Secondo ricerche in possesso del consorzio ReMedia (www.consorzioremedia.it), uno dei quindici sistemi collettivi di raccolta che aderisco al Centro di Coordinamento Raee (Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) italiano (www.cdcraee.it), i rifiuti tecnologici crescono a livello mondiale a un ritmo del 5% l’anno, pari a tre volte quello dei normali rifiuti. In Italia ReMedia stima che nel 2008 siano state raccolte e mandate allo smaltimento in impianti idonei secondo i criteri Raee solo 16.800 tonnellate di rifiuti It (pc, monitor, stampanti, server, etc.) e Tlc (telefoni, segreterie telefoniche, cellulari, centralini etc.). E questo a fronte di un venduto, per quanto riguarda il mercato consumer, pari a 127.000 tonnellate. È vero che, soprattutto quando parliamo di mercato domestico, occorre tenere conto che molti nuclei si stanno ancora dotando del loro primo o secondo pc, o che, sempre secondo ReMedia, in genere solo un nuovo cellulare su due acquistati è destinato a sostituire definitivamente uno vecchio; ma il fatto che il Raee domestico correttamente gestito corrisponda, in peso, a solo il 30% del venduto è allarmante, perché lascia presupporre che una quantità di quasi il 70% prenda vie non ortodosse, come le discariche o i sacchi dell’immondizia indifferenziata. E questo è grave, poiché stampanti, cellulari, cordless, pc e monitor sono vere e proprie piccole bombe ecologiche che contengono metalli pesanti e materie plastiche realizzate con composti quasi “al bando” come Pvc (cloruro di polivinile) e Bfr (ritardanti di fiamma bromurati). “Il fatto che 16.800 tonnellate rappresentino meno del 10% delle 180.000 tonnellate di rifiuti elettronici complessivamente raccolti – aggiunge Danilo Bonato, amministratore delegato di ReMedia – ci dice inoltre che c’è ancora un’enorme quantità di prodotti It e Tlc che può essere avviata a un corretto smaltimento e riciclo”. Un impulso in questo senso arriverà, oltre che dalla sempre maggiore diffusione delle “isole” di raccolta differenziata comunali istituite sul territorio, anche dall’attuazione delle norme che prevedono l’obbligo, per la grande distribuzione e i rivenditori di queste tecnologie al pubblico, di ritirare, su eventuale richiesta del cliente, un prodotto dismesso analogo a uno nuovo venduto.
Dove finiscono i rifiuti Ict aziendali
Da sempre la dismissione dei beni informatici e di telecomunicazione acquistati dalle aziende segue, nella stragrande maggioranza dei casi almeno, strade diverse rispetto a quelle del mondo consumer. Storicamente chi vende prodotti It e di telefonia alle aziende si offre di ritirare le apparecchiature obsolete, gratuitamente o dietro pagamento (trade-in). In alternativa, esistono operatori (definiti broker) che ritirano sistemi informatici gratuitamente o che pagano piccole cifre sulla base del peso. Alcuni di questi prodotti vengono ricondizionati e rimessi sul mercato, altri vengono disassemblati al fine di trarne le componenti che possono essere rivendute, mentre il resto è avviato verso soggetti che si occupano del loro smaltimento. “Possiamo stimare – interviene Bonato – che fatto 100 il peso complessivo del venduto di prodotti It e Tlc, alle famiglie possa andare una percentuale del 40% e alle aziende il restante 60%”. Secondo stime sempre in possesso di ReMedia, i rifiuti prodotti dall’obsolescenza delle tecnologie informatiche e di comunicazione aziendali, in Italia, ammontano a circa 135.000 tonnellate. Tra pc, server, mainframe e centralini, però, sembra che solo il 53% di questo tipo di prodotti dismessi venga poi effettivamente trattato in modo corretto. Nel mondo dei broker e degli operatori specializzati nella raccolta, riciclaggio e smaltimento di pc, server, monitor, stampanti, apparati di networking, centralini aziendali, c’è del buono e