È cambiata la domanda di business applications o meglio, è radicalmente cambiato il contesto nel quale questa domanda si genera e, di conseguenza, è mutato il mondo dell’offerta. Nel panorama delle soluzioni applicative per le aziende abbiamo oggi grandi player internazionali che, con piattaforme applicative sempre più complete e accessibili (perlomeno nelle intenzioni) a una fascia sempre più bassa del mercato invadono pesantemente il campo di quelle, un tempo centinaia oggi fortemente ridotte di numero, software house locali che negli anni passati hanno così felicemente prosperato nel nostro paese. Il problema non è “big internazionali versus software house locali” ma di cercare di capire come i due modelli che stanno dietro a questi operatori possono convivere, quali le opportunità che gli operatori locali possono cogliere e, soprattutto, come devono strutturarsi per coglierle.
Complessità e massa critica
“Qualsiasi analisi sul mercato delle business applications – dichiara
Antonio Capparelli, Associate Director in Gartner – deve tener conto di alcune forze di caratterizzazione del mercato tecnologico in senso ampio e che condizionano l’offerta di business applications: il pervasive computing, ossia il fatto che gli utenti tendono ad impiegare strumenti e appliance diverse dal personal computer per accedere alle applicazioni; la convergenza tecnologica; l’open source; il concetto di utility nella fruizione di infrastrutture che vanno poi ad abilitare le applicazioni; il crescente peso dei servizi professionali nel mercato delle applicazioni stesse; l’offshoring nello sviluppo del software. Il mercato richiede sempre più di poter governare questa complessità e lo sviluppo di piattaforme in grado di farlo richiede una massa critica che giustifichi questo impegno”.
Quella scattata da Capparelli è una fotografia che, seppure declinata in modo diverso a seconda delle specifiche realtà, ci sembra condivisa dagli operatori nazionali che abbiamo intervistato. “È innegabile – dice, per esempio,
Giancarlo Fabbri, responsabile dell’evoluzione dell’offerta di Esa Software – che l’entrata in campo delle grandi aziende multinazionali ha cambiato lo scenario. Le funzionalità che richiede il mercato sono più complesse e complete e questo comporta investimenti importanti per sviluppare degli applicativi, soprattutto degli Erp. Quindi è indispensabile avere dei numeri, un mercato importante, altrimenti non si giustifica l’investimento. Non c’è più spazio per la piccola software house con il proprio applicativo e una scrematura in base alle dimensioni e le capacità di investimento c’è stata e continuerà ad esserci. Questo non toglie che c’è un mercato di nicchia, di mercati verticali dove c’è ancora spazio per applicativi molto specifici, di settore”.
E allora, quali devono essere le caratteristiche chiave di una software house che vuole essere un player significativo nel mercato nazionale? “La prima caratteristica fondamentale – risponde Capparelli – è quella della caratterizzazione, modulando un’offerta che riesca a trovare un qualche elemento di differenziazione; la massa critica è la seconda; in questo settore è molto difficile riuscire a competere senza avere una certa massa critica, che può essere anche di nicchia o su specifiche aree geografiche; la presenza locale, la vicinanza alle aziende clienti è un altro elemento chiave; e ancora, la capacità di generare partnership di diverso tipo”.
La competenza sui mercati
La competenza sui mercati rappresenta l’elemento differenziante evidenziato da tutti i nostri interlocutori. “Se parliamo di piattaforme tecnologiche di base – dice
Renato Ottina, amministratore delegato di Gruppo Formula – esse sono necessariamente di pertinenza di fornitori globali che abbiano la capacità di imporre standard di fatto e siano dotati di forza commerciale e respiro finanziario in grado di gestire tale complessità. Altro discorso è invece l’applicazione, che può e deve essere intesa sia in senso geo-politico (ad esempio attraverso l’attenzione alla normativa e allo stile di business locali, ed attraverso una ricerca e sviluppo in grado di rispondere con rapidità ai cambiamenti di mercato locali) sia in senso ‘verticale’, cioè riferita a come un certo mercato si declina su scala nazionale. Ci sono mercati verticali, fortemente caratterizzati dalla conoscenza e presenza della software house sul mercato locale in grado di declinare gli applicativi sviluppati sulle piattaforme di base in relazione alle esigenze specifiche degli utenti locali (e dei loro clienti)”. Secondo Ottina “gli Erp locali possono rispondere meglio di piattaforme applicative internazionali a tutte queste necessità, ma il produttore locale deve trovare accordi per condividere la ricerca sulle piattaforme tecnologiche, troppo costosa se limitata ad un mercato nazionale”. Anche secondo Cristina Zucchetti, membro del consiglio di amministrazione di Zucchetti,
“non si può prescindere dalla peculiarità del mercato domestico, della nostra particolare e complicata legislazione fiscale e dalla specificità delle aziende italiane; noi quindi crediamo che ci sarà ancora spazio per le aziende nazionali e non solo per mercati di nicchia e soluzioni verticali. L’importante è che si continui a investire e rinnovare l’offerta seguendo criteri di produzione del software di tipo industriale che garantiscano una qualità pari a quella delle software house internazionali”. Affermazione che Alessandro Zucchetti, membro del consiglio di amministrazione di Zucchetti, rafforza sottolineando come essa si affianchi alla specializzazione su mercati verticali e alla fondamentale componente dei servizi offerti.
