SAN FRANCISCO – “La parola d’ordine è partecipazione”. Così Jim Whitehurst, Ceo e presidente di Red Hat, ha aperto la sessione generale che ha ufficialmente avviato il Summit 2016 che il numero uno del software open source ha tenuto nella città della Baia.
Con un ampio discorso, Whitehurst ha parlato dell’evoluzione dei modelli di sviluppo per l’impresa, del software come motore della rivoluzione digitale e dei suoi effetti sulla vita quotidiana, sia essa nell’ambito familiare sia in quello del posto di lavoro. Effetti dei quali il più significativo è la nascita di nuove teorie e modelli per l’organizzazione, la gestione e la programmazione del lavoro umano. Quello intellettuale, ovviamente, stante la crescente delega della ‘manodopera’ a macchine sempre più abili e capaci di apprendere. Cambia quindi, dice Whitehurst, il senso stesso di produttività: “…che nasce dall’appartenenza dell’individuo a una collettività produttiva risultante dal trasformarsi delle strutture aziendali dal modello gerarchico a quello della rete”. E a questo punto il Ceo Red Hat è arrivato al business: “Fare in modo che la capacità di creare e produrre di tali comunità risulti superiore alla somma di quelle degli individui che ne fanno parte è la sfida del nostro tempo”. Sfida alla quale Red Hat risponde con il proprio “mission statement”, cioè: “agire presso le comunità dei partner, degli utenti e di chiunque vi apporti il proprio contributo come catalizzatore per creare migliori tecnologie nel modello open source”.
Sviluppo applicativo, l'annuncio di JBoss Eap 7…
Se Whitehurst ha ‘volato alto’, i messaggi che il Summit ha portato ai convenuti della kermesse californiana sono stati molto concreti.
Per cominciare, l’evento non è iniziato con l’avvio ufficiale di cui s’è detto, bensì 24 ore prima. Quando in modo informale e senza chiasso si sono avviati i lavori di DevNation, la conferenza parallela al Summit dedicata in modo specifico alla comunità degli sviluppatori. Qui, davanti a un migliaio di quelle persone che con il loro lavoro sono di fatto il nucleo sul quale Red Hat basa parte della propria forza, Mark Little, Vicepresident of Architecture & Engineering di Red Hat, nonché Cto per JBoss, ha annunciato la disponibilità di JBoss Eap 7, nuova ‘major release’ del middleware Red Hat per lo sviluppo applicativo.
Come chi si occupa di software open source certamente saprà, JBoss Eap (enterprise application platform) è un application server open source fruibile con sottoscrizione che implementa le specifiche Java Ee (enterprise edition). Creato dall’omonima società acquisita 10 anni fa per 420 milioni di dollari, fa oggi parte del middleware Red Hat ed è gestito come progetto open source da una vasta rete di sviluppatori. Sua dote precipua è l’essere un server multipiattaforma per lo sviluppo, il deploying e l’hosting di applicazioni business in grado di funzionare su qualsiasi sistema operativo che supporti Java. La nuova versione combina le diffuse Api Java Ee 7 con l’ambiente integrato di sviluppo JBoss Developer Studio, a sua volta aggiornato in modo da supportare al meglio le pratiche DevOps. Little ha poi sottolineato come JBoss Eap 7 sia stato ottimizzato per l’impiego in ambienti di cloud ibrido e quando dispiegato tramite Open Shift, (la PaaS di Red Hat per lo sviluppo e il deploying di applicazioni cloud) offra una particolare flessibilità per lo sviluppo sia di applicazioni transazionali classiche (monolitiche) sia di applicazioni modulari basate su microservizi.
I vantaggi dei Linux Containers
Ma se il primo giorno del Summit era rivolto al mondo degli sviluppatori, nei giorni seguenti è stata l’attenzione alle imprese utenti e ai decisori delle soluzioni a supporto del business a tenere banco. Con l’annuncio e la definizione di una strategia che, in considerazione delle trasformazioni sociali ed organizzative di cui s’è detto, dia quelle tecnologie che possano “fare la differenza”. E la principale di queste tecnologie, o almeno quella sulla quale ha più insistito Paul Cormier, President for Products & Technologies, nel proprio ‘keynote’ e l’intero top management Red Hat nella successiva conferenza stampa, è quella dei Linux Containers.
