Conferenza sul clima di Copenhagen: dalle parole ai fatti

Dal 7 al 18 dicembre si svolgerà a Copenhagen la 15° Conferenza Onu (nella foto il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon) sui cambiamenti climatici che dovrà ridefinire i contenuti del Protocollo di Kyoto, ormai prossimo alla scadenza. Gli occhi del mondo sono puntati su Usa e Cina, i principali responsabili di emissioni di gas inquinanti, le cui più recenti dichiarazioni fanno sperare in un esito positivo del summit

Pubblicato il 03 Nov 2009

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Riduzione delle emissioni di gas serra, adattamento ai cambiamenti climatici, finanziamento di queste attività: sono questi i tre temi cruciali sui quali i rappresentanti di 175 Paesi sono chiamati a discutere, ma soprattutto a prendere decisioni vincolanti, nel corso della 15° Conferenza Onu sui cambiamenti climatici che si terrà a Copenhagen dal 7 al 18 dicembre.
Secondo l’ente governativo britannico Met Office se continueremo a immettere nel nostro pianeta la quantità di CO2 che abbiamo prodotto negli ultimi decenni, entro il 2100 avremo un innalzamento delle temperature medie globali di 5,5-7,1 gradi centigradi; la stima approssimativa di una parte consistente del mondo scientifico afferma che un innalzamento di soli 4 gradi porterebbe un quinto delle specie animali a rischio di estinzione e 1-2 miliardi di persone a soffrire la fame. Queste poche righe evidenziano come quello della compatibilità ambientale del nostro sviluppo non sia un problema di domani, ma un’esigenza di oggi.
Conosciuta anche come Kyoto II, la Conferenza di Copenhagen dovrà rappresentare lo spartiacque definitivo, con impegni precisi, concreti e vincolanti, tra una politica di promesse alla quale sono seguite azioni molto limitate rispetto alle incombenti esigenze del nostro pianeta e una politica di fatti concreti che riesca a coniugare lo sviluppo con la sostenibilità del luogo in cui viviamo. Dal dicembre 1997, quando venne sottoscritto il Protocollo di Kyoto, la sensibilità sulle tematiche ambientali è profondamente cambiata. Si è infatti andata diffondendo una maggiore consapevolezza dell’urgenza di porre rimedio ai disastri causati dagli ultimi 200 anni di sfruttamento intensivo delle risorse naturali e le forti spinte che, in questa direzione, giungono dalla società civile hanno iniziato a fare breccia anche a livello istituzionale all’interno dei singoli Stati nonché negli organismi internazionali.
La Conferenza di Copenhagen si apre infatti all’insegna delle grandi aspettative aperte dalla

presidenza Obama dopo la proclamata decisa inversione di tendenza rispetto all’amministrazione Bush sulle tematiche ambientali e dalle speranze suscitate dall’intervento del presidente cinese Hu Jintao al vertice Onu sul clima dello scorso settembre riguardo l’intenzione della Cina di ridurre drasticamente le proprie emissioni di CO2, avendo già investito in tecnologie ecosostenibili.

Ebbene, la Conferenza di Copenhagen rappresenta il banco di prova per i due maggiori inquinatori del mondo per trasformare le promesse in azioni concrete.
In attesa di conoscere quello che i nostri rappresentati decideranno, ripercorriamo brevemente le tappe di questo processo.

Da Kyoto a Bali
Il Protocollo di Kyoto sottoscritto nella città giapponese l’11 dicembre 1997 da più di 160 paesi ed entrato in vigore il 16 febbraio 2005, prevede che i paesi industrializzati riducano entro il 2012 le emissioni di CO2 in una misura non inferiore al 5% rispetto a quelle registrate nel 1990. Ad oggi, 174 Paesi e un’organizzazione di integrazione economica regionale (Eec) hanno ratificato il Protocollo o hanno avviato le procedure per la ratifica. Questi paesi contribuiscono per il 61,6% alle emissioni globali di gas serra. Il protocollo di Kyoto prevede inoltre, per i Paesi aderenti, la possibilità di servirsi di un sistema di meccanismi flessibili per l’acquisizione di crediti di emissioni. Dopo la ratifica da parte dell’Australia nel dicembre 2007, gli Usa rimangono l’unico paese a non aver operato in tal senso: Bill Clinton aveva firmato il Protocollo durante gli ultimi mesi del suo mandato, ma George W. Bush, poco tempo dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, ritirò l’adesione inizialmente sottoscritta, oggi Obama ha proclamato il disconoscimento delle scelte di Bush. I paesi in via di sviluppo, al fine di non ostacolare la loro crescita economica frapponendovi oneri per essi particolarmente gravosi, non sono stati invitati a ridurre le loro emissioni e quindi anche Cina e India, il cui “peso” nelle emissioni globali di CO2 è sostanzioso (vedi figura), hanno ratificato il protocollo, ma non sono tenute a ridurre queste emissioni. Come abbiamo visto, la Cina sembra però intenzionata ad assumersi una chiara responsabilità in questa direzione.

