Editoriale

In direzione ostinata e contraria

Il 2023 si annuncia come un anno “spartiacque” per la digitalizzazione in Italia. Per cogliere l’occasione, però, è indispensabile un cambio culturale. In questi ultimi scampoli del 2022, infatti, sono emerse “resistenze” che si speravano superate.

Pubblicato il 23 Dic 2022

2023 tech

Gettare via quello che funziona e rinviare progetti che sembravano ormai ben definiti non è esattamente quella che potremmo considerare una “strategia vincente”. Ma il problema della transizione digitale in Italia va oltre le strategie governative e riguarda un approccio culturale che, mai come oggi, appare offuscato da equivoci e sconcertanti tentazioni conservatrici. Oltre che da qualche pasticcio, che sarebbe facile evitare.

Unica o nazionale, basta che ci sia una rete

A contribuire all’arretratezza culturale c’è, per prima cosa, un deficit infrastrutturale. Negli ultimi anni le cose sono migliorate, visto che l’Italia si piazza piuttosto bene nella classifica delle nazioni europee che hanno investito in infrastrutture. Cantare vittoria, però, è decisamente prematuro. L’esempio arriva dalla famigerata Banda Ultra Larga (BUL). Il bilancio in questo settore in Italia, per il momento, è sconsolante. La strategia iniziale, che puntava a non toccare lo status quo e lasciare all’iniziativa privata la creazione delle infrastrutture indispensabili per accompagnare la trasformazione digitale, ha fallito miseramente.

La conferma arriva dai numeri. L’agenda digitale europea aveva posto come obiettivo quello di garantire entro il 2020 connessioni a 30 Mbps a tutti i cittadini europei. Siano nel 2022 e in Italia la copertura a questa velocità è del 64,1% dei civici. Poco più della metà.

Il cambio di strategia passa quindi dalla “rete unica”, sul cui progetto però si sono abbattute differenze di visione a livello politico che riguardano principalmente il ruolo di Tim e il livello di controllo del governo. Tutti temi che hanno la loro importanza, certo, ma che hanno portato a una serie di avvitamenti che somigliano terribilmente a una perdita di tempo che non ci possiamo permettere.

Unico vantaggio: con il PNRR e delle scadenze che vengono verificate da un soggetto terzo (l’Unione Europea) sembra che le cose possano cambiare. Insomma: il nuovo programma per la BUL (scadenza 2026) potrebbe andare meglio. O per lo meno si spera.

Buttare lo SPID con l’acqua sporca

Parlando di pasticci, arriviamo dalle dichiarazioni che mettono in dubbio il futuro di SPID. Mentre si aspetta che le dichiarazioni del Sottosegretario Butti si sedimentino fino a diventare qualcosa di commentabile (per ora regna una certa confusione) il primo rilievo è che, forse, sarebbe stato meglio evitare le dichiarazioni stesse.

Perché è vero che Carta d’Identità Elettronica (CIE) e SPID rischiano di essere un doppione e che dalle parti del governo stiano ragionando su una strategia per mettere un po’ di ordine non è scandaloso. Per il momento, però, SPID sta facendo egregiamente il suo lavoro e la dimostrazione arriva dal fatto che 33 milioni di cittadini italiani lo stanno usando.

La Carta d’Identità Elettronica, invece, è ancora qualcosa che possiamo considerare in fase embrionale. È costosa (22 euro) e difficile da usare, visto che per utilizzarla da PC sarebbe necessario usare un lettore NFC. SPID, con tutti i suoi difetti, è disponibile gratuitamente per la maggior parte delle funzionalità e, soprattutto, è già diffuso.

Insomma: legittimo pensare che un giorno i due sistemi convergano (o che uno sostituisca l’altro) dopo aver risolto i problemi che li riguardano. Sparare ad alzo zero su una tecnologia affermata e apprezzata dagli utenti nel nome di un futuribile passaggio di consegne, però, non è proprio un’idea geniale. Soprattutto perché nelle more del cambiamento, nessuno (comprensibilmente) prevederà investimenti in una direzione o nell’altra. Il semplice annuncio, in definitiva, rischia di bloccare l’evoluzione dell’Identità Unica Digitale.

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