Partiamo da due dati che hanno in sé una valenza positiva perché indici di crescente benessere e di sviluppo: dal 1800 a oggi la popolazione mondiale è passata da 1 miliardo di persone a 6,3 miliardi e, nello stesso periodo, il prodotto mondiale lordo è cresciuto di 58 volte.
Il primo dei due dati rileva con certezza che le condizioni di vita sono migliorate, effetto dovuto sia ai progressi della medicina sia all’accesso di più ampi strati della popolazione mondiale alle risorse economiche; il secondo è un chiaro indicatore di sviluppo economico ma contiene elementi di forte ambiguità se lo si vuole considerare come indicatore di benessere. Ed è proprio questa ambiguità che ci induce a guardare l’altra faccia della medaglia: quali sono gli effetti della crescita della popolazione e della crescita del prodotto mondiale lordo?
Pianeta Terra: un malato grave
L’impatto diretto sull’ambiente è l’effetto più eclatante e, prima fra tutte, la conseguenza più evidente è il cambiamento climatico. L’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change, ) ha appurato che, dalla fine del XIX secolo a oggi la temperatura media globale è aumentata di 0,7°C e questo ha significato: scioglimento dei ghiacciai; uragani sempre più frequenti e devastanti che colpiscono aree fino ad oggi estranee a questo fenomeno; desertificazione di zone sempre più ampie del pianeta ecc. Sempre l’organismo delle Nazione Unite che si occupa di clima sostiene che, nel corso del XXI secolo, la temperatura potrebbe aumentare da 1,4 a 5,8°C con conseguenze che si possono facilmente immaginare.
Posto che un trend di questo tipo non è sostenibile a lungo, si impone la definizione di politiche e strategie per contrastarlo perché, anche non volendone considerare gli aspetti eminentemente etici (l’uomo è “ospite” del pianeta in cui vive e come tale è suo dovere trattarlo con rispetto), il cambiamento climatico comporta costi economici enormi: l’aumento in numero e in potenza degli uragani in Usa, calcolato in una percentuale variabile tra il 5 e il 10%, raddoppierà i costi annuali dei danni provocati da questa calamità; le perdite di raccolti seguite all’ondata di calore nel 2003 in Europa, evento destinato a ripetersi con sempre maggiore frequenza, hanno provocato danni per oltre 15 miliardi di dollari; il contenimento degli effetti del cambiamento climatico tramite la riduzione dei gas serra costerebbe lo 0,1% del prodotto mondiale lordo.
Il cambiamento climatico non è la sola conseguenza. L’inquinamento e lo sfruttamento delle risorse naturali comportano un degrado esponenziale degli ecosistemi: dal rapporto del Millenium Ecosystem Assessment apprendiamo che il tasso di estinzione delle specie è aumentato da 50 a 500 volte più di quello naturale e se anche in questo caso continuiamo a non prendere in considerazione gli aspetti etici ed ecologici della questione, non possiamo non valutarne l’impatto economico: alcuni autorevoli studi ritengono che il tasso attuale di trasformazione dell’ambiente costa alle economie mondiali circa 250 miliardi di dollari all’anno.
E ancora, il problema dell’acqua. Le stime più recenti indicano che, entro il 2025, oltre i tre quarti della popolazione mondiale soffriranno di un qualche tipo di carenza idrica. Considerato che solo il 10% dell’acqua viene utilizzata per dissetare e per i servizi igienici, il 20% per l’industria e il 70% dall’agricoltura, è evidente che è su quest’ultima che si concentra l’attenzione per una gestione più sostenibile dell’uso dell’acqua. È bene infatti ricordare che una persona beve in media dai 2 ai 5 litri di acqua al giorno ma si alimenta di cibi che, per essere prodotti, utilizzano circa 3.000 litri di acqua. L’aumento della popolazione e il cambiamento delle abitudini alimentari dei paesi più ricchi (l’intero ciclo di produzione di un solo hambuger richiede 10.000 litri di acqua) provocano quella che è orami riconosciuta come una vera e propria emergenza idrica.
