Fare business oggi significa anche saper “cogliere il momento” in cui all’utente serve uno specifico servizio consumabile “qui e ora”. È abbastanza facile immaginare quanta tecnologia di analisi, profilazione, security, integrazione applicativa ci sia dietro questa modalità di ingaggio e come stia rapidamente diventando ormai insufficiente chiedersi ciò che oggi molte aziende stanno chiedendosi: “quali app posso portare in mobile e quali dispositivi supportare?”
Proviamo a mettere in fila i pro e i contro della radicale trasformazione tecnologica che oggi stiamo vivendo, sia come persone sia come aziende.
Gli ormai classici pilastri sui quali ridisegnare le funzionalità dei sistemi informativi stanno sviluppando le loro dinamiche, rendendo evidenti vantaggi e criticità. Se pensiamo infatti al cloud, alla mobility, alla nuova collaborazione impresa-mercato attraverso i social (social business) e alla possibilità di analizzare la complessità competitiva attraverso analytics da cui ricavare nuove opportunità di business (quando non nuovi mercati), troviamo tutte le tecnologie di base necessarie per la nuova digital enterprise. Anzi, avendo ben chiaro questi snodi, l’opportuna combinazione di queste tecnologie può garantire quella capacità di “innervazione digitale” dei processi attraverso i quali l’azienda opera, nonché generare nuove occasioni di proposta di prodotti e servizi a base digital.
Guardiamo per ora al versante positivo di questo scenario.
Il cloud, almeno secondo i dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano che saranno resi noti tra qualche giorno, sembra aver finalmente “messo la quarta” anche nel nostro Paese. Il modello as-a-service rappresenta ormai una delle risposte meglio definite e più chiare a quella necessità di accorciare i tempi e di flessibilizzare la capacità di erogare servizi applicativi alle Lob. Che questo poi significhi risparmi non è affatto detto. Anzi, ormai il senso comune, frutto di esperienze maturate negli ultimi anni, indica che il risparmio del passaggio al cloud rispetto a percorsi “on premise” non è poi alla fine così significativo. Il vero valore, se colto, sta altrove. Certamente il cloud spinge la stessa organizzazione It a quella trasformazione in una nuova dimensione di soggetto “business value” nel quale il Cio assume sempre più un ruolo interpretativo delle esigenze del business, da un lato, e dall’altro di orchestratore di servizi e di partner per garantire valore di business nella corretta erogazione applicativa. Che è poi questa, in ultima analisi, l’esigenza vera del business nei confronti delle tecnologie digitali.
Sulla rivoluzione mobility (mobile economy), i dati si sprecano. Possiamo senz’altro dire, in sintesi, che il fenomeno sta guidando una radicale, profonda trasformazione delle tecnologie e dei processi che stanno “a monte” della fruibilità mobile da parte dell’utente finale. In altri termini, i sistemi informativi, in tutte le loro componenti, applicazioni, sistemi, tecnologie di security, reti, stanno rivedendo le proprie funzionalità (sempre più in modo “smart”) per riuscire a “garantire la fruibilità dell’azienda nelle tasche dell’utente”, come ha avuto modo di dire di recente Forrester in un suo studio dedicato al fenomeno. Più precisamente, Ted Schadler, Vp, Principal Analyst Serving Cios di Forrester, intervistato poco tempo fa da ZeroUno, ha dichiarato che ormai molte aziende stanno reingegnerizzando i loro processi per indirizzare il cosiddetto “Mobile moment” dell’utente finale e che per questo serve, di pari passo alla trasformazione tecnologica, anche un radicale cambio di mentalità in azienda. Di che si tratta? Dell’esigenza dell’utente di poter ottenere ciò che gli serve dal device mobile, consultato nel contesto in cui ci si trova e nello specifico momento del bisogno. Fare business oggi significa anche saper “cogliere il momento” in cui all’utente serve uno specifico servizio consumabile “qui e ora”. È abbastanza facile immaginare quanta tecnologia di analisi, profilazione, security, integrazione applicativa ci sia dietro questa modalità di ingaggio e come stia rapidamente diventando ormai insufficiente chiedersi ciò che oggi molte aziende stanno chiedendosi: “quali app posso portare in mobile e quali dispositivi supportare?”.
Collaboration. Il recente studio “The Customer Activated Enterprise” dell’Ibm Institute for Business Value condotto su 4183 C-level in 70 paesi rileva, per quanto riguarda le interviste svolte nell’area Ceo, che la collaborazione e l’interazione con i clienti sarà tra le prime fonti di definizione delle nuove strategie di sviluppo nei prossimi anni. Una nuova, forte competizione sui propri mercati tradizionali provenienti da competitor di altri settori, e quindi la necessità di fornire nuove risposte in termini di prodotti e servizi sempre più personalizzati, sempre meglio rispondenti alle esigenze del mercato, sta indirizzando gli investimenti in tecnologie di collaboration per costruire ecosistemi capaci di supportare articolate modalità di interazione con gli utenti. L’influenza delle persone nelle strategie aziendali è riconosciuta ormai al livello di board e le aspettative dei clienti di poter avere relazioni personalizzate nonché una propria funzione proattiva o di indirizzo nei confronti dell’azienda, rappresenta un volano per lo sviluppo del business che le imprese non possono permettersi di ignorare. Il social business, in pratica, si costruisce attraverso tecnologie e processi che, mai come in questi casi, passano dalla corretta profilazione, analisi e collaborazione dei clienti.