“La nostra scelta – dice anche
Giuseppe La Commare, direttore generale di Ds Data System – è stata proprio quella di focalizzarci su alcune aree in modo da offrire soluzioni che non siano generaliste ma più vicine alle esigenze specifiche; soluzioni che si caratterizzano per la loro flessibilità, la capacità di adattarsi alle peculiari esigenze del singolo cliente perché il modo di operare di ciascuna azienda, anche all’interno dello stesso mercato, è diverso e la soluzione deve essere in grado di valorizzare questa diversità. Le aziende ‘big’ per la loro necessità di copertura globale del mercato non possono oggettivamente puntare al livello di flessibilità e specializzazione di offerta, soprattutto nelle soluzioni di integrazione come quelle da noi offerte, richieste da un mercato di medie imprese che operano in mercati competitivi”.
Il ruolo del servizio
Edoardo Bolzani, presidente di Rds Software, è molto drastico sul futuro delle software house italiane sul mercato enterprise, “non c’è storia; la fascia alta del mercato si rivolgerà alle big internazionali”, e prevede una lotta molto forte nella fascia alta delle Pmi, ma evidenzia come la fascia bassa rappresenti una potenzialità ancora totalmente inespressa. Bolzani non è certo un novellino del settore e quindi non si adagia su ipotetiche, ma non concretizzabili, opportunità: “Un tempo, le aziende che avevano bisogno di un Erp (nel vero senso del termine, non un semplice gestionale) erano quelle con certe caratteristiche. Oggi non è più così, il mondo è cambiato e ci sono realtà, piccole dimensionalmente, ma molto innovative che magari operano in Cina e che, quindi, hanno bisogno di sistemi di un certo tipo. Per non parlare dei problemi che avranno le piccolissime aziende quando Basilea II troverà piena applicazione; queste si sono cullate nell’idea che Basilea II riguarda le banche e le aziende di una certa dimensione, ma non è così; è una normativa che impatterà in modo devastante anche sulle piccole aziende che per farvi fronte si dovrebbero dotare di sistemi adeguati, con funzionalità da Erp”. Ma queste realtà difficilmente potranno accedere a grandi soluzioni applicative, sia nazionali che internazionali, nella classica modalità in licenza d’uso: “La strada – continua Bolzani – è l’Asp, l’application service provider, ma è una strada ancora lunga da percorrere perché c’è un problema culturale enorme. Il mercato c’è e lo dimostra il fatto che, per esempio, sono più di 300 le aziende che usufruiscono delle nostre soluzioni in modalità pay per use. Il vero problema è far comprendere a queste aziende la necessità di dotarsi di strumenti di questo tipo”. Ma Bolzani paventa anche un altro problema: “L’altra faccia della medaglia è che, dal lato dell’offerta, c’è un’enorme carenza nella proposta di servizi adeguati a queste realtà”. E quello dei servizi, anche se in un contesto completamente diverso perché riferito al mercato di fascia medio-alta, è un tema che affronta anche Fabbri: “Avere un applicativo all’altezza dal punto di vista tecnologico ovviamente è indispensabile, ma soprattutto non si deve giocare la partita solo sull’applicativo perché pensiamo che il punto di forza di strutture italiane sia la competenza consulenziale. La nostra strategia è quindi quella di dare valore alla nostra soluzione con la parte di servizi che sappiamo abbinare”.
