Tra i molti misteri che permeano la legge a tutela del Diritto
d’autore, spesso difficile da interpretare anche dagli
addetti ai lavori, il compenso dovuto agli aventi diritto per
la cosiddetta “copia privata” è forse tra i meno
noti, o meglio quello che meno appare alla grande massa dei
consumatori (di musica e non), ma genera un discreto fatturato
per l’ente preposto a raccogliere tale compenso (la
SIAE).Il recente Decreto Ministeriale del 30/12/2009 che
integra il DL 9/4/2003 (Attuazione della Direttiva 2001/29/CE
sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto
d’autore e dei diritti connessi nella società
dell’informazione) introduce modifiche alla disciplina in
materia di compenso per la riproduzione privata per uso
personale di fonogrammi e videogrammi (“copia
privata”). Tra le modifiche assumono un ruolo particolare
quella sull’articolo 71 septies della Legge 633/41
(Diritto d’autore). Il Decreto ha probabilmente portato
alla ribalta una “piccola norma” che sino ad oggi
ha garantito un introito di parecchie decine di milioni su base
annua, ma è certamente destinato a salire verticalmente.
Uso personale: la copia privata si evolve
In breve vediamone il meccanismo e la base giuridica: la copia
e successiva riproduzione di fonogrammi o videogrammi è
consentita alle persone fisiche per uso esclusivamente privato
e senza fine di lucro e/o fini commerciali. I meno giovani si
ricorderanno i dischi copiati sulle musicassette per poi essere
suonate nelle autoradio o nei riproduttori portatili. Ebbene
quell’arcaico uso personale della musica (copiata e
riascoltata), o quanto invece si verifica oggi con tutti i
nuovi mezzi tecnologici, ai sensi della Legge sul Diritto
d’Autore genera un (equo) compenso destinato agli autori
e produttori originari della musica, nonché agli artisti ed
interpreti ed esecutori della stessa.
La base giuridica, se non evidente prima facie, è invece
fortemente logica: se ogni duplicazione della musica, o delle
immagini, per essere successivamente riprodotta è da
considerarsi uno “sfruttamento” in senso lato di
un’opera tutelata dal diritto d’autore, allora
anche la copia per uso privato rientra nel concetto di
sfruttamento (seppur non a fini commerciali), e dunque essa
stessa è generatrice di un compenso a favore degli aventi
diritto. In questa logica tutti i supporti fisici atti ad
ospitare le copie di opere protette (in origine nastri
magnetici e musicassette, poi CD, CDr, DVD, DVD-rw ecc.)
“scontano” un prelievo alla fonte, assolto dai
produttori (e in subordine i distributori) di tali supporti.
Tale prelievo, in Italia raccolto da SIAE, viene naturalmente
girato sul prezzo al pubblico dell’oggetto stesso;
pubblico che in larga parte ha sempre ignorato tutta questa
costruzione giuridicoeconomica. Per dirla in parole molto
povere l’acquirente del supporto (si pensi soprattutto al
consumatore giovane) ignora che il prezzo pagato alla cassa
contenga anche un compenso all’autore della musica che
egli prima o poi copierà su tale nastro/ CD/DVD o altro. Sino
qui la storia in poche righe della copia privata. Ora
l’attualità. I primi commenti sull’estensione
della copia privata a, sostanzialmente, tutti i device
attualmente sul mercato che contengono una memoria atta ad
immagazzinare musica o video, hanno riportato critiche feroci,
a volte forse giustificate, ma troppo superficiali e confuse.
L’equo compenso “viaggia” tra i quindici
centesimi di un CDr, al 5% sul prezzo di un apparecchio idoneo
alla registrazione digitale o analogica di film, passando per i
quaranta centesimi ogni 25 gb di un Blue-Ray. La tabella dei
compensi è molto dettagliata ed articolata, tale da meritare
un commento a parte. Se ascoltiamo le critiche dei consumatori
e dei produttori dei supporti (troppo spesso riportate dai
giornali in modo acritico), balza subito all’occhio
l’assimilazione ad un ulteriore “balzello”
imposto dall’alto, e che qualcuno alla fine deve sempre
pagare. L’errore è talmente macroscopico che è
difficile pensare che non vi sia troppo spesso una volontà di
creare strumentalmente della disinformazione. L’equo
compenso previsto per la copia privata non è una tassa. Ciò
che si paga con l’acquisto di qualsiasi oggetto dotato di
memoria audio/video – in un mondo ideale – ritorna agli
autori della musica e dunque contribuisce non solo a compensare
il frutto della loro creatività, ma anche a consentire che
nuove opere siano create e messe a disposizione del pubblico.