Analytics. Le tecnologie di real time analysis, con livelli prestazionali sconosciuti soltanto pochi anni fa, portano oggi nelle aziende una nuova dimensione interpretativa della complessità a tutti i livelli. Anzi si può dire che delle forze “disruptive” di cui stiamo parlando, quella dell’analisi potenzialmente applicabile all’ambito big data, è l’unica che consente alle imprese di costruire una sorta di “laboratorio di R&D” dal quale generare l’evoluzione della propria offerta di prodotti e servizi. Abbiamo ormai abbandonato il vecchio concetto di Business intelligence, con lo studio sui dati del passato dai quali prendere decisioni più o meno tempestive, per entrare nel mondo della simulazione real time, dell’analisi su interi insiemi di dati da cui derivare scelte di strategie e/o di nuovi sviluppi non prevedibili. Quando il tempo di analisi si riduce, teoricamente, da giorni ad alcuni minuti, fino al tempo reale, è ovvio che il problema non è più tecnologico, ma di cultura dell’analisi.
Partiamo allora proprio da quest’ultimo punto per una veloce disamina sulla “parte oscura” di questi fenomeni, “The Dark Side of the Moon”.
Sul fenomeno Analytics, allora, pensiamo a come oggi le nostre aziende sono strutturate e quale ruolo stanno giocando i sistemi informativi. È chiaro che la sfida è impegnativa; non è più sul come gestire la crescente mole di dati, ma si sposta su come poter trasformare in valore queste miniere di informazioni all’in-terno delle quali sappiamo esserci il vero vantaggio competitivo. I freni però sono oggettivamente molti. Come rendere distribuita (e non solo presente in alcuni “silos”) una “cultura dell’analisi” in aziende oggi molto verticalizzate? Come condividere con il business una complessità di analisi che non può vedere due mondi separati, quello delle Lob e quello dei sistemi informativi, ma deve saper ricavare dai dati una serie di interpretazioni declinabili su un’evoluzione del modello di business e su un’offerta strategica dell’azienda? È in questo cambiamento organizzativo e di ricerca di nuove competenze che si giocherà la partita della diversificazione competitiva. Cercando di destrutturare, soprattutto nelle imprese più grandi, il legacy tecnologico, organizzativo e culturale accumulatosi nei decenni.
Sul cloud, la rivoluzione è in corso. Siamo tutti orientati al modello as a service. L’Italia, rispetto ad altri paesi europei, si posiziona nella parte alta della classifica in termini di sviluppo di progetti cloud; peccato che il nostro paese soffra da sempre di irrisolti problemi infrastrutturali. Le connessioni, la rete, la copertura non è quella di un paese che vuole digitalizzare la propria economia e competere ad armi pari con gli altri. In Lombardia esistono ancora zone in cui si lavora con le parabole perché la banda larga non è arrivata. Insomma, l’Italia non ha una infrastruttura capillarmente diffusa e performante (e tecnologicamente all’avanguardia) per sostenere la propria strategia digitale. E questo, su un piano politico, non è ormai più giustificabile. Per questo continuiamo a fare il “cloud all’italiana”, spesso arrangiandoci ed erogando servizi “a macchia di leopardo” nelle varie aree del paese.
Mobility e social business, sono spesso fenomeni integrati. Entrambi soffrono, nelle aziende, di una non dichiarata forma di “ostracismo” da parte del dipartimento It, che li consideravano, almeno fino a poco tempo fa, minacce alla sicurezza e all’integrità del sistema informativo; talvolta “divertissment” del top management o di strani utenti del marketing che sperimentano “cose poco serie”. Far discendere da queste considerazioni nuove strategie tecnologiche e processi integrati per rendere mobility e social business parte organica del modello di business, significa, anche in questo caso, compiere un salto culturale che si sta certamente avverando, ma tra mille sforzi, incomprensioni e molto in modo tattico, a risposta di speficiche esigenze. L’accettazione da parte dei Cio di questi fenomeni “disruptive”, che inevitabilmente aggiungono complessità e potenziale fragilità ai sistemi informativi, significherà aver compiuto e guidato il salto verso una nuova dimensione dell’Ict aziendale. Comprendendo ciò che effettivamente serve al business per sviluppare insieme i progetti di una nuova digital enterprise.