Data center: managed service per liberare l’innovazione

Le statistiche dicono che ancora oggi il 70% del budget It viene speso per la manutenzione dell’esistente, mentre solo il 30% per l’innovazione. Un mix pericoloso che rischia di frenare la competitività del business ed esautorare il Cio da incarichi decisionali. Occorre rinnovare il data center e liberare risorse per progetti strategici. I servizi gestiti, al centro del “Breakfast con l’Analista” organizzato da ZeroUno, in collaborazione con Fujitsu e Intel, offrono una via preferenziale per accelerare il cambiamento.

Pubblicato il 06 Nov 2013

Le recenti analisi dell’Osservatorio Cloud & Ict as a Service presso la School of Managenent del Politecnico di Milano confermano purtroppo quanto già si sapeva: tipicamente un’azienda spende ancora oggi il 70% del budget informatico per la gestione dell’esistente, mentre solo il 30% viene destinato all’innovazione intesa come sviluppo di nuovi progetti business oriented.

Come ribilanciare queste percentuali? Ci sono percorsi preferibili per accelerare l’evoluzione del data center verso flessibilità ed efficienza?

“I ben noti trend che stanno avendo impatti dirompenti nelle imprese in atto negli ultimi anni, ovvero cloud, social, mobile e big data – invita a riflettere Nicoletta Boldrini, giornalista di ZeroUno, aprendo i lavori del "Breakfast con l’Analista" dedicato ai Managed Services, realizzato da ZeroUno in collaborazione con Fujitsu e Intel -, se da un lato generano nuove opportunità per le imprese, dall’altro aggiungono complessità al data center, sotto il profilo sia tecnologico sia di governance, con un forte impatto sui processi e le logiche organizzative aziendali”.

“In particolare – interviene Stefano Mainetti, co-direttore dell’Osservatorio del Politecnico – mettono in discussione non solo il ruolo, ma l’esistenza stessa della direzione informatica. Le Lob reputano l’It aziendale obsoleto se incapace di fornire risposte rapide, e preferiscono acquistare i servizi in esterno, data la varietà dell’offerta oggi disponibile”.

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Ridisegnare il datacenter: tre leve fondamentali

Per centrare l’obiettivo, bisogna definire un percorso di trasformazione del data center che, secondo Mainetti, poggia su tre pilastri fondamentali: innovazione tecnologica, pianificazione flessibile e opzioni di sourcing.

“Innanzitutto – prosegue Mainetti – si divide il data center in zone ad alta, media e bassa densità, a seconda delle risorse di gestione e della continuità di servizio richieste. Si parte dalla scelta della struttura dove costruire il data center e dalla valutazione delle tecnologie, cercando un compromesso tra potenza e consumi. Quindi si adotta una progettazione flessibile, abbandonando la logica a step [tutto deve essere costruito a valle di un piano organico e strutturato, fatto sì di passi incrementali, ma concatenati lungo una direttrice chiara e definita da principio, ndr], per proseguire nel Cloud Journey, una roadmap evolutiva che dai server tradizionali, passando per virtualizzazione, razionalizzazione/consolidamento e automazione, porta alla nuvola ibrida, dove al percorso di ottimizzazione interno si affianca l’adozione di soluzioni Iaas”.

I relatori da sinistra Nicoletta Boldrini, giornalista ZeroUno e Stefano Mainetti, co-direttore dell’Osservatorio Cloud & Ict as a Service presso la School of Managenent del Politecnico di Milano

Un percorso non facile a giudicare dalle interviste condotte dall’Osservatorio su un campione di 89 grandi aziende che hanno intrapreso il ‘viaggio verso la nuvola’: solo nell’8% dei casi è stata infatti raggiunta una vera gestione automatica delle risorse in funzione dei carichi di lavoro, mentre il 32% dei progetti è fermo al gradino precedente di razionalizzazione/consolidamento. Questo perché l’evoluzione del data center implica un cambio del modello di governance, a livello organizzativo e culturale, prima che tecnologico: bisogna, innanzitutto, procedere al ridisegno dei processi di business e vanno attivate nuove competenze.

