"Negli ultimi 50 anni abbiamo modificato gli ecosistemi del pianeta come mai era successo precedentemente nella nostra storia e nei prossimi 50 anni, se i trend non verranno significativamente mutati, i servizi che gli ecosistemi offrono al benessere umano (dalla rigenerazione del suolo, al ciclo idrico ecc.) saranno sempre più compromessi e avranno serie difficoltà a mantenere le loro dinamiche naturali”. È quanto scrive Gianfranco Bologna nella prefazione all’edizione italiana dello State of the World 2008 realizzato dal Worldwatch Institute (www.worldwatch.org), organizzazione fondata nel 1974 e che dal 1984 edita la pubblicazione annuale che registra i cambiamenti economici, ambientali e sociali del nostro pianeta. Ed è proprio a partire dalla metà degli anni ’70 che ha inizio una sempre più profonda riflessione sul modello di sviluppo che ha caratterizzato la nostra società dalla rivoluzione industriale in poi, riflessione dalla quale emerge la necessità, ormai evidentemente improprogabile di conciliare crescita economica ed equa distribuzione delle risorse.
Sviluppo sostenibile o decrescita?
Pur traendo le sue radici negli anni ’60 e ’70, decenni di grandi movimenti sociali e di presa di una coscienza ambientalista collettiva, è negli anni ‘80 che si afferma il concetto di “sviluppo sostenibile” il cui obiettivo è di mantenere l’equilibrio tra sviluppo economico, equità sociale ed ecosistemi.
Il documento The World Conservation Strategy, pubblicato nel 1980 da Wwf (www.wwf.it), Iucn (International Union for Conservation of Nature- www.iucn.org), Unep (United Nations Environment Programme- www.unep.org), può essere considerato la prima anticipazione di questo nuovo modello di sviluppo: “Per affrontare le sfide di una rapida globalizzazione del mondo, una coerente e coordinata politica ambientale deve andare di pari passo con lo sviluppo economico e l’impegno sociale”. È però nel 1987, con il rapporto di Gro Harlem Brundtland, presidente della Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo, che viene enunciata la prima efficace definizione di “sviluppo sostenibile”: “Lo sviluppo che è in grado di soddisfare i bisogni della generazione presente, senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”.
Si tratta di una visione ancora decisamente antropocentrica che verrà ampliata nel 1991 da Wwf, Iucn e Unep facendo entrare in gioco, in un ruolo non più esclusivamente subordinato al benessere dell’uomo, gli ecosistemi: “Un miglioramento della qualità della vita, senza eccedere la capacità di carico degli ecosistemi di supporto, dai quali essa dipende”.
Visione che si arricchisce poi con la dichiarazione dell’Unesco (www.unesco.it) del 2001 nella quale si afferma che “la diversità culturale è necessaria per l’umanità quanto la biodiversità per la natura (…) la diversità culturale è una delle radici dello sviluppo inteso non solo come crescita economica, ma anche come un mezzo per condurre un’esistenza più soddisfacente sul piano intellettuale, emozionale, morale e spirituale”.