L’internazionalizzazione
Ma in un mercato globale, è sufficiente essere un player importante sul mercato nazionale? “La risposta è: no”, dice Capparelli, e come vedremo è una risposta condivisa, seppur decilnata in modo diverso, da tutti gli operatori intervistati. “Basta vedere quel che è successo in termini di acquisizioni, partnership ecc. per comprendere che non è assolutamente sufficiente operare esclusivamente sul mercato nazionale”.
Un’azienda che sicuramente crede molto nell’internazionalizzazione è Microarea, come spiega
Enrico Itri, amministratore delegato dell’azienda: “Adesso i problemi sono emersi in modo drammatico, ma per costruire un futuro solido è tardi pensare oggi di cambiare la propria strategia. Noi lo abbiamo fatto anni fa muovendoci su tre direttrici: un prodotto allo stato dell’arte dal punto di vista tecnologico; una politica di canale rinnovata; l’internazionalizzaizone”. Quest’ultima rappresenta sicuramente quella più innovativa: “Nel farlo abbiamo tralasciato i mercati maturi che, sebbene apparentemente più appetibili, sono troppo competitivi e complessi e quindi abbiamo cominciato a muoverci sui paesi emergenti dell’Europa orientale e alcuni del Sud America. Ma ancor di più ci siamo spostati nell’Oriente e oggi in Cina. Dopo quattro anni di duro lavoro ci troviamo a competere anche con le ‘grandi’. La premessa fondamentale è che la nostra è una piattaforma che io definisco ‘molecolare’, che ci ha permesso di rimuovere facilmente le ‘molecole’ italiane per inserire quelle cinesi”. Il rapporto di collaborazione anche nello sviluppo del prodotto con il partner cinese è per Microarea molto importante: “Attualmente in Cina abbiamo un gruppo di R&D che collabora costantemente con noi come se fossimo un’unica azienda, è un continuo co-sviluppo per prodotti e per piattaforme”. La Francia, data l’offerta di una soluzione specifica per il fashion, è stata la scelta obbligata di Ds Data System che si è focalizzata sui mercati europei ma sta guardando con attenzione particolare allo sviluppo del mercato di India e Cina. Oltre alla collaborazione con partner in vari paesi, Zucchetti ha sedi a Dubai, Usa, Messico e un’azienda in Romania per quanto riguarda le soluzione di gestione delle risorse umane, mentre per i gestionali, che sono multilingua ma non ancora localizzati, l’obiettivo è di muoversi in questa direzione ma, dice Alessandro Zucchetti: “Per andare all’estero risulterà vincente applicare lo stesso modello: adattare l’offerta alla specificità locale e creare una rete adeguata”. E Fabbri riassume così la posizione di Esa Software: “Pensiamo sia opportuno aprirsi; stiamo testando qualche mercato straniero; abbiamo aperto un paio di filiali e abbiamo localizzato le soluzioni. Sappiamo che quella è una strada obbligata. Certo non andremo a cercare mercati maturi, ma mercati emergenti dove sia possibile impostare un lavoro nuovo” Diversa la posizione di Ottina: “All’estero si va insieme al cliente! Non si può avere la pretesa di sfidare i player locali. È necessario però accompagnare il cliente nel suo processo di globalizzazione, ma sfidare da zero i mercati esteri (senza cioè una rete di alleanze adeguata) è velleitario. Per questo Gruppo Formula basa la propria strategia di espansione all’estero (al di là delle filiali estere dei nostri clienti, che ovviamente supportiamo direttamente) su solidi accordi distributivi, ad esempio con la rete internazionale Sage, con cui abbiamo stipulato un’alleanza strategica per la distribuzione e il supporto”.
I vantaggi delle "italiane"
Concludendo, Capparelli elenca gli elementi che potrebbero far propendere per una software house italiana: “La prossimità, il fatto cioè che la concezione del prodotto e l’erogazione del servizio è molto più vicina al cliente, e che questi può più facilmente influenzarne gli sviluppi; una possibilità potenziale è poi la flessibilità, nell’offerta, nel pricing, nelle modalità di pagamento, ecc., perché i fornitori locali possono tener conto delle specificità locali e quindi possono essere più elastici; infine una maggiore potenziale stabilità manageriale e organizzativa della software house locale rispetto all’internazionale dove il management e gli skill tendono a cambiare più rapidamente”. Ma in ogni caso, e questo vale sia per le nazionali che per le internazionali, Capparelli sottolinea il ruolo importantissimo del canale.
