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Rai e big data analysis: Massimo Rosso spiega come cambiano i contenuti televisivi in Italia

L’azienda pubblica italiana realizza un progetto che le permette di allineare la propria offerta di contenuti televisivi alle esigenze e alle aspettative del suo pubblico attraverso l’analisi integrata dei big data ossia le informazioni di fonte interna con quelle estratte dal web e dalle reti sociali

Pubblicato il 14 Mar 2016

9132 Figura 2 percorso di evoluzione

“Il tema degli investimenti legati alla digitalizzazione è stato tra gli elementi di maggiore traino dell’ultimo piano industriale Rai, 2013-2015. E ciò per due ragioni”, esordisce Massimo Rosso, Direttore Ict della Rai, nell’accingersi ad esporre quello che, come vedremo, è probabilmente l’esempio più eclatante, per la dimensione della realtà coinvolta e per la sua rilevanza sul tessuto sociale del Paese, riguardo l’impiego delle tecnologie di analisi di dati e informazioni finalizzato alla trasformazione strategica dell’offerta e, in un certo senso, dell’azienda stessa.

Massimo Rosso, Direttore Ict, Rai

“La prima ragione – prosegue Rosso – è prettamente tecnologica. Nel senso che la Rai necessitava comunque di coprire un piano di sviluppo che si era venuto a definire negli ultimi anni portando al proprio interno tecnologie digitali a supporto sia dei processi sia del prodotto. Il secondo motivo è che ciò permetteva d’iniziare a ragionare su come traghettare il settore radiotelevisivo in una logica di ‘media company’, rendendo disponibili i propri contenuti non solo sul canale TV, ma in un’ottica multipiattaforma”.

Che significa tutto questo? Significa, come sappiamo, non solo poter vedere Porta a Porta o il Festival di Sanremo sul proprio laptop, tablet o anche smartphone ovunque ci si trovi, ma anche quando e come risulti più comodo farlo, ricorrendo alle modalità d’interazione che la tecnologia digitale consente e che rendono il tradizionale concetto di broadcasting una eredità del passato. Significa, soprattutto, raggiungere un pubblico potenziale che è di qualche ordine di grandezza superiore a quello che ci si può altrimenti attendere e, cosa ancora più importante, raggiungerlo incontrandone le attese.

“Ci si è resi conto – spiega infatti Rosso – che i consumatori, anzi diciamo meglio le persone, sono profondamente cambiate”. La cultura del broadcaster one-to-many è sempre stata focalizzata sul palinsesto, cioè sulla realizzazione di un’offerta di tipo lineare scandita da eventi previsti (ore 20 il Tg1, ore 21 lo spettacolo…) ai quali la gente si deve conformare. Con la rivoluzione digitale tutto ciò non ha più senso. “Succede – continua Rosso – che oggi per la prima volta quasi tutti abbiamo dispositivi che ci permettono di accedere ai diversi contenuti. I quali vanno quindi a formare un’offerta che va resa fruibile non più in modo lineare, ma in qualunque luogo e momento”.

Dunque un progetto impegnativo e importante che rappresenta anche un esempio per quel cambiamento nelle relazioni tra Ict e Linee di Business all’insegna di una sempre più stretta collaborazione auspicato da tempo; il progetto di Social Crm in Rai, infatti, è stato condotto in coordinamento con la Direzione Marketing e la Direzione Digital dell’azienda.

Digital enterprise, uno scenario che cambia

Figura 1 – Agenda digitale Rai: ambiti di intervento – fonte: Rai

“Questo processo di trasformazione dell’offerta non riguarda, ovviamente, solo i broadcaster né le media company, ma tutti i settori d’industria impegnati nella fornitura di beni e/o servizi al consumo: è il modello della ‘digital enterprise’. Nel nostro caso però la congiuntura tra la digitalizzazione del canale e l’avvento delle reti sociali e dell’organizzazione dei contenuti tipica del cosiddetto Web 2.0 ha portato a un ulteriore fenomeno, e cioè la comparsa delle offerte degli OTT (over-the-top)”, specifica Rosso. Si tratta, secondo la definizione Agcom, di quelle imprese che forniscono servizi, contenuti e applicazioni ‘rich media’ attraverso Internet. In Italia si sono sviluppate in poco tempo diverse piattaforme OTT: Sky Online, TIMvision, Infinity TV (di Mediaset) e, ultima ma non meno importante, Netflix, dell’omonima società americana.

Ciò ha portato, tra le altre cose, ad allontanare dall’offerta televisiva lineare i più giovani, cioè la fascia di utenza più appetibile per i risvolti di business collaterale che rappresenta e ai quali le modalità di fruizione OTT sono più congeniali. “In uno scenario così cambiato gli attuali modelli di business sono il punto debole. Vanno quindi del tutto ripensati”, precisa Rosso.

