Dopo aver analizzato i risultati emersi dal secondo Osservatorio Enterprise 2.0 del Politecnico di Milano (www.polimi.it), proseguiamo la nostra analisi interrogando le aziende utenti. Il panel che abbiamo selezionato è costituito con un rappresentante della funzione Risorse Umane, Roberto Battaglia, responsabile della formazione in Intesa Sanpaolo (www.intesasanpaolo.com); due Cio, Nunzio Calì, IT manager in Fiat (www.fiat.it) ed Erminio Seveso, presidente Aused (www.aused.org); un uomo del marketing, Pepe Moder, responsabile digital marketing di Barilla (www.barilla.it).
Oltre all’ovvia presenza di uomini dei sistemi, le funzioni scelte come testimonial del dibattito (rappresentanti anche una parte del panel dello studio dell’Osservatorio), sono quelle che hanno a che fare con persone: gli addetti interni all’azienda per le risorse umane e i clienti o potenziali per il marketing. Questa è la vera differenza di scenario e qualitativa tra la vecchia organizzazione funzionale e gerarchica e la knowledge company, tra il mercato segmentato e la relazione diretta con il cliente resa possibile dagli strumenti interattivi del web 2.0: la centralità e la relazione tra le persone.
Qual è allora il punto di vista delle funzioni più motivate, se non le più innovative, sull’applicazione del paradigma Enterprise 2.0? Quali sono gli ostacoli maggiori da superare, quali le opportunità?
risorse umane: tradizione e innovazione
Per Battaglia, “Gli uomini delle risorse umane guardano affascinati alle applicazioni web 2.0, pur sapendo che la gestione del materiale umano richiede di agire con grande cautela. Tanto più grande allorché ci si muove in un ambiente come quello di un’azienda di credito, cioè una realtà forzatamente molto regolata e proceduralizzata, in cui la confidenzialità delle informazioni può raggiungere punte critiche. Peraltro, non tutte le informazioni presuppongono la stessa criticità, come primo impatto, e come in tutte le altre organizzazioni il dibattito relativo al know how informale e a quello codificato, nonché alle modalità di recupero del primo, tocca questioni molto delicate”.
La funzione Risorse Umane ha una collocazione di frontiera in questo contesto: gestisce le persone, le loro prospettive di carriera, gli assetti organizzativi, le loro ambizioni e aspettative. Nell’azienda hanno la responsabilità del passaggio da dichiarazione ad azione, devono cioè declinare le strategie aziendali con la qualità del materiale umano e le sue potenzialità. In questo sta la sfida, e sul terreno delle innovazioni che l’Enterprise 2.0 può introdurre in azienda, la questione cruciale è far capire quali sono le reali opportunità alle persone che si occupano di risorse umane.
Una delle difficoltà più grandi sta nel far superare alle persone la visione che maggior libertà significa necessariamente rischio per l’integrità dei sistemi. In particolare, vi sono tre rischi associati, a torto o a ragione, all’introduzione di strumenti del mondo Enterprise 2.0: la condivisione delle informazioni viene vista generalmente come una perdita di potere personale all’interno della struttura; lasciare campo a dinamiche del tipo bottom up può generare anarchia, se non c’è abitudine all’autonomia e al lavoro per obiettivi all’interno dell’azienda; va superata la distanza tra Cio e utenti, che sull’utilizzo di strumenti web 2.0 possono aver maturato esperienze anche rilevanti, non sempre però hanno consapevolezza del diverso livello di complessità che comporta il loro utilizzo all’interno dell’azienda.
“Con questo – tiene a precisare Battaglia – non si vuole negare che esistano terreni di sperimentazione e contaminazione da esplorare. Anche perché, e qui sta uno dei rischi/opportunità maggiori, sta arrivando in azienda la generazione Y, quella dei cosiddetti nativi digitali. Sono i 25-30enni che associano questi strumenti al loro modo naturale di lavorare. Nel giro di qualche anno, le aziende che non avranno adeguati strumenti e metodologie rischiano di essere messe fuori mercato, o quanto meno di dover rinunciare a competere sul mercato per assicurarsi i migliori talenti. Per riuscire ad evitare questo rischio occorre prepararsi a introdurre in modo organico queste tecnologie”. “Un approccio di possibile successo – prosegue Battaglia – è quello strutturato volto a: gestire iniziative di dimensione limitata; provvedere a consolidare rapidamente i risultati, cercando per quanto possibile di modellizzarli; avere cura di raccontare le esperienze per diffondere le buone pratiche; lavorare in modo da verificare ed evidenziare risultati tangibili e misurabili. Con la consapevolezza che nel mondo dei social network non è facile far emergere risultati tangibili o misurare elementi quali un migliorato clima aziendale o una maggior propensione alla collaborazione”. In generale, le pratiche di social network funzionano se si legano ai processi lavorativi.