“La virtualizzazione – ribadisce il co-direttore dell’Osservatorio del Politecnico – è solo il primo passo. Alla base deve esserci un disegno organico, presentato al management attraverso un business case ben delineato su un periodo di tre-cinque anni, dove sono identificati costi, ritorni, tempi di break even e così via. Ragionare sul lungo periodo permette al Cio di acquisire un ruolo più strategico agli occhi delle Lob”.

A coronamento di questa pianificazione flessibile si pone una strategia di multisourcing selettivo, per cui ogni ambito di servizio viene ottimizzato attraverso la scelta dell’opportuno portafoglio di soluzioni, dal semplice hosting, al cloud, fino ai managed services.

Un partner affidabile per i servizi gestiti

Quindi largo ai progetti di rinnovamento del “vecchio Ced”, ma ci sono scorciatoie?

“Alla base di un percorso evolutivo del data center – argomenta Davide Benelli, Business Program Manager – Marketing presso Fujitsu – , devono concorrere driver come l'efficienza di gestione, la flessibilità delle infrastrutture, l'allineamento dell'It agli obiettivi di business. Il fattore costi da solo non può sostenere una roadmap corretta e sul lungo periodo, perché restituisce una visione miope. Affidarsi a un partner, meglio ancora se con una solida esperienza in ambito hardware e un portafoglio articolato di managed services, può aiutare l'azienda nelle scelte tecnologiche corrette a partire da un'analisi dell'esistente e dei bisogni reali, al fine di superare la difficile sfida del 70-30 e fare evolvere proficuamente il processo di ottimizzazione”.

“Sicuramente – interviene Marco Soldi, marketing development manager di Intel – non bisogna avere paura di abbracciare le nuove tecnologie, anche se questo significa rompere lo status quo dei propri sistemi informativi e costa fatica. L’innovazione tecnologica apre nuove opportunità e bisogna essere pronti alla sfida. Scegliere soluzioni basate su standard può facilitare il percorso di integrazione all’interno dell’ecosistema aziendale”.

Un progetto multisourcing partendo da zero

Delineato lo scenario di contorno, la parola passa alle aziende, prima tra tutte Eni, che ha sviluppato il proprio data center ex-novo (la presentazione ufficiale al mercato è avvenuta a fine ottobre vedi articolo I vertici Eni e il governo al nuovo green data center), partendo dalle logiche di efficientamento e ottimizzazione finora enunciate.

“Venivamo da una storia complessa, risultato di sovrapposizionamenti e acquisizioni – spiega Michele Mazzarelli, Project Manager – Progetto Eni green data center di Eni -. Ci trovavamo quindi di fronte a due alternative: continuare a razionalizzare con tutte le difficoltà del caso oppure costruire il data center da zero, con un percorso ben delineato e strutturato sin dall'inizio. Abbiamo scelto la seconda opzione, elaborando innanzitutto un business case robusto, articolato e affidabile, che ritengo essere la vera chiave di volta per attirare l'attenzione del management su una nuova proposta”.

Stilato il progetto iniziale, che ha previsto l’adozione di tecnologie e modelli di governance multisourcing dirompenti rispetto al passato di Eni, il percorso evolutivo è stato un work-in-progress, con l’aggiunta di nuovi tasselli costruiti nel rispetto delle logiche di partenza e sulla base dei risultati di flessibilità via via ottenuti. Scelta la via, insomma, la roadmap è stata un processo continuo di affinamento. “Il costo del progetto si ripaga con l’efficienza raggiunta, spingendo sull’ottimizzazione dei processi e siamo in grado di quantificare costi e ritorni. I risultati raggiunti sono stati positivi: oggi le risorse It dedicate alla manutenzione sono scese al 60%, mentre quelle per l’innovazione sono salite al 40%”, specifica Mazzarelli.