Se questo schema ottimale (forse un po’ romantico) fosse
davvero compreso da tutti, probabilmente non esisterebbero
grandi polemiche: certo, un aumento del prezzo dei CDr/DVD
vergini o delle chiavette USB creerebbe qualche malcontento, ma
la coscienza di contribuire (seppur in modo impersonale e
generalizzato) alla continuità di un’arte così
“popolare” come la musica o il cinema avrebbe prima
o poi la meglio sulle doglianze del portafogli. Purtroppo non
siamo affatto in un mondo perfetto: il “bollino”
sui supporti vergini nessuno, o quasi, sa cosa significhi, e
quanto il compenso sia davvero “equo”; forse ci
vorrebbe qualcuno che ce lo spiegasse (così come funziona il
meccanismo di ripartizione di quanto incassato). Il
“pubblico”, invece, continua a considerare il
diritto d’autore come una tassa da pagare, quindi per
definizione ingiusta (nella migliore lettura del regime fiscale
italiano) e come tale (potendo), da evadere, eludere,
aggirare.
La SIAE non è il Fisco
Un discorso a parte merita l’ente preposto alla
riscossione del compenso, ed alla vigilanza sul rispetto della
norma che lo prevede, e di larga parte dell’intera Legge
sul Diritto d’Autore. Se volessimo stilare una speciale
classifica degli enti istituzionali più odiati (ed incompresi)
dagli Italiani, probabilmente la SIAE si posizionerebbe molto
vicino all’Agenzia delle Entrate. E’ singolare come
nell’immaginario collettivo le doglianze vadano al
collettore del diritto piuttosto che al titolare del diritto
stesso, ma nella fattispecie è cosa nota. …Io non sono
cattiva, è che mi disegnano così! La SIAE è un po’
come Jessica Rabbit: appare insopportabile, a volte lo è, ma
in fondo non è davvero tutta colpa sua. Per molti (giovani in
testa ma non solo) la SIAE è il braccio armato di un sistema
di riscossione opaco, scaturente da una norma arcaica, poco
comprensibile e che, per certi versi, pare a beneficio di pochi
privilegiati.
Un fondo di verità esiste: SIAE si comporta troppo spesso come
l’ESATRI o EQUITALIA, a cui non importa nulla della ratio
che sottende al proprio diritto di incasso, anzi lo ignora (o
finge di ignorarlo) limitandosi a fare il lavoro sporco in modo
acritico. Così facendo SIAE troppo spesso ingenera il profondo
convincimento nell’utente/consumatore di essere
l’ennesima emanazione del Fisco, o peggio, di un fisco
privato costruito ad arte per privilegiare una casta. Chiunque
avesse voglia di informarsi meglio capirebbe che la realtà è
un po’ diversa, ma se nessuno contribuisce a fare
informazione e formazione, ed i comportamenti pubblici vanno
costantemente nella direzione opposta, il fraintendimento
assurge a consuetudine, come tale molto difficile da sradicare.
Il gap culturale in materia di diritto d’autore, ed in
particolare dei suoi risvolti economici in relazione
all’utilizzo della musica, è una sorta di Grand Canyon
sociale che sembra destinato inesorabilmente ad approfondirsi
nell’assoluto disinteresse di tutte le parti sociali ed
istituzionali coinvolte.
Se la musica fosse gratis
Proviamo a sintetizzare il percorso socio/giuridico che conduce
alla “riscossione” dell’equo compenso, e
vedremo che le nuove “tariffe” sulla copia privata
sono in fondo abbastanza ragionevoli. Diamo come assioma che
l’utilizzo della musica non può essere gratis (argomento
delicatissimo che non può essere trattato all’interno di
questo articolo). Limitiamoci a dire che se la musica fosse
gratis (cioè nessuno pagasse per usarla), sempre meno soggetti
vi si cimenterebbero ed inevitabilmente questa verrebbe
inesorabilmente relegata ad arte minore, sulla quale non si
può vivere né investire, e dunque destinata ad impoverirsi e
non rinnovarsi. Ho appena scritto che la musica “libera e
gratuita” di sessantottina memoria è argomento profondo
e al contempo scivoloso per chi intende cimentarvisi, anticipo
la mia personalissima opinione che il gratis non si addica alla
musica, e spero che questa rivista mi dia in futuro spazio per
aprire un dibattito in materia davvero libero da ideologie e
luoghi comuni.
