Il dibattito in rete è acceso. Tim Berners Lee, il padre del Web, al Cern di Ginevra, nega la novità; il Web era ed è uno strumento per creare un enorme ipertesto di contenuti per lo scambio di conoscenza tra gli utenti ove: “le persone possono comunicare…condividendo le proprie conoscenze in uno spazio comune”. Tim O’Reilly, editore che ha coniato il termine Web 2.0 e organizza una convention annuale con il medesimo logo, è di parere contrario. La novità è l’affermarsi del social networking, reso possibile dalla diffusione della larga banda e da una nuova classe di software. Si tratta di tecnologie che utilizzano nuovi modelli: il peer-to-peer, la programmazione “leggera” attraverso linguaggi di descrizione come l’Xml, il collegamento di contenuti reso possibile dagli aggregatori Rss, la trasformazione del software da prodotto a servizio, il cui esempio più eclatante e diffuso è Google (www.google.com ) con i suoi servizi che possono essere utilizzati dagli utenti. La messa a disposizione degli utenti di uno spazio condiviso definisce un cambio di paradigma, fondato su due capisaldi: il Web come piattaforma, e la centralità dei dati. A differenza dei database consolidati, con Api (Application Program Interface) proprietarie e funzioni che operano sui dati immessi dall’utente, le nuove applicazioni hanno Api pubbliche e sono definite dalle tipologie di dati immessi, dagli utenti. Un esempio per tuttti: Google Earth (il motore di ricerca che fornisce anche immagini satellitari), in cui si possono associare le mappe di un territorio con le aziende lì insediate. In questo modo sono le persone al centro del modello d’uso, sono le loro scelte e le loro preferenze che danno fisionomia alle applicazioni che utilizzano, sino alla classificazione delle stesse. Il terzo elemento del tassello è l’advertising: per anni ci si è chiesti come far reggere un modello di business su Internet, con milioni di utenti assetati di servizi, ma contrari a sborsare quattrini per usarli (oltre al costo di connessione).
Di nuovo è Google a trovare la risposta: associare servizi gratuiti alla pubblicità, come fanno il motore di ricerca o Google Mail. E qualche settimana fa, per chiarire il concetto, acquista per 3,1 milioni di dollari DoubleClick (www.doubleclick.com), leader dell’advertising on-line. Ma c’è chi comincia a parlare di “bolla” speculativa, e sostiene, in sintonia con Berners Lee, che nulla di nuovo c’è sotto il cielo, il social networking c’è sempre stato, nelle prime Bbs (Bulletin Board System) e poi nei newsgroup.
Oggi, sostiene la rivista ZDNet (www.zdnet.com ) a proposito dell’ultimo “Web 2.0 Summit”, c’è scarsità di innovazioni concrete, c’è una “pletora di start-up all’inseguimento di MySpace (www.myspace.com )”. I critici sostengono che si vuole sfruttare “l’energia populista degli utenti per intrappolarli nel mondo tutto commerciale dei media mainstream”.
Tutto vero, nel bene e nel male, con potenzialità e rischi.
Milioni di utenti conversano e condividono
Ma il dato concreto è che ci sono 70 milioni di blog sulla Rete che costruiscono una fitta rete di conversazioni che avvolge il globo e preoccupa i governi: in Cina ed Egitto i blogger vengono incarcerati. È un fatto che Wikipedia (www.wikipedia.org ), l’enciclopedia on-line redatta da autori volontari abbia poco da invidiare all’Enciclopedia Britannica. C’è che YouTube (www.youtube.com) e MySpace contano entrambi milioni di utenti, che si moltiplicano i siti di condivisione di foto, segnalazioni, notizie, in cui gli utenti sono protagonisti; si moltiplicano gli “user generated content”, che fanno parlare di minaccia ai “media mainstream”. Dunque, un modo nuovo di utilizzare la rete. Si creano spazi fisici, attrezzati con tool diversi, che vengono popolati e animati dai contenuti degli utenti. Si forma una catena di relazioni in cui le persone si conoscono, segnalano i propri interessi, interagiscono e, nel più puro stile internettiano, mettono a disposizione di altri il frutto della propria intelligenza, capacità, del proprio sapere. È l’economia del dono, della condivisione gratuita, che però genera “valore”. L’hanno ben capito i fornitori di questi servizi, Yahoo (www.yahoo.com ), Google, MySpace. E la cosa ha toccato i nervi delle Telcos, il cui ragionamento (AT&T – www.att.com – in testa) è pressappoco questo: “ma come, noi dobbiamo fare grandi investimenti sulle reti di nuova generazione, a fronte di ricavi decrescenti sulla voce, e questi (Isp) fanno lauti guadagni senza spendere una lira? Allora abbiamo il diritto di creare dei “walled garden”, spazi protetti, in cui i nostri servizi per i nostri utenti hanno la precedenza”.
