Il mercato Internet of Things (IoT) sta finalmente decollando anche in Italia, avendo toccato l’anno scorso i 900 milioni di euro di valore, con 6 milioni di oggetti connessi tramite SIM, a supporto soprattutto di applicazioni Smart Metering (contatori intelligenti), Smart Car, Smart Home & Building, mentre l’ambito Smart City – il più promettente – fatica a trovare finanziamenti.
Quello del “funding” è in effetti un problema generale dei progetti IoT a livello internazionale, perché in un settore ancora in fase iniziale è difficile dimostrare ritorni certi, e d’altra parte la crisi economica riduce la disponibilità di risorse sia a livello pubblico che privato. In questo scenario comunque i modelli principali di finanziamento che si stanno affermando sono tre – fondi pubblici, co-partecipazione pubblico-privato, e “crowdfunding” (finanziamento “dal basso” di singole persone o associazioni) – ma altri sono in sperimentazione nelle varie parti del mondo.
Un interessante confronto tra i punti di vista europei e americani è stato fatto recentemente da Alicia Asin, CEO di Libelium (un produttore spagnolo di sensori per applicazioni IoT), in un articolo su GigaOM. «E’ importante capire quali modelli si stanno affermando nelle diverse regioni e continenti – scrive Asin -: ho partecipato ultimamente a due manifestazioni dedicate alle tecnologie M2M (Machine-to-Machine) e IoT, una a Cambridge (UK) e l’altra a Washington, e mi ha colpito il fatto che gli approcci prevalenti erano lontani tanto quanto le due città».
Un elemento di cui tenere conto è per esempio la forte frammentazione del mercato. «Dalla nostra prospettiva di produttori di hardware e sensori per l’IoT, abbiamo piccole fonti di fatturato provenienti da molti settori verticali, ma quelli che fanno da traino sono due: Smart Agriculture e Smart City, che ben esemplificano i diversi modelli di finanziamento dell’IoT», spiega Asin. Nel primo ambito infatti i progetti sfruttano per lo più investimenti privati, anche perché i ritorni sono piuttosto evidenti fin dall’inizio. Per le Smart City invece lo scenario è più complesso e le parti coinvolte sono molte: enti pubblici, imprese private, comunità di cittadini e mondo accademico.
Finanziamenti pubblici: l’Europa fa da traino
In generale comunque il modello più diffuso è quello della sovvenzione pubblica, con fondi statali, locali, o comunitari. Se non ci fosse stata la crisi economica, questo probabilmente sarebbe stato il modello largamente prevalente per supportare l’IoT, ma comunque i finanziamenti dell’Unione Europea stanno giocando un ruolo importante nel permettere un buon numero di progetti pilota di Smart City, e quindi la sperimentazione di tecnologie e servizi attivabili.
L’opinione prevalente all’evento di Cambridge, sottolinea Asin, era in effetti che i fondi UE stiano facendo la differenza, perché danno all’Europa un ruolo di traino nei progetti Smart City rispetto agli USA. A Washington invece ha prevalso lo scetticismo verso il modello dei finanziamenti pubblici, ritenuto non sostenibile nel lungo periodo. «Negli USA si sottolinea che molti dei progetti più importanti di Smart City in Europa finanziati dalla UE sono gestiti da team di ricercatori universitari, e non poggiano su “business case” ben definiti; d’altra parte occorre ricordare che l’obiettivo principale di queste iniziative è validare le tecnologie».
Partnership pubblico-privato, il punto è la ripartizione di rischi e ritorni
Il secondo modello più diffuso è sicuramente quello della partnership pubblico/privato (PPP), in cui le imprese private investono e condividono i benefici di risparmio di costo con le municipalità. È molto interessante anche perché fa nascere nuove forme potenzialmente durature di cooperazione e condivisione di risorse. È un approccio molto utilizzato in USA per progetti di Smart City, soprattutto riguardanti trasporti e infrastrutture.
In generale i contratti di PPP sono caratterizzati da contratti di lungo periodo tra PA e soggetti privati, condivisione dei rischi di progetto, utilizzo di finanziamenti privati (spesso sottoforma di Project Financing), e pagamenti al privato da parte degli utenti del servizio, della PA o di entrambi.