Se l’impiego della musica si estende, come per logica, al
suo “immagazzinamento” e successive riproduzioni in
portabilità, allora lo strumento fisico che consente tale
processo ne diventa il tool dello sfruttamento economico e,
come tale, unico destinatario del prelievo alla fonte. In
questa visione “legalista” dello sfruttamento
musicale va osservato che la norma sull’equo compenso
stabilisce un principio che trova ancora più logica e
rafforzamento nello sviluppo tecnologico di questi ultimi anni.
I device (mono o polifunzionali) dotati di memoria si sono
progressivamente moltiplicati, le loro capacità sono cresciute
in modo esponenziale, e nel contempo inversamente proporzionale
alle dimensioni e prezzo. Tale sviluppo dovrebbe pertanto
sostenere economicamente anche il contenuto, e cioè la musica,
che dunque ne uscirebbe beneficiata dalle meraviglie della
tecnica digitale. Quest’ultimo aspetto, per essere
obbiettivi, non può essere scevro da critiche. La tabella dei
compensi, inclusa nell’allegato tecnico al decreto,
prevede diversi tipo di prelievo: flat, a percentuale sul
prezzo di vendita, a numero di gigabyte.
L’argomento è stato discusso anche a livello comunitario
ed ogni commento, a favore o contro detta metodologia, ha i
suoi sostenitori. A mio modestissimo avviso l’opzione
più logica sarebbe quella del solo compenso percentuale:
irrisorio sul mero supporto semplice (CDr, DVDr e simili), più
consistente sul device tecnologicamente complesso, magari con
una sottodifferenziazione tra apparecchi mono o poli
funzionali, per usare il lessico della Legge. La logica è
quella di porre in maggior risalto la capacità ed attitudine
alla spesa del consumatore finale in relazione
all’oggetto acquistato. Colui che compra un iPhone, un
riproduttore Blue-Ray piuttosto che l’ultimo modello di
PSP, ha di certo una capacità economica tale per cui un equo
compenso percentuale sul prezzo, probabilmente, non
condizionerà in maniera determinante la sua propensione
all’acquisto di quel bene specifico. Per contro, è
altrettanto risaputo che l’impiego effettivo da parte del
consumatore delle varie funzioni e capacità di questi tools
sia ben al di sotto dei rispettivi limiti tecnologici. Pertanto
la progressività del prelievo in base alle capacità di
memorizzazione mi sembra meno sostenibile: è davvero sensato
collegare il prelievo su un iPod alla sua capacità di memoria?
Chi possiede 10 mila brani musicali sul proprio lettore MP3
deve pagare di più del suo compagno di banco meno fortunato
che a Natale ha ricevuto un iPod nano con meno memoria? Siamo
seri e realistici: da dove vengono quei 5 o 10 mila brani? Da
altrettanti download legali o dal burning di altrettanti CD
presi in prestito da un amico?
Credo sia inutile dare una risposta concreta e non limitarsi a
“tassare” le potenzialità della tecnologia. Per
non scadere nel bieco lessico politichese, non dirò che il
problema è un altro o sta da un’altra parte: mi limito
ad affermare con pieno convincimento che l’argomento è
semplicemente molto più ampio, e deve essere affrontato,
fattore per fattore, ma senza perdere mai di vista la visione
d’insieme. L’equo compenso e’ un dovere non
solo legale ma sociale, ed è giusto pagarlo senza mascherarsi
dietro facili demagogie. Per contro deve essere davvero equo,
logico, facile da applicare, ma soprattutto facile da
comprendere. Perché la comprensione, e relativa accettazione
sociale sia possibile, serve un’informazione sistematica,
razionale e comprensibile. Se una modesta percentuale delle
svariate decine di milioni incassati all’anno a questo
titolo andasse in una sistematica formazione e divulgazione
degli aspetti più materiali ed immediati del diritto
d’autore, forse avremmo una migliore coscienza sociale
sull’argomento, ed una più alta considerazione di chi,
sino ad oggi, consideriamo invece come un bieco esattore degno
un romanzo di Dickens.