È il tema della neutralità della rete, cioè la pari dignità dei contenuti veicolati, che invece le Telcos vogliono discriminare, dando priorità ad alcuni servizi a scapito di altri. A danno del “social networking” e del peer-to-peer sharing.
…e le aziende che fanno?
Dietro lo scontro tra due culture, l’apertura massima e la prioritizzazione di alcuni contenuti, c’è il conflitto tra due modelli di business, con interessi enormi in gioco: quotazione azionarie, fatturati, budget pubblicitari. Le media company, quelle che le grandi società di Tlc (ci voleva provare anche Telecom Italia) hanno intenzione di creare e che dovrebbero veicolare film e multimedia sulle loro reti, con abbonamenti per utenti, intendono riprodurre su Internet il modello dei grandi broadcaster. Anche nel mondo del software lo scontro è epocale: Google sta per lanciare una suite office che rinverdisce il sogno dei primi anni novanta, un modello client-server con software a richiesta, senza licenze. Un’idea che ha fatto sobbalzare Microsoft (www.microsoft.com ), e che ha spinto Ray Ozzie, il padre di Lotus Notes ora in quota a Redmond, a scrivere una mail agli sviluppatori, segnalando il pericolo e consigliando una riflessione su una correzione di rotta.
Ma il social networking sta risvegliando l’interesse delle aziende di tutto il mondo, non solo degli Isp e delle Telcos. L’aspetto più interessante per il mondo dell’impresa sta nelle grandi potenzialità che alcuni strumenti del Web 2.0 hanno per la condivisione della conoscenza, uno dei temi più critici in ambito aziendale. Nel mondo turbolento della globalizzazione, le imprese necessitano di reazioni veloci, cambio di strategie, correzione degli errori; tutta l’organizzazione deve essere attivata e pronta a reagire. L’utilizzo dell’informazione, e la sua sedimentazione in know-how diviene un fattore critico, l’impresa deve diventare una learning organization, che impara ad apprendere.
I blog e i wiki si stanno dimostrando strumenti particolarmente adatti a questi bisogni. I blog sono uno strumento di conversazione, di scambio di idee, di confronto. La Bbc (www.bbc.co.uk ) ne ha attivati 10.000 per i suoi dipendenti, per discutere dei nuovi programmi, dei palinsenti, mettendo in atto una cross-fertilization che pare stia dando ottimi risultati.
I wiki si stanno dimostrando particolarmente adatti a costituire uno spazio condiviso tra diversi addetti, appartenenti magari a differenti funzioni aziendali, per gestire in comune progetti complessi. Il wiki diviene una sorta di diario di bordo in cui vari autori possono inserire documenti, scriverli in comune, gestire gli appuntamenti del team, segnalare fonti interne ed esterne all’organizzazione. È la nascita di un nuovo modo di lavorare?
Hype Cycle for Collaboration and communication, 2006
Le soluzioni di collaborazione e comunicazione comprendono un insieme di tecnologie molto diversificato: alcune sono ormai totalmente mature, altre sono state integrate in suite più ampie, altre ancora sono all’inizio del loro ciclo di vita e non è facile prevederne l’evoluzione. Una tendenza abbastanza chiara che il documento di Gartner relativo all’Hype Cycle for Collaboration and Communication 2006 evidenzia (vedi figura sopra) è quella di un graduale trasferimento delle tecnologie di collaborazione all’interno dell’infrastruttura piuttosto che mantenerle come soluzioni stand alone.
Un elemento che emerge dal documento Gartner è lo spostamento da una distribuzione controllata e centralizzata delle tecnologie collaborative da parte del dipartimento It all’adozione di tool appropriati a determinati contesti e modalità di lavoro, influenzati dalle abitudini “private” degli end user. La pervasività di Internet ha reso possibile l’accesso a una miriade di tecnologie emergenti che gli utenti finali utilizzano senza che il dipartimento It ne abbia conoscenza. Senza entrare nel merito delle singole tecnologie, ci sembra importante sottolineare una raccomandazione della stessa società di ricerca: analizzando l’Hype Cycle, il dipartimento It non deve limitarsi a verificare lo stato di una determinata tecnologia prima di deciderne l’adozione; molte tecnologie collaborative si sono affermate a livello di gruppo di lavoro, dipartimentale (proprio perché gli utenti aziendali, che ne avevano sperimentato l’utilizzo “privato” ne hanno riconosciuto la validità per la propria attività) quindi, per capire in quale modo le tecnologie collaborative evolveranno, bisogna guardare attentamente a quali sono, e a come (P.F.)
QUALE EVOLUZIONE PER LE TECNOLOGIE DI COLLABORAZIONE?
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