Infine, ultimo non certo per importanza, l’impatto sulla disponibilità di risorse energetiche. Dal 1973 al 2006 siamo passati da un utilizzo di 6.115 Mtoe (Million Tons of Oil Equivalent) a 11.741 con una fortissima dipendenza dal petrolio (vedi grafico 1).
FIGURA 1
Suddivisione delle fonti energetiche utilizzate a livello mondiale nel 2006
fonte International Energy Agency, Statistics 2008
(cliccare sull’immagine per visualizzarla correttamente)
Al di là delle speculazioni sul petrolio, il cui prezzo record di 150 dollari al barile non ha una stretta relazione con l’effettiva disponibilità attuale della risorsa e i suoi costi di estrazione, è un dato di fatto che lo stesso World Energy Council, autore delle stime più ottimistiche, prevede entro 15 anni il raggiungimento del picco di produzione mondiale. Sugli altri fronti incominciano ad essere evidenziati problemi anche in campo idroelettrico: la ridotta disponibilità di acqua influenzerà infatti anche la produzione di energia elettrica e si calcola che nell’Europa mediterranea il potenziale idroelettrico calerà del 20-50% entro il 2070.
Come uscirne?
Ovviamente non esistono ricette semplici. La priorità sarebbe quella di ripensare seriamente al nostro modello di sviluppo che, oltre ad essere il responsabile della situazione nella quale ci troviamo, non ha portato alcun beneficio al 40% della popolazione mondiale, che vive con 2 dollari al giorno o meno.
Questa riflessione, i cui effetti sono necessariamente a lunga scadenza, si deve accompagnare ad alcune azioni da intraprendere al più presto.
Da una parte, e questo è uno degli aspetti più critici, ridurre sempre più l’utilizzo di risorse energetiche “finite” e altamente inquinanti come il petrolio, il gas o il carbone e incentivare l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili come eolico, solare o geotermico (e su questo punto un dato positivo viene dal Parlamento europeo che, in settembre, ha votato a favore di obiettivi vincolanti per l’utilizzo delle energie rinnovabili; accordo che dovrà ora essere ratificato dagli Stati Membri). Infine bisogna considerare con molta attenzione l’opzione nucleare che, oltre ai rischi che comunque comporta e al problema dello smaltimento delle scorie, è sempre meno attrattiva dal punto di vista economico.
Dall’altra, sviluppare nuovi modi di produzione con il supporto di tecnologie innovative orientate alla sostenibilità; l’innovazione tecnologica è sempre stata fautrice di miglioramenti economici e può rappresentare, con la cosiddetta sesta ondata innovativa (figura 2), una delle strade da percorrere per stabilire una nuova relazione tra l’uomo e il pianeta in cui vive.
FIGURA 2
Le sei ondate innovative
fonte: The Natural Edge Project,
(cliccare sull’immagine per visualizzarla correttamente)
L’Italia e la riduzione dell’emissione dei gas serra
4,1 milioni di euro è il debito giornaliero che, a partire dal 1° gennaio 2008, l’Italia sta accumulando per il mancato raggiungimento degli obiettivi del Protocollo di Kyoto che imponevano la riduzione del 5% dell’emissione dei gas serra nel periodo 2008-2012, rispetto a quelle registrate nel 1990 (in Italia il livello delle emissioni è del 9,9% superiore a quello del 1990). Intanto l’Italia ha anche aderito all’impegno europeo di ridurre le emissioni del 20% entro il 2020, il cui mancato raggiungimento comporterà poi sanzioni da parte di Bruxelles.
Qual è la strategia messa in atto dalle istituzioni italiane per recuperare il ritardo nei confronti di Kyoto e rispettare l’impegno europeo? Nel Documento di Programmazione Economico-Finanziaria 2009-2013 approvato la scorsa estate non viene delineata alcuna strategia per la riduzione delle emissioni, non si fa menzione al Protocollo di Kyoto e all’impegno europeo, mentre viene data grande enfasi alla scelta del Governo di rilanciare il nucleare, “dimenticando” che questa ipotesi, nel caso dovesse realizzarsi, non avrà effetti significativi che dopo il 2020.