MILANO – Se la ‘grande storia’ delle vicende umane è punteggiata dal ripetersi di fatti e idee, la ‘piccola storia’ della tecnologia non fa eccezione e nei pur brevi anni dell’It i ricorsi storici sono piuttosto frequenti. È questo in caso della ‘augmented intelligence’ o, come viene anche definita, ‘intelligence amplification’. Si tratta di un’idea nata negli anni ’60 tra i pionieri della cibernetica e che consiste nell’indirizzare lo sviluppo e l’impiego dell’It in modo che i sistemi informatici siano un mezzo efficace per potenziare l’intelligenza umana, senza però cercare d’imitarla come invece è lo scopo dall’intelligenza artificiale. In questi termini, tutto lo sviluppo delle tecnologie di intelligence e analisi ha per fine la augmented intelligence, che dei sistemi di business intelligence e analytics è in effetti l’ultima (per ora) frontiera.
Per questo abbiamo parlato di augmented intelligence con Michael O’Connell, Chief Data Scientist e “thought leader”di Tibco, una software house che da quasi vent’anni fa dell’interconnessione ed elaborazione dei dati e del complex event processing (Cep) il proprio business.
“L’augmented intelligence – afferma O’Connell – fa leva sulla convergenza di modelli e tecnologie di machine learning con lo sviluppo di una user experience, ed è questa l’area sulla quale noi siamo focalizzati, che attraverso tecniche di schematizzazione e visualizzazione dei dati faciliti la comprensione da parte dell’analista umano non solo su ciò che è successo ma soprattutto sul perché. Ciò consente di ‘istruire’ la macchina in modo che questa possa poi fornire non solo analisi predittive, ma anche analisi prescrittive, suggerendo che fare”. Queste operazioni, aggiunge O’Connell, “…possono svolgersi sul data-streaming, durante l’estrazione e caricamento dati [una caratteristica delle soluzioni BI di Tibco, come Spotfire – ndr] fornendo quindi risultati che permettono interventi quasi in tempo reale”.
Abbiamo quindi chiesto al Chief Data Scientist come deve agire un’azienda per implementare questo tipo di approccio all’analisi dei dati. “La prima cosa – è la sua risposta – da fare sul fronte della tecnologia è rompere i silos informativi che rendono le diverse fonti dati tra loro incomunicabili. Ma nello stesso tempo bisogna sapere bene quali sono gli aspetti di un problema che impattano sul business, in modo da trovare i dati che contano davvero. E questo lo può fare solo l’uomo, cioè il ‘data scientist’. Quella della augmented intelligence è una scelta che, coprendo aspetti sia tecnologici sia di business, impatta sull’organizzazione. Per questo va sostenuta da un business executive che ne sia lo sponsor”.
Infine, come deve ragionare un ‘data scientist’. Come si può formare in azienda? “A un aspirante data scientist direi: ‘forget the data and pick the business problems!’ Cioè dev’essere prima di tutto un esperto di business, in generale e ovviamente nello specifico della propria impresa. Deve appassionarsi a ciò che fa; stare in contatto con gli esperti di business per coglierne gli aspetti e i problemi emergenti e avere un buon senso dei valori del business e di ciò che occorre far subito [‘emergency’, è la parola chiave – ndr]. Su queste cose – conclude O’Connell – abbiamo programmi di training specifico. Anche per l’Italia”.