MA LE PMI… DI COSA HANNO BISOGNO?
Lo scarso livello di informatizzazione delle Pmi deriva forse da un gap culturale delle nostre imprese ma potrebbe derivare anche dalla difficoltà dei grandi vendor di saper interpretare correttamente le loro esigenze, spesso inespresse. Questo ragionamento non vale tanto per le medie imprese, che già sono dotate di un certo livello di strutturazione, ma soprattutto per le imprese più piccole le cui pratiche organizzative sono largamente non codificate, ma risiedono soprattutto nella memoria delle persone, spesso del singolo imprenditore. Eppure anche le piccole imprese potrebbero trarre vantaggio dall’uso della tecnologia sia sul piano dell’organizzazione interna e sia su quello delle relazioni con le altre imprese, due aspetti che dopo l’avvento di Internet le tecnologie Ict sarebbero in grado di integrare. Ma su entrambi i versanti si incontrano difficoltà. L’interpretazione di Andrea Bonaccorsi, ordinario di economia e gestione delle imprese, presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Pisa, è che queste aziende, che manifestano grande capacità di adattamento, resistono invece alla codificazione spinta; spesso con qualche ragione. Per molte di loro la standardizzazione è molto complessa (è il caso di quelle che operano sulle materie prime naturali o di quelle che hanno una grande varietà di prodotti che rende difficile la normazione) e sono necessari, per dare valore all’It, uno sforzo e un costo, che pesa sulla singola impresa. “I fornitori Ict dovrebbero riflettere sull’approccio etnografico all’uso dell’Ict, il quale afferma che le tecnologie devono essere consonanti con le pratiche, altrimenti cadono nell’irrilevanza, ossia sono sottoutilizzate” afferma Bonaccorsi. Le soluzioni attualmente disponibili non sono in grado di seguire con la dovuta flessibilità gli elevati livelli di informalità, mobilità e velocità che caratterizzano le pratiche di molte piccole imprese. Anche se non è l’unico elemento di freno nell’adozione di processi strutturati. “Una ragione meno nobile deriva anche dalla presenza di sommerso: una parte importante delle attività delle imprese si svolge intorno alla gestione del capitale circolante, mentre forme importanti di informatizzazione, come l’adozione di sistemi Erp, si tradurrebbero in un controllo contabile molto spinto”, ci ricorda Bonaccorsi. Sul fronte delle relazioni fra imprese emerge soprattutto la difficoltà di rendere i media elettronici adeguati al tipo di comunicazioni, alla base del fallimento di tentativi di grandi fornitori. Un esempio per tutti è il caso di Prato, dove si era cercato di informatizzare il rapporto fornitore-cliente. “Per trovare un approccio corretto bisognerebbe riflettere sulla diversa ricchezza che caratterizza i media: questa dipende dall’ampiezza del canale e dalla sua flessibilità. La comunicazione interpersonale e quella telefonica sono certamente più ricche di quella scritta e ancor più di quella elettronica”, è la considerazione di Bonaccorsi. “Ci sono dunque buoni motivi per ritenere che le imprese piccole giochino buona parte della loro capacità relazionali su canali difficilmente forzabili dentro media elettronici”. Se questi sono i problemi, una forte presenza commerciale non è sufficiente a superarli, mentre un approccio di distretto, che presume di poter utilizzare grandi piattaforme su cui convogliare le attività di aziende che spesso competono fra loro, sembra destinato al fallimento. La soluzione intermedia, suggerita da Bonaccorsi, è che i vendor rendano disponibili propri esperti per esperimenti che stanno nascendo sul territorio che aggrediscono alcune problematicità, andando a coinvolgere non tutte le imprese ma solo alcune che hanno maggiore sensibilità. Da qui potrebbero nascere applicazioni originali fruibili da un mercato più vasto. Un esempio è un’iniziativa nell’area di Treviso (dove è nato un corso di laurea in design e sono fiorite diverse iniziative nel distretto dello scarpone) che ha definito una piattaforma per i designer orientata a principi di comunità della pratica; questa consente scambio di filmati e grafici rapidi con supporto mobile, forum leggeri e veloci, blog e la creazione di archivi fotografici propri. (E.B.)