Il problema che ci si è posti in Rai per giungere a ridefinire l’offerta Tv in funzione di questi nuovi scenari sociali può essere sintetizzato nel comprendere quanto l’evento televisivo fosse in grado di condizionare la conversazione crossmediale. Infatti, anche se in teoria si potrebbe pensare ad attività separate, è intuibile come guardare sul televisore o sullo smartphone il programma preferito e intanto twittare o chattare con gli amici siano eventi correlati. “Ci si è resi conto – riprende Rosso – di quanto due mondi che parevano lontani fossero in realtà vicini e quanto fosse utile capire l’influenza che un dato programma Tv poteva esercitare sulle attività svolte sulle reti sociali durante lo svolgersi del programma stesso, scoprendo che la correlazione c’era ed era forte e che analizzarla poteva tradursi in una grande opportunità per il comparto It. Si prospettava infatti la possibilità di integrare in un’unica visione di business intelligence il patrimonio informativo prodotto dall’analisi dei dati interni con quello proveniente dall’esterno creato dall’analisi delle tracce lasciate dalle persone sul tessuto sociale.”

Big Data analytics, i 3 fattori d’innovazione

Figura 2 – Il percorso di evoluzione della Rai verso una Digital Media Company – fonte: Rai

Ora, fondere in un corpo informativo unico analisi basate su dati di provenienza interna ed esterna all’impresa non è un concetto nuovo. È la base stessa dell’Enterprise Information Management e la ‘sentiment analisys’ sulle reti sociali è uno strumento d’indagine che viene utilizzato da tempo dai produttori di beni di largo consumo e, più di recente, anche dai fabbricanti di beni durevoli (le automobili, per esempio, con spot in Rete dove agiscono prototipi virtuali) per prendere decisioni sulla condotta del business. Vi sono però due cose che rendono del tutto innovativa l’esperienza in Rai. La prima è che le tecniche analitiche sono applicate a sondare i livelli di accettazione, interesse e gradimento di ‘beni’ del tutto immateriali. La seconda è che questa attività si svolge in tempo reale o quasi-reale agli eventi che ne sono all’origine, con una capacità di feed-back potenziata di conseguenza. Diventa possibile, addirittura, intervenire sui contenuti di un programma aggiustandoli in funzione dei commenti rilevati, nel mentre questo stesso programma è in svolgimento. Succede, per esempio, con alcune trasmissioni di approfondimento giornalistico, dove il giornalista-conduttore è affiancato da alcune persone in studio che seguono il flusso dei tweet e possono quindi aiutarlo nel calibrare domande e commenti sull’argomento trattato.

In questo processo di creazione di intelligence, il punto dove sta il vero valore per l’impresa è, come si può capire, lo sviluppo di analitiche che permettano di prendere utili decisioni. E qui compare un terzo e importante elemento di novità nell’esperienza in atto in Rai: il concetto di serendipity. Il termine (che come forse qualche lettore ricorderà nasce da una fiaba persiana su tre prìncipi di Serendip, antico nome dello Sri Lanka, dotati del dono di far scoperte tanto preziose quanto accidentali), indica la predisposizione a trovare cose impreviste mentre se ne stanno cercando altre. È fondamentalmente uno stato d’animo, che porta a considerare accanto alle più tradizionali fonti dati (Erp, Crm…) di cui dispone l’impresa anche tutto ciò che si può elaborare per trarne elementi d’informazione, dalle analisi delle reti sociali di cui s’è detto sinora ai report sulla audience, alle mail, ai dati di gestione degli abbonamenti e delle campagne e quant’altro si può immaginare. Ma come fare per tradurre quest’obiettivo di conoscenza in una concreta linea d’azione?

Non servizi ma strumenti

“Il mercato oggi presenta – ci spiega Rosso – un’offerta molto rilevante di servizi analitici, con la possibilità di acquisire analisi calibrate sui propri bisogni. Non si tratta però di un approccio serendipity, in quanto il fatto stesso di essere un servizio a richiesta presuppone di partire con una domanda predefinita. Noi abbiamo fatto una scelta diversa: identificando il vero patrimonio informativo nella disponibilità stessa del dato abbiamo optato per la decisione di portarci in casa quanti più dati possibili a livello granulare”.

È stata quindi indetta una pubblica gara al fine d’individuare una piattaforma che da un lato avesse i ’bocchettoni’ necessari a connettersi con le reti sociali e il web e dall’altro lato rendesse possibile costruire degli aggregati capaci di fornire informazioni integrabili con quelle che già l’azienda genera di suo, potenziando sensibilmente la base informativa dell’Enterprise Data Warehouse. “Questa gara – conclude Rosso – era intesa non tanto ad acquisire un servizio, ma una tecnologia che avesse in sé le metodiche e le best practices necessarie a correlare il dato operazionale con l’informazione esterna. Se pensiamo all’Ict come al coordinamento funzionale delle componenti di informazione, comunicazione e tecnologia di un’impresa, vediamo che il valore distintivo dell’intero progetto sta nel ruolo strategico che viene ad assumere la componente informativa. Una “I” che viene, per così dire, elevata al quadrato, con informazione e integrazione che si esaltano a vicenda”.

Per maggiori informazioni: Big data analytics, come fare e quali le competenze necessarie

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