Internazionalizzazione e complessità

Il modello hybrid è stato scelto anche in Vodafone, come racconta Stefano Takacs, head of South Europe It Operations dell’azienda: “Siamo reduci da una fortissima campagna di merge&acquisition, che ci ha portati a essere presenti in ben 40 Paesi riunendo diversi operatori. Ci siamo trovati ad avere data center differenti per struttura e modelli di gestione. Nel 2004 abbiamo intrapreso un’importante operazione di consolidamento, dismettendo i data center locali e dotandoci di due grossi hub, a Milano e a Dusseldorf. Abbiamo elaborato una vera e propria sourcing strategy basata su un modello ibrido, secondo i livelli di criticità del servizio: la soluzione vincente non è unica, ma si basa sulla combinazione di più opzioni”.

Dal punto di vista infrastrutturale, invece, l’obiettivo enunciato da Takacs è fare massima leva sulla scala internazionale, creando sistemi unici trasversali per tutti gli operatori europei, in modo da ottimizzare le risorse dedicate allo sviluppo.

Il caso di Autogrill, illustrato da Gennaro D'Antonio, Ict Strategy & Architecture Manager della società, presenta diverse analogie con il percorso della compagnia telefonica: una storia fatta di acquisizioni successive, stratificazioni tecnologiche e datac enter eterogenei nelle diverse filiali europee.

“Per rispondere con rapidità alle esigenze di business – dichiara D'Antonio – e liberare risorse da destinare a progetti di innovazione, abbiamo avviato un percorso verso il cloud con l'obiettivo di standardizzare ed efficientare l'It, creando una sorta di collante organizzativo trasversale all'azienda. Abbiamo lavorato con il business corporate per creare maggiore sensibilizzazione sulle soluzioni Iaas e Saas, organizzando comitati di interazione con le business line”.

Tra le maggiori difficoltà del progetto, il manager ha messo in luce il passaggio da un ragionamento bottom-up tipico dell'It tradizionale a una vista top-down di consolidamento applicativo, per cui è l'infrastruttura a riconfigurarsi sulla base delle esigenze di business.

“Siamo arrivati alla fase di razionalizzazione, ma non abbiamo ancora raggiunto la completa automazione. Abbiamo avviato un percorso di IaaS con multisourcing selettivo, ottenendo così la convergenza organizzativa su tutte le country”.

In sostanza, con l'as-a-service si è arrivati a una standardizzazione 'forzata' su tutte le filiali, imposta dal provider stesso.

“La sfida più grande – conclude D'Antonio – non è di ordine tecnologico, ma piuttosto gestire la complessità della sourcing strategy”.

Serve un cambio di mindset e organizzativo

Occorre un cambio di passo, insomma, ma il terreno non è ancora maturo: come suggerisce Mainetti, la direzione It deve coltivare una serie di soft skill, ovvero di abilità manageriali e comunicative, se non vuole vedersi 'bypassata' dalle Lob.

“Passare dal make al buy – commenta Riccardo Angeli, It corporate systems Development Manager di Sky Italia – richiede un grande sforzo, ma è necessario per evitare che la direzione informatica venga vista come un freno allo sviluppo e il management si rivolga direttamente ai provider. Importante invece è che l'It diventi un'interfaccia del business rispetto all'esterno”.

Il rischio è arrivare a situazioni in cui i Sistemi Informativi, come lamenta Giambattista Caragnini, Cto di Helvetia Assicurazioni, sono relegati alla stregua di hub che affidano i servizi ad outsourcer scelti dal business. Un circolo vizioso a cui si giunge perché “l’It non riesce a dimostrare la necessità degli investimenti indispensabili per portare a un’ottimizzazione concreta del data center”.

A questo punto, una tattica possibile, come suggerisce Takacs, è dimostrare quanto viene a costare il “non fare niente”, ovvero gli sprechi generati dallo status quo, che necessita comunque di interventi correttivi.

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