Istat: Industria 4.0 e occupazione, il legame diretto c’è

Una relazione di Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, mette in evidenza la correlazione tra le spinte verso l’industria 4.0 e la necessità di nuove competenze per i lavoratori

Pubblicato il 17 Lug 2017

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Nei giorni scorsi il presidente dell’Istat, l’Istituto nazionale di statistica, Giorgio Alleva ha tenuto una audizione per presentare, in via preliminare i risultati di uno studio in corso sull’impatto della quarta rivoluzione industriale sull’occupazione, i cui risultati definitivi dovrebbero essere noti nel corso dell’autunno.

Nella sua introduzione, Alleva ha ripreso i punti chiave del Programma Nazionale Industria 4.0, sottolineando come gli asset principali del Piano Calenda – dagli incentivi per l’acquisto di macchinari all’utilizzo dei dati, dagli strumenti di interazione tra uomini e macchine alla realtà aumentata e virtuale – siano “cambiamenti destinati ad avere nel tempo un impatto significativo sui modi e le possibilità di produzione”, che si scontrano però con il “persistente ritardo del nostro sistema produttivo rispetto alle altre maggiori economie europee” e ancor di più con la specificità del sistema produttivo italiano fatto di imprese di piccole e piccolissime dimensioni.

Industria 4.0 sì, ma accessibile a tutti

Su quest’ultimo punto Alleva si sofferma, sottolineando quanto sia importante, perché le innovazioni digitali siano davvero pervasive, che siano “accessibili a unità economiche poco complesse dal punto di vista organizzativo, di piccole dimensioni e con disponibilità limitate di risorse economiche e manageriali”.
Il momento è complesso e anche difficilmente misurabile con gli schemi tradizionali di rivelazione statistica: per questo Istat sta collaborando con Eurostat e OECD a iniziative che hanno l’obiettivo di rilevare l’utilizzo delle tecnologie digitali nelle diverse fasi dei processi produttivi (progettazione, sviluppo di prototipi, produzione in serie, servizi alla produzione) e l’utilizzo delle tecnologie ICT nelle imprese.

Quale adozione per le tecnologie specifiche dell’Industria 4.0?

Ma qualcosa si è già fatto fin dalla fine del 2016, quando è stato chiesto alle imprese manifatturiere quali strategie avessero adottato per migliorare la propria competitività, e quali prevedessero di adottare.
Non sembra casuale ad Alleva che le aziende non solo abbiano sottolineato “l’importanza della qualità dei prodotti e dell’innovazione nella manifattura”, ma che a livello tecnologico siano orientate verso le “tecnologie promosse dal piano Industria 4.0 (CRM, SCM, ERP2 , additive manufacturing, cloud internet, machine-to-machine ecc.)”.
Il livello di adozione risulta tuttavia ancora scarso, per questo Alleva parla di “segnali che testimoniano l’impegno del nostro sistema produttivo verso l’aggiornamento tecnologico, tuttavia ancora non pienamente diffuso e pervasivo”.

L’impatto sul lavoro

Il movimento in atto ha comunque riflessi anche sulla domanda di lavoro e sulle competenze richieste dal mercato. L’analisi dell’Istat copre il periodo 2011-2016: si parla di un saldo attivo di 160.000 unità, da leggersi come sintesi tra una diminuzione di 408.000 occupati nel periodo 2011-2013 e la crescita di 567.000 unità nei tre anni successivi.


L’analisi è complessa e prende in esame l’andamento di tutti i gruppi professionali, così come definiti dalla Classificazione Nazionale dell’Occupazione e dunque ripartiti in 221 categorie. Dall’analisi dei dati, l’Istat ha estrapolato 27 professioni considerate vincenti, poiché fanno registrare variazioni positive in termini di numero di occupati superiori alle 20.000 unità e 24 definite perdenti, poiché mostrano di converso un saldo negativo di nuovo superiore alle 20.000 unità.
Ed è in questa classifica che troviamo i dati di nostro interesse.
Se vengono considerate “perdenti” professioni associate prevalentemente alle mansioni d’ufficio, tra le vincenti troviamo proprio i tecnici della produzione manifatturiera, gli analisti e i progettisti di software.

Ma l’Istat si è spinto oltre e ha riaggregato le categorie professionali in quattro classi, “in grado di rendere conto dei cambiamenti nella domanda di competenze”:

  • le specializzate tecniche: professioni qualificate in ambito tecnologico e scientifico, caratterizzate da competenze intellettuali-gestionali (risoluzione di problemi e analisi di sistemi) e tecnico-meccaniche; nel 2016 assorbivano il 12,6% dell’occupazione;
  • le specializzate non tecniche: intellettuali ma con scarse competenze tecnologiche; nel 2016 assorbivano il 32,3% dell’occupazione;
  • le tecniche operative: di carattere manuale con competenze nell’utilizzo di macchinari e attrezzature; nel 2016 assorbivano il 19,3% dell’occupazione;
  • le elementari: caratterizzate da un livello di qualificazione complessivamente basso; nel 2016 assorbivano il 35,8% dell’occupazione.

Cresce la richiesta di professioni ICT

In questo scenario, Istat sottolinea come le professioni ICT (intendendo figure professionali che si occupano dello sviluppo, la manutenzione o il funzionamento di sistemi ICT e per le quali le ICT sono la parte principale del proprio lavoro) abbiano avuto, come nel resto d’Europa, un andamento più positivo, con un +4,9 per cento anno su anno a fine 2016 a 750.000 unità occupate. Saldo che arriva a +12% se si guarda su tutto l’arco temporale in esame.

Alleva lo definisce “un trend strutturale che va oltre le dinamiche cicliche”, tanto che è cresciuta la rilevanza di professioni dirigenziali e tecniche ad elevata qualificazione, il cui perso sul totale dell’occupazione in professioni ICT è salito dal 23% al 30,9%.
Interessante un dato: più della metà degli occupati in professioni ICT risulta impiegata in settori non-ICT, a dimostrazione della pervasività delle nuove tecnologie.

Il vulnus è comunque evidente: “In Italia – relaziona Alleva –  rispetto all’insieme dell’Unione europea (Ue28), la percentuale delle forze di lavoro occupati o disoccupati con competenze digitali elevate è considerevolmente inferiore, il 23% contro il 32%, e il divario è ancora maggiore quando si considera l’insieme della popolazione in età di lavoro”.

La formazione diventa percorso indispensabile

Per questo, la formazione e l’apprendimento rappresentano una scelta obbligata per lavoratori e imprese, ma l’Italia su questo punto presenta ritardi importanti rispetto agli altri Paesi, con tassi di partecipazione a iniziative di formazione più bassi, soprattutto nelle fasce di età superiori.
Da un lato va riconosciuto che offerta di percorsi formativi e partecipazione sono comunque più elevati rispetto al passato, dall’altro si sottolinea come “le opportunità offerte dai cambiamenti tecnologici sono legate allo sviluppo di competenze specifiche complementari allo sviluppo dell’economia digitale e, più in generale, all’aggiornamento delle competenze dei lavoratori, in particolar modo dei meno istruiti, spesso meno coinvolti nei processi formativi”.

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