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Data center sottomarini: alla prova del 9(0)



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Si sperimentano luoghi remoti per immagazzinare dati, consapevoli che aumenteranno sempre di più, come anche i consumi energetici per conservarli. Sotto il livello del mare, ci sono speranze su cui si può scommettere, con prudenza, almeno per qualche mese

Pubblicato il 10 giu 2024

Marta Abba'

Giornalista



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Emissioni di carbonio ridotte del 40% e spese operative del 30%, costi di raffreddamento quasi azzerati. È questa la promessa che il mare custodisce a centinaia se non migliaia di metri di profondità, per chi si azzarda ad affidargli le proprie infrastrutture e i dati dei rispettivi utenti. Una prova di fiducia nei confronti di abissi imperscrutabili che non è semplice da affrontare, soprattutto in tempi in cui rappresenterebbe l’ennesimo azzardo per chi vive sulla propria pelle le sfide del digitale.

Non è una sfida semplice nemmeno da proporre sul mercato, ma c’è un’azienda che sta sperimentando la tecnica del periodo di prova e sembra possa essere una strada percorribile per innovare.

Progetto OTTO, per chi teme il mal di mare

La protagonista si chiama Subsea Cloud e si presenta proponendo ai suoi potenziali clienti di provare le proprie strutture di data center sottomarine per un massimo di 90 giorni. Nessun obbligo di acquisto, nessuna caparra, solo la possibilità di osare senza accollarsi un rischio che pochi oggi sentono di voler correre. 

Questa operazione di business è così strategica per l’azienda e per il settore che ha anche un nome: si chiama progetto OTTO. I suoi vantaggi sarebbero quelli di ridurre la potenza e i costi, due punti dolenti per chi gestisce data center che potrebbero convincere anche chi non ha familiarità con l’ambiente sottomarino a provare. Non bastavano a spingere alla prova individuale pre-acquisto offerta dalla stessa azienda in passato, ma sembra che ora bastino per chi è chiamato a sperimentare gli abissi per tre mesi.

A quanto emerge, si tratterebbe di cicli di prove a rotazione e non ripetibili, a meno di forti cambi di hardware che lo rendano “come nuovo”. Il tutto sarà svolto in un’unità di data center, situata al largo delle coste della Norvegia sud-occidentale a partire da ottobre, con la libertà di scegliere un periodo di prova di 30, 60 o 90 giorni.

Abissi di mare: alla ricerca di spazio e sostenibilità

L’idea girava nei corridoi di Subsea Cloud dal 2022, ai tempi di un annuncio dell’installazione di una prima unità operativa nello Stato di Washington e della programmazione di altre nel Golfo del Messico e nel Mare del Nord. Ogni unità di data center era prevista con dimensioni pari a 6,1 x 2,6 metri (20 x 8,5 piedi), per contenere fino a 16 rack, ovvero 826 server.

Ogni utente oggi trova quindi queste “misure” quando accetta di fare la prova, usufruendo dei server, oppure portando il proprio kit e affittando semplicemente l’alimentazione, lo spazio e la connettività, come se si trattasse di un fornitore di colocation terrestre.

Gratuita o meno, al momento l’offerta non è chiara in tal senso, l’offerta avrebbe “vantaggi pratici e reciproci”, si indica, ma non senza “ma”. Il principale riguarderebbe le modalità di accesso, non banali: sarebbero necessarie secondo la stessa azienda dalle 4 alle 16 ore per recuperare un’unità e sostituire o mantenere i server. Una criticità di cui tenere conto, ma che non ferma il trend sottomarino, convincente anche per Microsoft che ha già condotto il suo personale esperimento “Project Natick” al largo delle isole Orcadi, in Scozia. Un esperimento coraggioso ma non il più coraggioso: l’Unione europea sta infatti pensando a uno studio di fattibilità per la realizzazione di data center in orbita e una startup statunitense di uno sulla superficie della Luna.

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