L’altra metà del cielo: il mondo dei clienti
L’esperienza di Moder e quella di Calì, pur essendo maturata in contesti quanto mai distanti tra loro, si è focalizzata sullo stesso tema: come far avvantaggiare l’azienda dalla partecipazione del pubblico attivo, dal fenomeno che gli americani hanno definito con il termine crowdsourcing. In entrambe le esperienze, Il “Mulino che vorrei” per Barilla (www.nelmulinochevorrei.it) e il “Blog Nuova 500” per Fiat (www.fiat500.com) lo sforzo è stato di coinvolgere gli utenti liberando la loro creatività per rafforzare il brand e avere suggerimenti riguardo le loro preferenze sul prodotto.
Moder è arrivato un anno fa in Barilla e guida un team di 4 persone con l’obiettivo di presidiare le attività di comunicazione marketing online dell’azienda in modo da “tradurre bisogni presenti nelle piattaforme di comunicazione dei brand in strategie di posizionamento nel mondo digitale”, sottolinea. La difficoltà maggiore, per Moder, nel tentativo di far incontrare l’azienda, una organizzazione sociale che ha bisogno di regole, che vive di esse, con i giovani, nasce dal fatto che questi ultimi sono abituati a sperimentare fuori, in assenza di regole.
Poiché uno degli obiettivi di Barilla è agganciare il pubblico giovanile, mission della struttura di Moder è facilitare questo incontro, sapendo che compito dell’azienda è misurarsi sul terreno dell’uso delle applicazioni web 2.0 anticipando gli utenti per far loro usare correttamente gli strumenti, cosa che non sempre sono abituati a fare in un contesto totalmente autonomo. Sul versante interno, la struttura di Moder si deve accreditare presso il management facendo cogliere alla direzione aziendale il senso dell’utilizzo di strumenti innovativi.
Si è così scelta la strada dei progetti pilota per “tastare il polso alle persone”, dice Moder, e trapela il sospetto che oltre ai clienti si alluda anche a qualche dirigente. In ogni caso “Nel Mulino che vorrei” si parte da una serie di esigenze espresse da direttore marketing e dal coinvolgimento dei massimi livelli decisionali di Barilla.
“L’iniziativa di Barilla è partita dunque con l’obiettivo di raccogliere le idee delle persone in 5 aree (prodotti, promozioni, confezioni, impatto sociale e ambiente, altro)”, spiega Moder. “Le persone, in sostanza, vengono invitate a proporre le loro idee (siamo già ad oltre 800 idee pubblicate), la comunità le vota, Mulino Bianco si impegna a valutarle e, nel caso, a realizzarle. Obiettivo dell’iniziativa è spingere i navigatori a comunicare in modo spontaneo con la marca”.
Può sembrare un’idea tutto sommato banale, ma il dato rilevante è che l’azienda ai massimi livelli si impegna con la community. Infatti, ogni proposta dà origine a un business case: sul sito sono evidenziati fasi e tempi delle operazioni: analisi dell’idea di business (4-6 settimane), analisi costi/benefici, test su confezione e distribuzione (8-16 settimane); tempi di realizzazione che possono prendere tempi molto lunghi (che però verranno comunicati alla comunità). Il tutto viene spiegato e gestito in totale trasparenza, e con l’imprimatur dell’amministratore delegato, del direttore generale e del direttore marketing di Mulino Bianco, che partecipano in prima persona alla scelta dell’idea di business.
Il team di Barilla ha ben chiaro che si sta rivolgendo a un campione deformato, target fatto prevalentemente di giovani, ma questo corrisponde a una precisa scelta di Mulino Bianco che intende rivolgersi proprio a questo target e approfitta del fatto che i giovani vogliono entrare nei processi decisionali dell’azienda.
Stessa constatazione sta alla base dell’iniziativa di Fiat testata in occasione dell’annuncio della 500. L’azienda torinese ha attivato un blog in cui ha chiesto ai clienti, a partire da una serie di specifiche base, di immaginare la “loro” Nuova 500. L’esperienza della nuova 500 è stata importante perché i componenti sono nati dalle richieste dei clienti. La configurazione del prodotto, tutte le caratteristiche sono state create dopo, quindi post-vendita, il contributo del cliente è entrato nella definizione del prodotto.