del cattivo. “Il fatto che questi soggetti dispongano di un’autorizzazione – aggiunge Bonato – non ci dice tutto su dove e come quello che non viene reimmesso sul mercato sia trattato e smaltito”. Nelle nebbie in cui si perdono queste filiere, ci possono essere soggetti che estraggono dai pc schede di rete, Ram, Cpu, ventole, alimentatori e poi buttano il resto (chassis di ferro, alluminio, plastica, schede con condensatori contenenti i velenosi bifenili clorurati, i Pcb) tra i rifiuti solidi urbani. Così come, in una delle peggiori delle ipotesi, spediscono container di questi rifiuti in discariche del Terzo Mondo, dove ci sono bambini che passano le giornate a bruciarli per estrarre metalli pregiati come il rame o l’oro. Sullo sfondo di questo quadro a tinte fosche, c’è da dire che un numero sempre maggiore di system integrator o produttori che ritirano le tecnologie obsolete, comincia ad avvalersi dei sistemi collettivi di raccolta (i consorzi) istituiti ai sensi del decreto 151/2005 (quello dei Raee). Una testimonianza è il fatto che, nel solo primo semestre 2009, ReMedia abbia ritirato un quantitativo di Raee pari all’88,4% dell’intero ritirato nell’anno precedente. A fronte delle 734 tonnellate del 2008, nei primi sei messi dell’anno in corso, il maggiore consorzio che ritira prodotti elettronici (dichiara di raccogliere da solo un terzo del totale dei rifiuti di elettronica di consumo prodotti in Italia) ha avviato agli impianti idonei di smaltimento ben 830 tonnellate di Raee professionali.
Non un business ma un punto distintivo per gli utenti
Se è vero che perseguire una filosofia Ict “green” a livello energetico (con la virtualizzazione e il consolidamento dei server e dei sistemi di stampa, per esempio), permette alle aziende di ridurre i costi e, di conseguenza, aumentare i profitti, nel caso dell’ottemperanza alle normative Raee le imprese utenti Ict non devono sperare di guadagnare in termini monetari. “Realizzare e mantenere un sistema logistico che ritira i rifiuti Raee e li porta a impianti in cui essi sono trattati nel rispetto delle normative ambientali costa”, spiega Bonato. È anche per questo che i produttori di tecnologie, incalzati dalle normative, hanno aderito ai sistemi collettivi consortili che permettono loro di realizzare economie di scala e di contenere i costi legati alla raccolta e allo smaltimento dei prodotti giunti a fine vita. Ed è anche per questo che il legislatore ha dato facoltà ai produttori di chiedere ai clienti consumer un contributo economico – il cosiddetto contributo Raee – finalizzato a sostenere i costi del riciclo e non a costituire un ulteriore profitto. “L’unico modo in cui un’azienda può cercare di monetizzare dalla dismissione di un bene It o Tlc è di trovare un broker disposto a pagargli qualche centesimo di euro per ogni chilo di materiale ritirato”, continua l’amministratore delegato di ReMedia. “Ma difficilmente poi potrebbe farsi dire dove vanno a finire quei rifiuti e se sono trattati in maniera corretta”. E in un’epoca in cui si parla tanto di bilanci ambientali e di Corporate Social Responsability, “sarebbe assurdo se un’impresa poi cadesse proprio su un punto come quello della corretta dismissione dei propri beni It e Tlc”. Quindi, conclude Bonato, “le aziende devono cominciare a pensare che per un corretto riciclo delle loro tecnologie qualche costo c’è. E che non è possibile farne un business”. Per questa ragione, Bonato auspica un’azione di sensibilizzazione delle aziende. “Bisognerebbe che tutti capissero che per avere a posto la coscienza non basta aver consegnato i propri prodotti Ict giunti a fine vita a un qualunque operatore in possesso di un’autorizzazione. Occorrebbe preoccuparsi di sapere dove questi vanno a finire; tenere, insomma, una sorta di tracciabilità dei Raee aziendali”.
