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Cloud Repatriation: come valutare quando serve davvero



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La Cloud Repatriation, il “ritorno” dal Cloud a soluzioni on-premise, ha implicazioni notevoli in termini di complessità e costi. Scopriamo perché nasce e perché si rende necessaria.

Pubblicato il 29 apr 2024



Cloud Repatriation

Uscire dall’esperienza Cloud per tornare alle dinamiche on-premise nel 2024 può sembrare un controsenso, in particolare per chi segue i trend di mercato in termini generali. Tuttavia, la Cloud Repatriation è un tema complesso, in cui entrano in gioco diversi fattori, fra cui soprattutto costi e complessità crescenti.

Cloud Repatriation: non un trend, ma un argomento

Per farci spiegare meglio di cosa si tratta e le dimensioni del fenomeno abbiamo sentito Marco Gumini, Associate Manager di Horizon Digital, la business uniti di Horizon Consulting dedicata ai progetti ICT, che subito sottolinea come sia un ragionamento che molte aziende stanno affrontando. “Probabilmente non è un trend o un’esigenza comune, ma ci si sta domandando se abbia senso continuare sulla rapida adoption e se valga la pena di continuare in quella direzione o valutare altre soluzioni più tradizionali”.

Più che un trend, insomma, un tema che si aggiunge ai numerosi già presenti sui tavoli di chi gestisce l’ICT aziendale, e che in qualche caso trova cassa di risonanza nei dati. Secondo alcune stime il 25% delle aziende britanniche ha già effettuato operazioni di repatriation, mentre addirittura il 93% degli intervistati sarebbe in qualche modo impegnato in progetti che in qualche modo ne prevedono la valutazione.

Secondo Gumini, l’analisi deve partire dal tema dei driver. “In alcuni casi, almeno nella nostra esperienza, le decisioni originano anche da tendenze e trend di mercato, più che da reali esigenze tecniche o di opportunità”.

Perché le aziende valutano la Repatriation

Ma quali sono le ragioni che portano le aziende a valutare il ritorno a soluzioni on-premise? Secondo Gumini, quasi sempre il tutto nasce da un progetto non approcciato in maniera corretta o adeguata, in particolare quando si parla di aziende che avevano infrastrutture preesistenti.

“Quasi sempre in questi casi le migrazioni avvengono in modalità Lift & Shift (che, ricordiamo, prevede lo spostamento del sistema esistente in Cloud – ndr) ma questa non sempre è efficace per le infrastrutture datate, perché non prevede l’ottimizzazione di costi e risorse in funzione delle caratteristiche specifiche delle soluzioni Cloud”.

Insomma, le aziende che stanno facendo valutazioni di questo tipo normalmente stanno affrontando progetti non guidati o governati nel modo corretto, che hanno condotto a un’adozione Cloud non efficace al 100%.

I costi del Cloud e il loro ruolo nella Repatriation

Senza dubbio uno dei driver più importanti nella scelta delle aziende di allontanarsi dal Cloud sono i costi. “Anche se il modello Cloud ha una serie di vantaggi evidenti e il grande pregio di mettere strumenti di classe enterprise a disposizione di tutti, è innegabile che la fase di guida per le aziende sia fondamentale. Costruire un progetto che sia calzato perfettamente sulle esigenze nel cliente è l’unico modo per fare sì che tutti i costi siano chiari e sia possibile fare una valutazione ponderata” continua Gumini.

Perché, così come la Cloud Repatriation non è sempre la soluzione a un progetto che non incontra le aspettative, è anche vero che il Cloud non sempre è la soluzione perfetta, anche se in molti casi rimane quella privilegiata dai vendor.

La soluzione è nell’equilibrio

Insomma, secondo Gumini, nell’attuale scenario delle repatriation auspicate c’è almeno una parte di responsabilità da parte dei vendor: “Osservando i cataloghi dei principali vendor, possiamo notare un fatto che li accomuna: il servizio Cloud è sempre l’offerta principale, mentre le opzioni on premise, pure presenti, hanno un ruolo assolutamente cadetto. Certo, il Cloud è comodo per tutti, ma non è detto che sia sempre adeguato: per esempio problematiche non risolvibili come la connettività o contingenti come le prestazioni necessarie, possono giocare a favore di soluzioni più tradizionali”.

L’entusiasmo iniziale per il Cloud ‘sempre e comunque’, insomma, dovrebbe essere lasciato da parte a favore di un approccio più ponderato. La stessa ponderazione che dovrebbe ritrovarsi anche nella repatriation.

“La repatriation ha senso, come tutte le attività IT progettuali, dopo una attenta analisi, in particolare dei workload dei componenti chiave come MES e WMS, per evitare che si crei un ‘ping-pong’ fra infrastrutture on premise e Cloud dovuto a scelte avventate”.

Uno scenario a elevata complessità

Tuttavia, ascrivere l’intero tema a una contrapposizione di costi e prestazioni sarebbe riduttivo. Nella scelta rientrano numerosi altri parametri che Gumini segnala. Per esempio, il trust nei confronti di un provider specifico, ma anche cambiamenti e adeguamenti normativi che impongono, per ragioni di compliance, la conservazione dei dati con modalità e su territori specifici. Anche se i provider sono mediamente molto agili a recepirli, questo può introdurre nuovi costi che fanno preferire la valutazione di soluzioni alternative.

“Nel futuro noi vediamo uno scenario sempre più ibrido e personalizzato. Per esempio, in molti casi accade che le aziende dispongano di hardware e strumenti in-house che possono essere usati per contenere i costi e migliorare le prestazioni del Cloud. Per esempio, per avere una soluzione di disaster recovery di prossimità, oppure per emulare on premise alcuni processi tipici del Cloud (in modo simile a quanto accade con l’Edge Computing) e ottenere maggiore resilienza, per esempio quando la connettività e carente dal punto di vista infrastrutturale” conclude Gumini.

La strada, insomma, sembra chiara: anche la Cloud Repatriation non è una soluzione assoluta né una sorta di panacea. Ancora una volta, l’importante è conoscere perfettamente risorse ed esigenze dell’azienda e prendere decisioni alla luce di queste, senza farsi trascinare da trend di mercato o da offerte serializzate.

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