Premesso che l’idea dei Linux Containers, detti Lxc, o anche talvolta Vps (Virtual private server) non è né originaria né esclusiva di Red Hat ma di sviluppatori comprendenti, tra gli altri, anche team di Ibm e Google, trattandosi di un concetto alquanto complesso conviene spendere due parole sul tema, specie a beneficio di chi bada al business, nei confronti del quale l’adozione di questa tecnologia presenta non pochi vantaggi.
Sostanzialmente, un contenitore Linux è un meccanismo di virtualizzazione che agisce a livello del sistema operativo raggruppando l’applicazione ed i rispettivi componenti di runtime in un’entità trattabile in modo unitario dalla logica del system management. Ciò consente di eseguire e gestire più sistemi e/o applicazioni su un host che fa da sistema di controllo e utilizza un singolo kernel Linux (anche se tale condizione non è obbligatoria e non è detto che i contenitori di un host debbano usare tutti lo stesso kernel). A differenza dei sistemi basati su macchine virtuali gestite da un hypervisor, è il kernel Linux a fornire le funzioni di controllo indispensabili ad eseguire l’applicazione (Cpu, memoria, I/O, network, eccetera) senza che debba essere avviata una macchina virtuale, mentre il contenitore provvede a isolare le applicazioni e a renderle autonome inserendole in ‘pacchetti’ che contengono sia le librerie sia gli altri file binari da cui esse dipendono. Questo evita conflitti tra applicazioni che altrimenti farebbero tutte affidamento sui componenti del sistema host sottostante. Non contenendo il sistema operativo, né dipendendo dall’intermediazione dell’hypervisor per gestire i servizi host, un sistema che utilizza i containers risulta più veloce e più efficiente riguardo le risorse hardware di uno basato sulle macchine virtuali, il che in pratica significa, a parità di host, poter dispiegare più istanze applicative e soprattutto poterle gestire in modo più rapido e flessibile in funzione delle esigenze del momento.
Le tecnologie: quattro plus per competere
Tra i motivi per cui non si può dire che i Linux container siano oggi largamente diffusi (ed è per ciò che Red Hat li sostiene con vigore, contando di acquisire una sorta di ‘diritto di primogenitura’ sulla tecnologia quando questa si sarà affermata) vi è che al di là della oggettiva difficoltà a sostituire, pur con i vantaggi del caso, sistemi di virtualizzazione più che collaudati, l’eliminazione del ruolo di controller dell’hypervisor ha creato dei problemi di sicurezza, o meglio di resilienza. E difatti oggi Red Hat insiste parecchio sulla business continuity che grazie alla propria esperienza nelle soluzioni enterprise può garantire, facendo della sicurezza (che presenta nuove tecnologie di auto-scan e riparazione) il primo dei vantaggi competitivi indispensabili per attrarre nuovi utenti e creare – è questo il punto – un proprio mercato. Ma anche gli altri plus non sono da meno.
Prima di tutto la portabilità: adottando tecnologie open standard per l’isolamento, la formattazione, l’orchestrazione e la registrazione dei suoi container e avvalendosi di partner come Amazon, Docker, Google, Hp Enterprise, Ibm, Ms Azure e altri, ne permette l’impiego indifferenziato su ogni tipo di piattaforma: fisica, virtuale e soprattutto cloud. Che, sia esso privato, ibrido e specialmente pubblico, viene visto come l’ambiente di elezione per la nuova utenza. Poi c’è la gestibilità, con un sistema d’orchestrazione unificato basato su Kubernetes (un progetto Google) per le applicazioni e per lo storage; del quale ultimo è stata annunciata una soluzione di management nativamente integrata nella OpenShift Container Platform.
Infine, e più importante di tutti per il business, il plus di Red Hat sta nel fatto di poter fornire un’offerta totale. Completa sia come prodotti sia come soluzioni per costruire e adottare i Container targati Red Hat in azienda. Sul fronte prodotti troviamo infatti strumenti per gli sviluppatori, i laboratori di testing, i responsabili della messa in produzione e, tramite la Red Hat Cloud Suite, per l’aggiornamento in chiave di operatività cloud del data center. Quanto alle soluzioni, le fasi di realizzazione e training si avvalgono, rispettivamente, dal Red Hat Cdk (Container Development Kit) e Red Hat Connect for Technology Partners (così chiamato perché, stanti le peculiarità del modello open source tali sono considerati gli utenti), mentre la certificazione e la distribuzione della soluzione realizzata vengono regolate dalla Red Hat Container Certification e dal Red Hat Container Registry.