Scenari internazionali

Il Regno Unito tasserà i bitcoin?

Ma la nuova regolamentazione sulla tassazione dei servizi digitali, la Digital Services Tax – DST, riguarderà gli exchange e non i semplici detentori di moneta virtuale

Pubblicato il 17 Dic 2021

Luigi Padovan

avvocato

regno unito

Da qualche tempo circolano notizie sulla tassazione delle criptovalute da parte del Regno Unito. Quali però le reali intenzioni del governo d’Oltremanica e le possibili conseguenze sugli investitori? È possibile per i governi europei, tra cui quello italiano, seguire il solco tracciato dall’esecutivo britannico e introdurre nuovi ambiti regolatori di intervento da parte del fisco?

La nuova regolamentazione sulla tassazione dei servizi digitali in UK

A ben vedere infatti, al di là delle sensazionalità titolistiche, sono numerosi gli interrogativi che continuano a pervadere i pensieri, non solo degli addetti ai lavori, ma anche dei risparmiatori, atteso il grande interesse intorno all’argomento.

Innanzitutto, va detto che la nuova regolamentazione sulla tassazione dei servizi digitali (la c.d. Digital Services Tax – DST), che farà scontare un’imposta del 2% ai destinatari del provvedimento, riguarderà gli exchange (ovvero le società intermediarie di servizi legati all’ambito delle criptovalute) e non i semplici detentori di moneta virtuale; ciò in quanto, secondo gli uffici britannici, sulla scorta di quanto sin qui considerato dalla maggior parte delle altre autorità nazionali, le criptovalute non possono essere considerate come beni materiali in senso proprio, né come moneta corrente, e pertanto gli exchange stessi non possono essere ritenuti esenti dall’ambito di applicazione della normativa di settore vigente nel Regno Unito.

Gli exchange del Regno Unito unici interessati finora

Di qui una prima seppur ovvia riflessione, ovvero che – per questioni di mera giurisdizione – i soli interessati dall’intervento saranno gli exchange registrati ed effettivamente operanti nel Regno Unito, non prevedendosi al momento (se non eventualmente per analogia interpretativa, di là da venire, da parte dei giudici), l’estensione di tali imposizioni a soggetti diversi, pur operanti in altri ambiti applicativi delle blockchain.

È chiaro quindi che i nuovi costi imposti a questi ultimi finiranno col ricadere in qualche modo sugli utenti degli exchange stessi; eppure, la portata di tale introduzione non pare così dirompente, considerato che molti degli operatori in questo settore, rivolti all’utenza retail, non risiedono in territori fortemente regolamentati come il regno d’oltremanica ma, piuttosto, in giurisdizioni alquanto compiacenti dal punto di vista fiscale.

La considerazione ulteriore è che, anche qualora altri Stati seguissero tale impostazione, l’ambito impositivo rimarrebbe allo stesso modo confinato alle società residenti nel Paese oggetto delle normativa, con le medesime conseguenze appena rilevate; la possibilità poi, per tali società, di migrare piuttosto agevolmente la propria sede legale in paesi altrettanto compiacenti in caso di necessità, trattandosi di servizi puramente digitali, non pare così invasiva, almeno per quanto riguarda le conseguenze sui portafogli dei detentori di tali strumenti digitali.

Inoltre, la normativa oggetto di discussione non pare portare con sé nessuna novità per quanto riguarda i redditi dei sudditi di Sua Maestà, laddove gli investitori individuali risultano, similarmente a quanto accade in Italia, soggetti alle imposte locali sulle plusvalenze (o alle minusvalenze) sui guadagni e sulle perdite in criptovaluta, inclusa l’attività di “mining”, di cui viene confermata l’assimilazione a quella di holding o di trading, attribuendosi, ai fini fiscali, l’esistenza dei token di scambio come i Bitcoin, nel luogo corrispondente a quello della residenza del loro beneficiario effettivo.

Le criptovalute restano fuori dalle ingerenze degli Stati

In sostanza, fuori da tentazioni sensazionalistiche, la riflessione cardine rimane sempre incentrata sulla cautela, che muove dalla constatazione che innanzitutto, in quanto tali e quindi decentralizzate, le criptovalute sembrano essere grandemente sottratte dalle ingerenze dei singoli stati, se non addirittura – come il caso delle notizie che giungono in tal senso da alcuni paesi sin qui considerati meno sviluppati – nell’ottica di una loro adozione da parte di alcuni di essi, anche quale riserva di valore; inoltre, i medesimi interventi normativi nei confronti del settore sembrano destinati a rimanere poco più che un tentativo di limitarne la portata poiché le autorità nazionali paiono costrette, da un lato, dalla tracciabilità dei movimenti on chain e, dall’altro, dal limite intrinseco del loro potere di intervento costituito dalla loro stessa territorialità, superabile dal cittadino in tal caso in maniera piuttosto agevole.

Conclusioni

Anche ipotizzando poi il più nefasto e improbabile scenario, per l’intero settore, ovvero quello di una proibizione globalmente coordinata degli asset qui considerati o di una loro stringente regolamentazione, anche di natura fiscale, è proprio in ragione della decentralizzazione, del quantomeno parziale anonimato, oltre che della possibilità intrinseca di eludere i tentativi di controllo sulla loro consistenza, che le criptovalute non sembrano destinate a tramontare, quanto – al limite – a continuare a rivestire il solo ruolo che le prime community nascenti intorno ad esse le avevano attribuito, ovvero quello di mezzo di pagamento alternativo, anonimo, certo e pressoché incontrollabile da parte delle autorità nazionali, seppure estremamente semplice da utilizzare.

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