Le misure adottate dal Governo per contenere la diffusione del Covid-19 hanno portato al cosiddetto “lockdown”, con diverse eccezioni, per tutto il territorio nazionale.
Era l’unica misura da adottare per poter contenere la diffusione del virus? O al contrario potevano essere adottate delle misure diverse, più efficaci, per gestire l’emergenza sanitaria?
Contenere il contagio tramite big data e geolocalizzazione
Guardando alla situazione di altri paesi, come la Sud-Corea o Taiwan, più densamente popolati rispetto all’Italia, si può vedere come l’impiego della tecnologia, dei big data, di particolari strumenti come il contact tracing e la geolocalizzazione, sia riuscito a contenere il contagio “semplicemente” monitorando il virus e le persone contagiate.
Il modello sud-coreano apre il dibattito sulla possibilità di far fronte all’epidemia, come detto, oggi trasformatasi in pandemia, senza dover arrivare a misure estreme come il blocco totale, o quasi, di una intera nazione.
In Sud-Corea la diffusione a macchia d’olio del Covid-19 è legata all’appartenenza di uno dei primi contagiati del paese ad una setta che ha fatto della segretezza uno dei propri punti cardine e che, inizialmente reticente sulla indicazione dei nominativi dei propri adepti, ha impedito di contenere fin dalla sua insorgenza la diffusione del virus. La strategia adottata per far fronte all’epidemia è stata molto rigorosa.
In primo luogo è stato eseguito un numero elevato di tamponi, con metodologie rapide e sicure, attraverso tamponi realizzati ai pazienti direttamente nella propria autovettura, all’arrivo nel parcheggio dell’ospedale, da personale sanitario dotato di tutti gli ausili di protezione. Anche i tempi per avere i risultati hanno giocato un ruolo fondamentale nell’operazione di contenimento: in 15 minuti si era in grado di scoprire la positività al virus del paziente.
In secondo luogo, la Sud-Corea ha impiegato le nuove tecnologie e ha tracciato i focolai del virus, adottando un sistema che indica su una mappa la presenza in quel luogo di una persona positiva al Covid-19, segnando con diversi colori, come in un semaforo, l’arco temporale nel quale è avvenuto il transito (fino a 24 ore prima, fino a 4 giorni prima, fino a 9 giorni prima).
In sostanza i dati, resi del tutto anonimi e quindi non più riferibili alla persona fisica, hanno consentito di mappare il virus e la sua propagazione, indicando, nelle singole zone geografiche, la presenza in un determinato arco temporale, di persone contagiate dal virus.
In questo modo è stato fornito un servizio di informazione che ha inciso positivamente sul contenimento dell’epidemia nel pieno rispetto della privacy delle persone.
Un sistema analogo potrebbe essere utilizzato anche in Italia?
L’applicabilità del modello coreano in Italia: la tracciabilità dei cittadini
La situazione nel nostro paese è tra le più allarmanti a livello mondiale. Ci si è dunque chiesti se il modello sud-coreano potesse essere adottato anche dall’Italia.
Le valutazioni sulla applicabilità di questo sistema anche al nostro paese partono necessariamente da due diversi elementi: da un lato il rispetto delle norme relative alla privacy e alla tutela dei dati personali, dall’altro le modalità di acquisizione dei dati sul tracciamento dei cittadini.
Partiamo dal tracciamento.
Se da un lato il tracciamento dei cittadini ha dimostrato, in paesi diversi, la propria efficacia al fine del contenimento dell’epidemia, dall’altro il suo impiego “fa paura” sotto diversi aspetti.
Il tracciamento, la raccolta, l’analisi, l’incrocio dei nostri dati possono incidere negativamente sulle nostre libertà e in un paese democratico non siamo abituati a limitazioni così (apparentemente) stringenti di diritti costituzionalmente garantiti.
Bisogna però fare valutazioni non generiche, ma specifiche e relative allo strumento che viene utilizzato.
Il tracciamento in sé non è e non può essere considerato uno strumento negativo a priori.
Certo, il tracciamento dell’intera popolazione attraverso sistemi di sorveglianza può avere risvolti negativi di vario genere, ma è proprio il modus operandi che viene utilizzato che può eliminare alla radice queste criticità.
Il tracciamento fa paura perché in sé è un controllo.