Parallelamente al concetto di “sviluppo sostenibile” si è andata però sviluppando un’altra visione che mette in discussione il concetto stesso di crescita economica, misurata con il più classico indicatore economico ossia il Prodotto Interno Lordo. Questa dottrina, che coniuga ambiti economici e politici, è quella della “decrescita” (termine coniato dal fondatore della bioeconomia Nicholas Georgescu-Roegen) che parte dall’assunto principale che le risorse naturali sono limitate e quindi non è ipotizzabile un sistema basato sulla crescita infinita. I teorici della “decrescita” sostengono che il miglioramento delle condizioni di vita non deve necessariamente passare dall’aumento dei consumi bensì dalla considerazione di altri parametri (che vanno dalla salute degli ecosistemi, alla qualità della giustizia, al grado di uguaglianza, alle buone relazioni tra i componenti di una società). Non si tratta di una generalizzata riduzione delle economie bensì di una considerazione dell’uomo per ciò che è e per le relazioni che può instaurare e non per ciò che può produrre e consumare. Un’attenzione, quindi, posta più sulla qualità che su quantità; posizione che si concilia con quella del Premio Nobel per l’economia nel 1998 Amartya Sen, per il quale “una concezione adeguata dello sviluppo deve andare ben oltre l’accumulazione della ricchezza e la crescita del prodotto interno lordo o di altre variabili legate al reddito (…) dobbiamo considerare ed esaminare sia i fini sia i mezzi dello sviluppo se vogliamo capire più a fondo lo sviluppo stesso (…) non è sensato considerare la crescita economica fine a se stessa; lo sviluppo deve avere una relazione molto più stretta con la promozione delle vite che viviamo e delle libertà di cui godiamo. L’espansione di quelle libertà che a buona ragione consideriamo preziose non solo rende più ricca e meno soggetta a vincoli la nostra vita, ma ci permette anche di essere in modo più completo individui sociali, che esercitano le loro volizioni, interagiscono col mondo in cui vivono e influiscono su di esso”.
La responsabilità sociale delle imprese
Il grande cambiamento intervenuto negli ultimi anni è che il dibattito su queste tematiche si è andato estendendo dalle grandi organizzazioni internazionali, dai forum economici e sociali, dalle discussioni accademiche al mondo imprenditoriale con un’assunzione di responsabilità diretta da parte delle imprese. Insieme alle tematiche ambientali e a quelle sociali si è infatti andato consolidando un altro concetto, la cosiddetta “stakeholder theory”, che si basa sull’assunto che ciascun gruppo di portatori di interesse (azionisti, dipendenti, fornitori, clienti ecc.) deve poter partecipare alla definizione dell’indirizzo generale dell’azienda. L’impresa si configura quindi come un insieme di relazioni tra gruppi che hanno un interesse per le sue attività. La Corporate Social Responsibility (CSR), la responsabilità sociale delle imprese
appunto, è proprio l’impegno che l’azienda si assume nell’adottare comportamenti che, andando oltre il semplice rispetto degli obblighi di legge, si basano su modelli gestionali e di produzione permeati dal concetto di sviluppo equo, sostenibile e rispettoso degli interessi degli stakeholder. È evidente che si introducono temi che travalicano l’attenzione esclusiva alle tematiche ambientali per porre concretamente l’accento su tutti quegli aspetti che ci permettono, ritornando alle parole di Sen, “di essere in modo più completo individui sociali”: sicurezza dei lavoratori, non sfruttamento del lavoro minorile, qualità e sicurezza dei prodotti, formazione, valorizzazione delle competenze.
In questo scenario si fa inoltre strada una nuova categoria sociale: il consumatore. Negli anni ’90 le scienze sociali iniziano a teorizzare una grande trasformazione in corso nelle società economicamente avanzate: il comportamento di consumo non è determinato esclusivamente o prevalentemente da motivazioni di carattere economico; prendono sempre più forza pressioni che abbracciano altre discipline sociali (basti pensare alle azioni di boicottaggio, soprattutto nei paesi anglosassoni, nei confronti di aziende che assumono comportamenti considerati non etici).
Le pressioni che giungono dalla società civile inducono però anche un’importante riflessione nelle imprese che diventano sempre più consapevoli che questi aspetti non sono più da considerare dei costi bensì degli investimenti. Come spiega il Libro Verde sulla responsabilità sociale delle imprese, redatto dalla Commissione Europea nel 2001: “Essendo esse stesse confrontate, nel quadro della mondializzazione, e in particolare del mercato interno, alle sfide poste da un ambiente in trasformazione, le imprese sono sempre più consapevoli del fatto che la responsabilità sociale può rivestire un valore economico diretto. Anche se la loro responsabilità principale è quella di generare profitti, le imprese possono al tempo stesso contribuire ad obiettivi sociali e alla tutela dell’ambiente, integrando la responsabilità sociale come investimento strategico nel quadro della propria strategia commerciale, nei loro strumenti di gestione e nelle loro operazioni”.
