I servizi data center in colocation, assieme a quelli di cloud pubblico e ibrido, stanno attirando in misura sempre maggiore l’interesse dei CIO.
Sotto queste diverse denominazioni rientra quello che un tempo era il classico mercato dell’outsourcing, che aveva mostrato la corda per costi, rigidità contrattuali, lock-in e complessità nel rapporto utente-fornitore di servizio. Oggi un’indagine realizzata da Data Center Dynamics Intelligence per Data4 a partire da 2000 risposte di aziende utenti ottenute in occasione del DCD Global Census e di 500 fornitori di servizi di colocation, hosting e cloud comprende con il termine “outsourcing” questo ampliamento del mercato e rileva come gli investimenti crescano con un tasso annuo medio del 10,8%, almeno fino alla data del 2020 quando saranno toccati i 58 miliardi di dollari di valore.
Un tasso più che doppio rispetto alla spesa per nuove facility di data center. Secondo DCD Intelligence, la crisi finanziaria globale ha ridotto gli investimenti IT “in house” spostando l’interesse delle imprese verso i servizi in outsourcing o colocation che consentono di rispondere alle esigenze IT con minori investimenti in capitale. C’è inoltre un cambiamento della domanda che a sua volta modifica i servizi richiesti in modalità outsourcing. A fronte dei servizi in colocation che si mantengono a una quota pari a circa il 22-23% degli asset IT (nell’arco temporale 2015-2020), cloud pubblico e altri servizi di outsourcing/hosting sono destinati a raccogliere la fetta più grande della capacità IT in fuga dai data center interni aziendali. Almeno fino al 2020, la porzione di infrastrutture IT che le imprese daranno in colocation crescerà del 2,4% all’anno, mentre la trasformazione degli asset da fisici a virtuali (con il cloud) crescerà del 3,6%. Come risultato della fuoriuscita di molti asset IT dalle grandi imprese, gli investimenti in colocation nell’Europa Occidentale sono previsti in aumento: dai 6,9 miliardi di euro dello scorso anno agli 11,5 miliardi nel 2020 (crescita media 13,6% annua). Stesso trend per i servizi gestiti, previsti in aumento del 16,1% annuo. Come risultato del cambiamento, entro il 2020 le facility dei service provider (numericamente solo il 6% dei data center esistenti) varranno il 40% dello spazio dedicato ai data center nell’Europa Occidentale e il 45% di tutta la potenza installata.
Sicurezza e capacità di controllo: i timori dei CIO
Lo studio DCD rivela la persistenza di molte riserve tra i CIO (il 77% dei rispondenti) rispetto ai cloud pubblici, riguardanti i problemi di security di rete e fisica, i livelli di servizio e il controllo. La migrazione al cloud si sta inoltre articolando per supportare architetture complesse ma più agili, attraverso l’approccio dell’hybrid IT. Il cloud ibrido e cloud privato sono le modalità che raccolgono meno riserve tra i CIO: 59% e 73% rispettivamente. Malgrado unisca i vantaggi della scalabilità con le prerogative dei sistemi tradizionali, il cloud ibrido non riesce a spegnere del tutto le riserve dei CIO sul fronte della sicurezza di rete (59,5% dei rispondenti), accesso ai livelli di servizio (41,5%), sicurezza fisica (35,5%). Altri freni riguardano gli ostacoli normativi: le falle dei regolamenti (GDPR per l’EU; Privacy Shield per gli USA) che incidono profondamente sullo sviluppo del cloud, sull’industria degli operatori di data center e più ampiamente sui CIO che vedono l’affidamento in outsourcing delle proprie risorse IT un processo ancora rischioso.
Gli analisti hanno provato a valutare anche le conseguenze della Brexit. Nel momento in cui sarà fatto valere l’Art.50 dei trattati UE per l’uscita della Gran Bretagna, l’accordo Privacy Shield che regola il trasferimento dati transatlantico in accordo con i più stringenti parametri della privacy UE cesserà di avere valore sul traffico dati UK-USA. Benché i ricercatori prevedano che fornitori di servizi data center basati in UK possano minimizzare gli effetti con pratiche di data protection, in attesa di nuovi accordi o di un quadro più chiaro, le città europee come Parigi, Francoforte e Amsterdam diverranno le location-dati d’elezione per le aziende internazionali che operano sul mercato europeo. La scelta si affianca ad altri parametri di valutazione classici che riguardano prezzi competitivi, grande disponibilità di banda e stabilità delle forniture d’energia.
Scenario italiano: positivo malgrado i ritardi
Secondo i ricercatori DCD Intelligence, lo spazio totale dedicato ai data center in Italia copre 550 mila metri quadrati, di cui il 70% privato e il 30% dedicato a sistemi in colocation/cloud oppure gestito da telco. Gli investimenti in quest’area segnano una crescita dell’1-2% all’anno, fino al 2020. L’Italia viene oggi giudicata un mercato maturo per quanto riguarda colocation e servizi cloud. Ma certamente nei paesi del Sud Europa, le tecnologie di raffreddamento “free cooling” possono risultare meno efficaci rispetto ai data center del Nord Europa e gli alti costi dell’energia elettrica non ci avvantaggiano. Per contro, la necessità di ridurre i costi, aggiornare servizi IT con i requisiti attuali porterà all’aggiornamento delle facility più vecchie. Diverse grandi aziende e molte PMI (lo studio non fornisce dati quantitativi di questa tendenza) stanno portando le loro infrastrutture IT nel cloud per poter erogare servizi via Internet; questi fattori, unitamente al ritardo accumulato, dovrebbero sostenere la crescita del mercato italiano. Oltre agli aspetti legati al costo dell’energia, lo studio identifica anche alcuni elementi di rischio per gli investimenti in data center nel nostro Paese: i rischi sul fronte naturale/climatico, socio/politico, economico e della vulnerabilità energetica (il peggiore) sono valutati più alti rispetto ad altri paesi europei. All’opposto, la disponibilità delle competenze è sopra la media.