Cosa si può fare concretamente
Ma siamo sicuri che i costi che le aziende devono sopportare per smaltire i loro asset It e Tlc obsoleti non possono essere in qualche maniera ridotti? “Il decreto 151/05 – fa notare l’amministratore delegato di ReMedia – prevede in realtà una cosa molto “carina”: cioè l’obbligo, per i fornitori di tecnologie It e Tlc alle aziende, di ritirare gratuitamente un prodotto analogo a quello acquistato”. In pratica questo significa, per esempio, che un’azienda che acquista cinquanta stampanti di un vendor, ha diritto a farsi ritirare dal produttore cinquanta stampanti obsolete anche se sono state prodotte da un’altra casa. Quasi sempre, invece, le aziende non sono a conoscenza di questa facoltà e quindi, non solo sborsano i soldi per acquistare nuovi prodotti, ma poi ne pagano anche altri per dismettere quelli vecchi. Questo perché, qualora non vi fosse nessuno disposto a portarli via gratuitamente o a pagarli qualche euro, le aziende non possono usufruire dei servizi delle “isole” senza pagare, come invece hanno diritto i privati cittadini. Se vogliono avvalersi di questi servizi, devono pagare qualcuno che effettui il trasporto dei prodotti da dismettere (già differenziati) fino alle isole e poi il corrispettivo richiesto da queste per la raccolta. Se invece decidono, fin dove è possibile, di farsi ritirare le vecchie apparecchiature dai fornitori di quelle nuove, non si devono fare scrupoli nei confronti di questi ultimi: infatti, i produttori sono già attrezzati per prendersi cura dei prodotti a giunti a fine ciclo di vita giacché aderiscono a uno dei sistemi collettivi. È plausibile comunque che, poiché per loro qualche costo il riciclo lo comporta, molti produttori non siano entusiasti di fare pubblicità a questo obbligo che la legge gli impone.
Un primo passo per l’azienda che vuole essere “green” anche nel campo della dismissione degli asset Ict può essere quindi quello di richiedere ai propri fornitori di rispettare l’obbligo di ritiro dell’usato previsto dal decreto 151. Un passo successivo è quello di esaminare in quali altri modi smaltire i prodotti obsoleti di cui non si possono liberare in questo modo. Per esempio, possono selezionare “broker” o altri soggetti abilitati al ritiro del Raee che diano effettive garanzie di correttezza del loro operato e di chi viene dopo nella filiera fino al recupero dell’ultimo materiale riutilizzabile e allo smaltimento di quello non riciclabile. Già, perché a differenza del rigattiere che estrae qualche scheda piazzabile sul mercato del surplus e butta il rimanente materiale inquinante tra i rifiuti solidi (se non peggio), l’impianto di trattamento definito “idoneo” riesce a separare fino all’ultima materia prima utilizzata (vetro, alluminio, ferro, rame, oro, etc.) e a reimmetterla nel circuito produttivo.
Da analizzare molto bene, invece, sono iniziative come l’invio di tecnologie non più utilizzate a Paesi in via di sviluppo o la loro donazione a scuole e associazioni di volontariato. Spesso si finisce con il fare più male che bene. Qualche anno fa è stato denunciato l’invio di materiali It non più utilizzabili o non più riparabili ad alcuni Paesi africani. Questi arrivavano nei villaggi e nelle case ma non potevano essere utilizzati. E c’è da domandarsi se non ci fosse del “business” per qualcuno in queste operazioni “umanitarie”.
Infine, le aziende possono prestare più attenzione a come sono fatti i nuovi prodotti che acquistano. Alla certificazione Energy Star (4.0 e, ora, 5.0) da un po’ di tempo si è affiancata quella Epeat (Electronic Product Environmental Assessment Tool). I prodotti che recano questo marchio hanno superato test che valutano il livello di riciclabilità dei materiali, di contenimento dei consumi energetici e il rispetto di determinate regole di progettazione e produzione. L’acquisto di prodotti più riciclabili “by design” ci permette di aumentare la prevenzione, e diminuire la necessità di cura dell’impatto negativo che lo smaltimento delle tecnologie Ict può avere sull’ambiente.
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