Un approccio frutto di scelte organizzative precise. È stata creata una funzione 2.0 Marketing Innovation: il gruppo decide la roadmap di supporto al prodotto ma anche la piattaforma digitale per fornire informazioni alla produzione. È stato definito un Customer Satisfaction Index, che raccoglie in Italia e all’estero i feed back dei clienti; oggi potenziato anche attraverso una ricerca sul web. Certo, non tutto è apertura totale; vi sono problemi di security: per engineeering, design e stile ci sono meccanismi particolari di difesa delle informazioni.
Seveso, sulla base della sua lunga esperienza nel mondo IT, traccia alcune conclusioni. “I Cio hanno subìto pressioni molto forti sul piano della standardizzazione, consolidamento e riduzione dei costi e vengono misurati su operatività e produzione di informazioni. Vivono con attenzione lo spostamento del focus dalla tecnologia ai processi, e in alcuni c’è il timore di una perdita di ruolo con l‘avvento di tecnologie 2.0. Pur in un contesto di investimenti ridotti, il Cio può trovare un ruolo nella collaborazione con funzioni che sono “di frontiera” per tecnologie e paradigmi organizzativi (risorse umane e marketing); del resto le componenti 2.0 che hanno avuto maggior successo in azienda sono quelle “border line” tra strutturato e non strutturato; e sono promuovibili in azienda perché realizzano efficienza. Inizialmente si tratta di opportunità piccole, ma che scatenano grandi cambiamenti; è una situazione simile all’ingresso del Pc in azienda. Anche in questo caso si dovrà pensare a modalità organizzative innovative che il Cio dovrà saper cavalcare”.
Il 51% di Artemide Tecnologie informatiche acquisito da Akhela
Akhela, società Ict del Gruppo Saras, ha firmato un accordo per l’acquisizione del 51% della società romana Artemide Tecnologie Informatiche Srl. Società di servizi Ict e sviluppo software, Artemide focalizza la propria attività sulla progettazione, produzione, installazione e manutenzione di applicazioni e architetture software di ambienti complessi alla quale affianca i servizi di consulenza specialistica e di addestramento sui vari settori dell’informatica, in particolare sui temi della Business Intelligence. Nata nel 2006, l’azienda acquisita da Akhela conta attualmente circa 50 dipendenti e un fatturato annuo di circa 3 milioni di euro.
Piercarlo Ravasio, Amministratore Delegato di Akhela ha dichiarato: “Questa acquisizione permetterà ad Akhela di rafforzare la propria presenza a livello nazionale attraverso l’ampliamento della struttura organizzativa di Roma. Beneficeremo di notevoli sinergie, sia in termini di portfolio dell’offerta, data la complementarietà delle competenze tecniche delle due società, sia in termini commerciali, avendo entrambe le aziende importanti referenze su clienti di medie e grandi dimensioni basate sul territorio”.
Gli Amministratori di Artemide Tecnologie Informatiche hanno aggiunto: “Questa operazione ci permetterà di lavorare con una realtà affermata del panorama informatico italiano, che è cresciuta notevolmente in questi anni, e di mettere a fattore comune le nostre competenze con quelle di Akhela.”
Enterprise 2.0: la declinazione Visiant
Design sociale, design visuale, qualità del management. Sono questi i fattori critici per la creazione di un efficace ambiente di collaborazione basato sulle tecnologie. È la convinzione di Paolo Costa, partner di Spindox, business unit di Visiant (www.visiant.it) che opera sui temi dell’Enterprise 2.0. “Siamo molto diffidenti degli approcci guidati dalla tecnologia”, afferma il manager. Che però non nega che possano esserci casi in cui l’avvento di alcune nuove tecnologie generi nuove “pratiche” prima anche inimmaginabili. “E’ quello che gli accademici chiamano modellamento sociale della tecnologia”, continua Costa, che cita due esempi recenti di tecnologie capaci di avere questo impatto: l’iPhone e il servizio di messaggistica e microblogging Twitter. Ma in generale, ritiene Costa, è rischioso partire dalle tecnologie e non, invece, dall’organizzazione. “Il nostro – spiega – è un approccio più sociologico e psicologico. Le tecnologie sono abilitanti. Affinché possano dare un contributo positivo, dobbiamo prima di tutto pensare in termini di design sociale, evitando una modellazione tayloristica dell’organizzazione, ma puntando su un ambiente collaborativo. Questo richiede la presenta di attori, processi in vista di obiettivi condivisi, condivisione di linguaggi e codici di comunicazione, motivazione e fiducia. Infine, occorre progettare molto bene le interfacce delle tecnologie di collaborazione e puntare sulla qualità del management che ha le leve gestionali necessarie per attuare dei cambiamenti nei processi e nell’organizzazione”. (R.C.)