Ad oggi in base all’art. 1 comma 1 DPCM 8 marzo 2020 il cittadino ha l’obbligo di giustificare i propri spostamenti che possono avvenire unicamente per “comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute” o motivate dall’esigenza di rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza, così come l’art. 2 del DPCM 23 febbraio 2020 aveva imposto l’obbligo “agli individui che dal 1 febbraio 2020 sono transitati ed hanno sostato nei comuni di cui all’allegato 1 al presente decreto” (ossia della zona rossa del lodigiano e di Vo’ Euganeo) di “comunicare tale circostanza al Dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria competente per territorio”.
Nei casi, inoltre, di esito positivo ai controlli per il Covid-19 viene ricostruita in maniera dettagliata la catena dei contatti che possono aver generato ulteriori contagi nella popolazione.
Queste specifiche comunicazioni che cosa rappresentano se non un vero e proprio tracciamento?
Su questo aspetto bisogna fare una riflessione.
Il tracciamento, soprattutto per quanto riguarda il tracciamento massivo, ossia di tutta (o quasi) la popolazione, spaventa per due diverse ragioni.
In primis ci si domanda che fine faranno i dati raccolti e ci si preoccupa dei possibili impieghi a cui potranno essere destinati gli stessi.
Il problema di proteggere i dati digitali
Ci si spaventa, tuttavia, quando si parla di acquisizione digitale del dato, quando accanto all’analisi dei dati si affianca la tecnologia e si tralascia il fatto che lo stesso problema si presenta nel momento in cui l’acquisizione del dato avviene attraverso la compilazione di autocertificazioni cartacee.
Come siano protetti i dati vergati sul cartaceo o come possano essere impiegati non viene percepito come un problema, quasi che il vero punctum dolens fosse solo l’impiego di strumenti tecnologici.
In secondo luogo il contact tracing viene demonizzato in quanto strumento atto a limitare le nostre libertà.
Siamo in una situazione paradossale.
È stata dichiarata la pandemia, in Italia siamo al lockdown ma ci si preoccupa delle limitazioni alla libertà personale conseguenti a un contact tracing realizzato per contenere e gestire la diffusione del virus.
Non ci si deve preoccupare del contact tracing, ma delle modalità con le quali lo stesso potrebbe essere realizzato.
Il vero nodo della questione riguarda le misure operative da adottare per acquisire, trattare e proteggere i dati, in altre parole le garanzie che vengono offerte per il trattamento dei dati.
La normativa sulla protezione dei dati personali costruisce un sistema di principi a protezione degli stessi dati che non può essere bypassato.
Si tratta quindi di rispettare in maniera rigorosa alcuni punti fondamentali in modo che il trattamento avvenga nel pieno rispetto della normativa e dei diritti del singolo.
Qualsiasi tracciamento effettuato tramite l’impiego di sistemi tecnologici dovrà quindi rispettare alcuni principi enunciati dal Regolamento Europeo 2016/679 e in particolare:
- Finalità: il contact tracing dovrà essere utilizzato esclusivamente al fine di contenere la diffusione del virus e pertanto ogni rilevazione dovrà tendere alla ricostruzione delle relazioni o degli spostamenti del soggetto per consentire di adottare le idonee misure per la gestione e il controllo dei possibili contagi.
- Modalità di attuazione: l’analisi dei dati raccolti e l’eventuale incrocio con altri dati, messi a disposizione da terzi, dovrà avvenire adottando tutte le misure necessarie per la tutela dei dati, attraverso l’anonimizzazione degli stessi.
- Limite temporale: i dati dovranno essere utilizzati e trattati in relazione alla specifica finalità, ossia al contenimento della diffusione del virus e, pertanto, potranno essere impiegati unicamente per il periodo necessario al raggiungimento di questa finalità.
Conclusioni
Il modello sud-coreano ci insegna come il contenimento della diffusione del contagio possa passare attraverso il contact tracing del virus, ossia l’individuazione geografica dei contagi e non delle persone. È evidente che il tracciamento parta, necessariamente, dalla persona fisica e dalla catena dei suoi spostamenti, ma laddove il dato personale sia anonimizzato si riesce a perseguire l’obiettivo nel pieno rispetto della privacy dei singoli cittadini.
Rimangono, certamente, molti aspetti, soprattutto di carattere normativo, che dovranno essere disciplinati in maniera organica, ma la possibilità di adottare soluzioni tecnologiche che possano aiutare al contenimento dell’emergenza sanitaria è reale e concreta, anche nel nostro Paese, a patto che vengano rispettate tutte le garanzie a tutela dei dati personali raccolti e trattati.