L’impatto economico della responsabilità sociale delle imprese può essere diretto o indiretto.
Risultati positivi diretti riguardano: un maggior impegno e una maggiore produttività dei lavoratori in conseguenza di politiche di miglioramento delle condizioni di lavoro, di maggiore attenzione alla valorizzazione delle competenze; minori costi derivanti da un’efficace gestione delle risorse naturali; l’apertura di nuove opportunità di mercato nello sviluppo di prodotti, soluzioni e servizi orientati a una migliore gestione delle risorse naturali. Gli effetti indiretti derivano da una diffusa nuova coscienza ambientale e sociale di consumatori e investitori che “premiano” le aziende impegnate in questa direzione.
Le dimensioni della CSR
La responsabilità sociale delle imprese, come illustra il Libro Verde della Commissione Europea, si articola su due dimensioni: interna ed esterna.
Alla prima afferiscono tutte quelle pratiche che concernono l’attività dell’azienda stessa: gestione delle risorse umane: attrarre e conservare lavoratori qualificati è una delle sfide che le imprese si trovano ad affrontare oggi. Intraprendere adeguate misure di valorizzazione, migliorare la comunicazione interna, sviluppare forme di partecipazione ai profitti, agevolare un migliore equilibrio tra lavoro, famiglia e tempo libero: queste alcune delle misure che rendono un’azienda “attrattiva” per chi ci lavora; salute e sicurezza nel lavoro: si tratta di argomenti tradizionalmente affrontati attraverso misure legislative e coercitive, ma nell’attuale cambiamento del contesto di mercato, con una sempre maggiore esternalizzazione delle attività produttive, quello che si chiede alle imprese oggi è di farsi carico che queste regole siano rispettate anche dai terzisti (siano essi nazionali o stranieri); ristrutturazioni “socialmente consapevoli”: le ristrutturazioni su grande scala suscitano inquietudine in tutti i lavoratori dipendenti e nelle altre parti interessate, poiché la chiusura di un’impresa o massicci licenziamenti possono provocare una crisi economica, sociale o politica grave in una comunità. Ristrutturare in un’ottica socialmente responsabile significa equilibrare e prendere in considerazione gli interessi e le preoccupazioni di tutte le parti interessate ai cambiamenti e alle decisioni; sviluppo di prodotti a ridotto impatto ambientale: la riduzione del consumo delle risorse o delle emissioni inquinanti e dei rifiuti impatta direttamente sull’ambiente, da cui deriva l’imperativo di sviluppare prodotti, e definire processi, che ne tengano conto. La Politica integrata del prodotto, per esempio, si basa su un esame dell’impatto dei prodotti lungo tutto il loro ciclo di vita e presuppone un dialogo tra le imprese e le altre parti interessate, pubbliche e private, per individuare la strategia più efficace e meno costosa.
La dimensione esterna dell’impresa estende la responsabilità sociale al perimetro esterno dell’azienda: comunità locali: l’interazione con il tessuto locale nel quale l’azienda opera contribuisce alla creazione di posti di lavoro sul territorio con l’impegno in attività sociali a tutela dell’ambiente, nel reclutamento degli esclusi, nel realizzare strutture di custodia dei figli dei dipendenti ecc.; partnership commerciali, fornitori, consumatori: la stretta collaborazione, all’insegna del rispetto dei principi di responsabilità sociale, con partner commerciali e fornitori estende sul territorio questi stessi principi; le grandi imprese possono, inoltre, agevolare lo sviluppo di imprese innovative innescando un vero e proprio cerchio virtuoso; diritti dell’uomo: l’azienda che si estende al di fuori dei confini nazionali non può agire nella logica dei “due pesi e due misure” e deve farsi carico, in prima persona, che in ogni luogo ove opera vengano rispettati i diritti dei minori, i diritti dei lavoratori, la lotta alla corruzione ecc.
I grafici di queste pagine illustrano i risultati di un’indagine di Forester Research sulle azioni di responsabilità sociale di 100 aziende Fortune Global 500.]