In generale in questo tipo di progetti l’attenzione non si concentra solo sulla copertura “ex ante” dei costi attesi, come avviene spesso per le iniziative sovvenzionate solo dal pubblico, ma soprattutto sul project management, e sull’economicità e sostenibilità nel tempo. Il coinvolgimento di privati impone la definizione di business plan dettagliati per quanto riguarda costi di investimento e di gestione, tempi di realizzazione, modalità di gestione a regime e ripartizione delle entrate e dei ritorni tra i vari soggetti coinvolti.
Se il finanziamento è “social” (crowdfunding per IoT)
Il terzo modello prevalente è la partecipazione agli investimenti da parte di cittadini e comunità, anche attraverso piattaforme web di “crowdfunding” come Kickstarter. A questo proposito un esempio è Spark, azienda americana nata nel 2013 che ha che ha sviluppato un piccolo dispositivo capace di connettere in WiFi qualsiasi oggetto, e ha ottenuto un finanziamento di oltre mezzo milione di euro appunto su Kickstarter.
Asin cita altri casi come AirQualityEgg, un “oggetto intelligente” che misura la qualità dell’aria, sviluppato dagli “Internet of Things Meetup”, gruppi di cittadini (designer, tecnologi, sviluppatori, architetti, studenti) di varie città nel mondo, prime tra tutte New York e Amsterdam, e la rete di sensori aerei SafeCast per la rilevazione della radioattività nella regione di Fukushima. «È un modello che può funzionare, e che forse può essere incentivato da Stati e Governi offrendo sgravi fiscali o altri vantaggi ai cittadini che comprano i sensori e sviluppano le reti».
Le alternative: Finanziare IoT con Venture Capital e Business Angel
Se questi sono i tre principali modelli di finanziamento dei progetti IoT citati da Asin, non sono gli unici. Vale la pena di citare anche il Venture Capital, che di norma evita investimenti in settori ancora in fase di validazione delle tecnologie e senza ritorni certi a 3-5 anni, come l’IoT, ma con importanti eccezioni. Un esempio è Neul, una startup specializzata in reti wireless dedicate al traffico M2M che sfruttano le cosiddette “white frequencies”, cioè le frequenze UHF lasciate libere dalle trasmissioni TV, che ha tra i suoi azionisti tre fondi europei e uno giapponese.
Un altro è Streetline, una piattaforma (rete di sensori più Mobile App) in grado di monitorare in tempo reale la disponibilità di parcheggi nelle città: nata nel 2005, negli anni ha ricevuto diverse tranche di finanziamento, tra cui una di circa 25 milioni di dollari un anno fa da parte di cinque Venture Capital americani. Estremamente rari, e ristretti ai Paesi anglosassoni, sembrano invece per ora i casi di “Business Angel”, in cui persone singole o gruppi in possesso di capitali e reti di relazioni di business (ex titolari di impresa, manager in pensione o in attività, liberi professionisti, ecc.) investono in startup promettenti in ambito IoT supportandole con risorse finanziarie, ma anche con consigli, conoscenze tecniche e operative, e introduzioni presso possibili partner e investitori.
La situazione dei finanziamenti IoT in Italia
E in Italia? Secondo il recentissimo Osservatorio Internet of Things del Politecnico di Milano, il modello di sovvenzione pubblica prevale largamente. In particolare oltre un terzo dei progetti Smart City nel nostro Paese si basa ancor oggi su fondi provenienti da bandi UE (Horizon 2020, LiFe+, FeSR − Fondo europeo di Sviluppo Regionale) o su finanziamenti pubblici a livello nazionale (come i bandi MiUR 2013 per le “Smart cities and communities”). Tra le eccezioni vi sono diverse applicazioni di “illuminazione intelligente” e raccolta rifiuti, i cui benefici sono talmente tangibili da attirare investimenti molto più facilmente.
Quanto al principale modello alternativo, la Partnership Pubblico-Privato (PPP), mentre all’estero si osserva un buon livello di diffusione (20% circa dei progetti esteri analizzati dall’Osservatorio) e iniziano a prendere forma i primi casi di successo, in Italia il ricorso a tali strumenti rimane limitato. Le cause sono tre: la difficoltà di individuare forme di remunerazione per i privati, l’inquadramento nel contesto normativo italiano, e una generale “diffidenza” verso gli strumenti di project financing alla base di molte PPP. Su questo ultimo punto però, sottolinea l’Osservatorio, sta lavorando il “Comitato per le comunità intelligenti” istituito dall’Agenzia per l’Italia Digitale, con l’obiettivo di definire un set di modelli di coinvolgimento e cooperazione finanziaria facilmente comprensibili e spiegabili ai cittadini da parte dei decisori pubblici.