Linux, “pur facendo un buon lavoro”, si immette sul binario dell’Open Source, che in sostanza vuol solo dire “chiunque può guardare, ottenere e migliorare copie del codice sorgente”, rispetto al software proprietario, che invece è una scatola nera, disponibile solo su licenza. Ma Linux non esclude la presenza qua e là di software proprietario, purché se ne possa guardare il codice. Il sistema originale Gnu/Linux – col doppio nome su cui Stallman insiste, riconoscendo la validità tecnica del kernel di Torvalds – resta invece rigorosamente fedele al principio del Software Libero: nessun software proprietario vi ha diritto di cittadinanza, in quanto non libero. Il sistema del software libero è legato al principio superiore di libertà, non di gratuità. Richard Stallman riassume la divaricazione fra Gnu/Linux e Linux con la battuta: “free speech, not free beer” (in inglese free sta sia per libero che gratuito).
Stallman muove nella sua analisi da un aspetto psicologico che chiama senza mezzi termini “paura della libertà”. La scelta del movimento Open Source in questa luce è stata di concentrarsi sul “vendere” i benefici pratici immediatamente ottenibili dal software non proprietario all’utenza aziendale, “rimuovendo” etica e libertà per l’utente. Le aziende produttrici colgono nel modello Open Source l’opportunità costituita “dal permettere a più persone di guardare il proprio codice ed aiutare a migliorarlo”. Il che è perfettamente in linea con l’idea di uno sviluppo migliore e più rapido, ma non con i principi del Software Libero che in definitiva è “il potere agli utenti”. È a questo punto che la critica si fa radicale: il sistema vigente per la tecnologia digitale è basato sul diritto d’autore, “nato e cresciuto con la stampa”, e nel cui contesto ben si accorda con la produzione di massa di copie, ponendo correttamente restrizioni solo agli editori e non reprimendo in pratica la libertà dei lettori di farsi qua e là copie in quantità limitate. Ma per l’informazione digitalizzata, copiarla e condividerla con altri è straordinariamente facile: diventa intollerabile il vincolo di una “trasposizione acritica” del diritto d’autore alla libertà del fruitore dell’informazione. Perché è dal bisogno della società, che è “di poter leggere, correggere, adattare e migliorare, non soltanto usare” programmi, che bisogna partire. Dunque, “i proprietari del software che ci dicono che aiutare i nostri vicini è pirateria, inquinano lo spirito civico della nostra società”, dice Stallman. E contro definizioni gratuite di questi ultimi (pirateria e furto, proprietà intellettuale e danneggiamento), Stallman parla di diritti naturali riconoscibili semmai agli autori e non alle società che se ne attribuiscono i diritti.
La tesi è che è possibile invece, e va sostenuta, un’economia del software libero. Al fine di soddisfare gli utenti, non si nega che il sistema delle licenze in pratica funzioni, dato “che le persone producono di più se sono ben pagate per farlo”. Ma una produzione efficiente che soddisfi i requirement è solo un sottoinsieme del fine etico: il potere e la libertà dell’utente. Il potere di cooperare, la libertà di studiare e insegnare il codice e di assumere il programmatore migliore per la libera manutenzione. In alternativa al sistema di licenze, la Free Software Foundation propone il sistema delle copie rilasciate (copyleft).
Il copyleft è una pratica per creare un programma o altro lavoro digitale libero e imporre che tutte le versioni modificate o estese del programma che ne possano derivare restino libere e non esposte alla cattura di intermediari che possono trasformarle in software proprietario. Nel progetto Gnu, un programma viene rilasciato in copia, con la precisa clausola che chiunque ridistribuisca il software, con o senza cambiamenti, passi obbligatoriamente anche il diritto di copiarlo e modificarlo. Fermo il vincolo del copyleft, il distributore è libero di cimentarsi sul mercato per perseguire un suo profitto: software libero non vuol dire gratuito. Stallman cita ad esempio il compilatore C++ di Gnu/Linux, realizzato come copyleft e Wikipedia (www.wikipedia.org), enciclopedia libera e multilingue, la cui 1° conferenza (Wikimedia) è il 4 agosto a Francoforte.
Per quanto riguarda lo scenario futuro, quello che ci pare più probabile è che sullo sfondo resti utopica una “presa del potere” da parte dell’utente finale, ma il trend verso un suo progressivo “empowerment” è stato innescato, e con il semiprofessionismo di massa abilitato dalla Rete, l’ago della bilancia del potere tra fornitori ed utenti di fatto si è già mosso verso i secondi. Lo testimonia il fenomeno del movimento Open Source, sempre più beneficiario dei contributi di entrambi. Ai due estremi, in una visione da guerre stellari, il silenzio assordante dell’Impero Microsoft e la sfida dei Ribelli della Comunità del Libero Software, che nel braccio di ferro giocano un ruolo di stimolo ideale e culturale. (Rinaldo Marcandalli)

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