Emissioni di CO2 nel mondo, in percentuale per paese nel 2008
(cliccare sull'immagine per visualizzarla correttamente)


A quella di Kyoto sono seguite numerose Conferenze dell’Onu, incontri e summit della comunità internazionale sia a livello mondiale sia a livello europeo. Da segnalare quella svoltasi nel dicembre 2008 nella quale l’Unione Europea, dopo undici mesi di lavoro legislativo e un infuocato dibattito che ha visto l’Italia protagonista di un serrato braccio di ferro con il Parlamento Europeo, ha votato il pacchetto clima-energia che fissa gli obiettivi europei per il 2020 (rispetto ai valori del 2005): ridurre del 20% le emissioni di gas a effetto serra, portare al 20% il risparmio energetico e aumentare al 20% il consumo di fonti rinnovabili. Ma l’evento sicuramente più significativo, per la sua portata e per l’approssimarsi della scadenza fissata da Kyoto, è stata la 13° Conferenza Onu sui cambiamenti climatici svoltasi a Bali nel dicembre 2007. Le opinioni sul valore degli esiti di quel vertice sono contrastanti: numerose associazioni ambientaliste hanno accusato il vertice di non aver prodotto alcun risultato concreto mentre molti paesi lo hanno valutato come un, seppur lento, passo avanti verso una convergenza di intenti sul futuro del pianeta. Vero è che fino all’ultimo giorno si era temuto un fallimento totale, a causa all’inedito asse Russia-Usa che si opponevano senza possibilità di appello alla richiesta di riduzione ulteriore delle emissioni di gas serra entro il 2020. Di fatto il vero accordo che si è raggiunto a Bali è stata la definizione di un percorso negoziale per la stesura di un nuovo accordo sui mutamenti climatici che vada a sostituire in maniera più ambiziosa (ma non se ne è definita quantitativamente la portata) quello di Kyoto; percorso che si concluderà, appunto, con la Conferenza di Copenhagen.

Verso Copenhagen
Passo intermedio importante tra la Conferenza di Bali e quella che si terrà nella capitale danese, è stata la 14° Conferenza Onu sui cambiamenti climatici di Poznan del dicembre 2008 i cui obiettivi sono stati sostanzialmente due: il primo riguardava la definizione di un percorso per integrare meglio nel regime climatico internazionale gli Usa e i paesi emergenti Cina, India e Brasile; il secondo, la ridefinizione di quei meccanismi flessibili per l’acquisizione di crediti di emissioni messi a punto a Kyoto e, più in generale, la negoziazione su impegni che possano veramente e credibilmente essere vincolanti per i paesi aderenti.
Nel frattempo, però, la crisi economica mondiale ha ridotto l’attenzione su queste tematiche da parte di governi e istituzioni internazionali, al punto da indurre il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon a convocare il già citato vertice sul clima dello scorso settembre alla vigilia dell’Assemblea generale dell’Onu, proprio per richiamare l’attenzione sulla questione ambientale: la Conferenza di Copenhagen è alle porte e finora i negoziati non hanno registrato che marginali progressi e non ci si può certo crogiolare nel fatto che nel 2009 le emissioni sarebbero scese a livello mondiale del 2,6% (secondo l’International Energy Agency) dato che la causa principale di questo calo è da imputare in buona parte alla crisi economica.
Il richiamo di Ban Ki Moon ha smosso gli “intorpiditi” negoziatori che, speriamo, dovrebbero avere trovato nuova linfa sia nelle dichiarazioni di Obama, sia in quelle del presidente cinese Hu Jintao e in quelle, non trascurabili, del premier giapponese Yukio Hatoyama che si è dichiarato pronto a tagliare le emissioni del 25% entro il 2020. Nel frattempo gli occhi sono ancora puntati sugli Usa dove la legge voluta da Obama, che prevede il taglio delle emissioni del 17% (rispetto al 2005) entro il 2020 e dell’83% entro il 2050, è stata approvata alla Camera ma è attualmente ferma in Senato.
Mentre andiamo in stampa si è appena conclusa la penultima tappa dei negoziati preparatori, svoltasi a Bangkok in ottobre (l’ultima sarà a Barcellona ai primi di novembre). Sui tre punti cruciali enunciati all’inizio dell’articolo, nei negoziati di Bangkok alcuni passi avanti, seppur tra contrasti e dissensi, sono stati compiuti: in materia di riduzione delle emissioni, sono state ulteriormente ridotte le opzioni possibili sul seguito da dare al Protocollo di Kyoto e la maggior parte dei Paesi ha annunciato i rispettivi obiettivi di riduzione (anche se la vera sfida sarà quella di indurre i paesi più inquinanti a impegnarsi su obiettivi analoghi); il finanziamento delle misure climatiche (riduzione e adattamento) nei Paesi in via di sviluppo rappresenta certamente la chiave di volta dei negoziati e tutte le proposte di finanziamento sono state ora chiaramente identificate, compresa l’ultima in ordine di presentazione, ovvero quella formulata dagli Stati Uniti, che propone un nuovo assetto per le istituzioni finanziarie esistenti in ambito climatico. Il contenuto delle circa 200 pagine del testo negoziale è stato ampiamente consolidato e ora la “palla” passa a Copenhagen.

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