C’è un luogo dove l’aumento di efficienza e la riduzione dei costi non sono in contraddizione con il miglioramento e l’offerta di nuovi servizi. È la smart city o, meglio, la “città sensibile”.
Un tassello fondamentale è rappresentato dalla diffusione dell’IoT, come evidenzia l’analisi dell’Osservatorio Internet of Things del Politecnico di Milano, presentata in occasione di Smart City Exhibition 2015. “Il 70% dei Comuni italiani ha avviato almeno un progetto smart city, nella grandissima maggioranza dei quali l’IoT è un fattore abilitante”, sostiene Angela Tumino, Direttore dell’Osservatorio. L’87% dei progetti dei Comuni medio-piccoli (40-80mila abitanti) e il 92% di quelli dei Comuni più grandi (>80mila abitanti) è infatti basato su IoT. Positiva secondo Tumino la grande quantità di applicazioni, che però quasi sempre non sono collegate tra loro (con particolare criticità nel campo della mobilità delle persone e delle merci dove viene trascurata la multimodalità, ossia la combinazione di diversi mezzi di trasporto) e, per oltre il 60% dei casi, si è fermi allo stadio di sperimentazione.
“In Italia ad oggi ci sono parecchi progetti pilota, ma gli unici di dimensione significativa, in cui sia coinvolto almeno un quartiere di 10mila persone, sono due progetti approvati nel bando Horizon2020, uno per Milano e uno per Firenze, che saranno però conclusi entro 5 anni”, precisa Mauro Annunziato, Direttore della Divisione Smart Energy di Enea che sta sperimentando progetti smart in una decina di città in ambiti diversi. Si va dalla creazione di reti intelligenti di edifici a sistemi di controllo del traffico e del trasporto pubblico, fino allo smart lighting. Si tratta di un progetto a cui aderiscono 800 Comuni che, grazie al sistema smart-eye (sistema cognitivo distribuito di sensori ottici, che, installati sui lampioni della luce, cooperano sinergicamente al fine di erogare servizi innovativi e multifunzionali legati al risparmio energetico), non solo regola l’illuminazione, ma controlla anche la sicurezza della strada.
In assenza di progetti di dimensioni significative in contesti reali, non è facile valutare la convenienza di investire per andare oltre i pilota e far percepire anche il valore economico dei progetti, è la considerazione di Annunziato. Tuttavia l’Osservatorio IoT ha stimato possibili risparmi di oltre 4 miliardi di euro l’anno per il Paese derivanti dalla realizzazione delle smart city. Sarebbe necessario che anche i Comuni si rendessero conto di questa opportunità, mentre ad oggi hanno una scarsa aspettativa in termini di aumento delle entrate e una media aspettativa di riduzione dei costi, ma puntano soprattutto sul miglioramento dei servizi, della qualità della vista dei cittadini e sull’offerta di nuovi servizi.
La città sensibile conviene
L’approccio resource on demand può consentire in alcune aree risparmi significativi: secondo Annunziato fino al 15-20% in campo energetico e fino al 60-70% nello smart-lighting. Per metterlo in atto non basta solo migliorare l’efficienza dei singoli componenti che, secondo Annunziato, si dà per scontata, ma il modo di organizzarli, attraverso la gestione delle informazioni. “È indispensabile organizzare un ambiente sensibile, in grado cioè di trasmettere le informazioni sulle esigenze (di trasporto, di illuminazione, di riscaldamento…)”, precisa Annunziato. Le informazioni devono essere trasportate ed elaborate per innescare azioni conseguenti.
Tutto ciò si deve basare su un’infrastruttura di comunicazione nativamente progettata per essere condivisa tra più applicazioni, suggerisce Tumino, andando a sfruttare l’opportunità offerta dalla normativa che prevede la connessione dei contatori gas per creare una Smart Urban Infrastructure (Sui), un’infrastruttura di comunicazione i cui nodi non possono (per ragioni energetiche, funzionali o economiche) appoggiarsi a reti esistenti. Una stima sul caso concreto di Pavia evidenzia che realizzando un’unica rete per 3 servizi (smart metering gas, illuminazione intelligente e raccolta rifiuti, di interesse di quel Comune) si può ottenere un risparmio di oltre il 50% rispetto alla realizzazione delle 3 reti separate (Capex) e risparmi di oltre il 60% dei costi ricorrenti (Opex).
“La normativa sta andando in questa direzione con l’obiettivo di integrare le infrastrutture per servizi regolamentati e non”, commenta Tumino.
I primi passi per la banda ultra-larga
Tuttavia da più parti vengono sollecitate linee guida nazionali, indispensabili per trasformare i tanti bei progetti pilota a macchia di leopardo in una logica sistemica che coinvolga pubblico e privato in un disegno nazionale che non può prescindere dalla diffusione della banda larga e ultra-larga.
Alessandro Piva, degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano ricorda le implicazioni per la Pa derivanti da un massiccio utilizzo del cloud che vede nell’infrastruttura di rete una precondizione per la razionalizzazione e l’erogazione servizi. “Sono state fatte diverse azioni: dalle gare per l’aggiudicazione dell’Spc [Sistema Pubblico di Connettività – ndr] a quelle per i servizi – sottolinea – Manca però un’impostazione complessiva capace di mettere il tutto in moto in una stessa direzione. In assenza di linee guida chiare, i vari soggetti si stanno muovendo in una logica bottom up per sfruttare le infrastrutture, anche se non mancano esperienze di successo e collaborazione fra enti locali e nella Pa centrale”.
Un esempio è il progetto per la realizzazione di un’infrastruttura a banda larga e ultra-larga nella Regione Calabria con un investimento pubblico di circa 100 milioni di euro, 60 dei quali dedicati agli incentivi per un operatore privato e 40 con un investimento diretto. “È stato un cambiamento radicale nella gestione dei fondi strutturali su temi condivisi a livello nazionale rispetto al passato quando sono prevalsi interventi spot senza una forte regia nazionale volta a garantire standard di attuazione”, dice Paolo Praticò, Direttore Generale Programmazione Por Calabria.
Gianluca Mazzini, Direttore Generale di Lepida, l’azienda in-house della Regione Emilia-Romagna, evidenzia anche il passo in avanti costituito dalla delibera del 2 ottobre scorso che ha assegnato 2,2 miliardi di euro sulle risorse del Fondo Sviluppo e Coesione 2014 – 2020, per l’attuazione della strategia nazionale Banda Ultra Larga. Anche l’abbassamento della barriera di ingresso (grazie alle agevolazioni per l’installazione di reti per la banda larga), definito nel Codice di Comunicazione, consente lo sviluppo di una nuova imprenditoria che punta all’infrastrutturazione delle zone a minor redditività. “Nel dialogo con il Ministero stiamo cercando di identificare i modelli migliori per superare il gap di infrastrutturazione – aggiunge Mazzini – Ce ne sono almeno sei che vanno dall’investimento diretto per creare un’infrastruttura pubblica, ad aiuti agli operatori attraverso incentivi fiscali”.
Restano aperti temi come la semplificazione amministrativa, fondamentale in un paese “dove servono 11 mesi di permessi per un mese di attività realizzativa”, dice ancora Mazzini. Il Comune di Bologna a questo fine ha, per esempio, creato un ufficio unico che svolge l’azione di raccordo.
Ancora da sciogliere il nodo delle competenze
A ben vedere, l’ostacolo principale non sembra quindi essere la mancanza di risorse, in gran parte in arrivo dalla Comunità Europea, a condizione di saper presentare progetti adeguati.
Mancano invece le competenze, soprattutto per quanto riguarda da capacità di gestire masse crescenti di dati, visto che le informazioni sono la condizione per realizzare una citta sensibile e reattiva. “Non servono solo data scientist, ma anche esperti di semantica del web, di sicurezza, di privacy… – sostiene Franco Patini, Membro Steering Committee Formazione, Confindustria Digitale, che vede tre aree su cui si deve intervenire: i nuovi mestieri come il data scientist, che le accademie si stanno organizzando per formare; la necessità di modernizzare vecchie professioni grazie alla contaminazione digitale e all’acquisizione dei nuovi paradigmi delle startup; la consapevolezza delle potenzialità e dei rischi di maneggiare enormi qualità di dati da parte di coloro che possono decidere (dentro la Pa ma anche nelle imprese), di portare in casa le nuove professionalità.
“I direttori generali della pubblica amministrazione, vittime di una cultura giuridica invadente e arcaica, vanno convinti a investire sulle persone”, conferma Mariella Guercio, Professore ordinario di archivistica e di gestione informatica dei documenti all’Università di Roma La Sapienza e Presidente – Associazione nazionale archivistica italiana, Anai, puntando il dito anche verso le grandi imprese informatiche per la loro “incapacità di proporre di soluzioni innovative adeguate alla complessità dei problemi. Si continuano ad adottare costose e inutili applicazioni verticali, mentre si dovrebbe investire per l’integrazione dei processi a costi sostenibili”, sottolinea.
Nel frattempo c’è comunque chi pensa alla formazione di nuove competenze. È il caso dell’Università di Bologna che ha lanciato un master in Data Science. “Non servono solo manipolatori di dati, ma anche figure che abbiano conoscenza di dominio, competenze tecnologiche (come Big data), siano capaci di analizzare i dati (con competenze in statistica, intelligenza artificiale, machine learning…), restituire informazioni intellegibili, conoscere il diritto di Internet – avverte Claudio Sartori, professore di sistemi elaborazione dati dell’università di Bologna e direttore scientifico del master – Siamo sicuri che vi sia un buon riscontro nell’industria, spero che ce l’abbia anche nella Pa, che ne ha un grande bisogno”.