Nelle aziende i processi collaborativi, strutturati o meno (questi ultimi oggi più che mai abilitati da tecnologie di social networking), dal livello di singolo ufficio a quello di impresa estesa, rappresentano uno dei fondamenti per il successo del business. Riuscire a coglierli, migliorarli e gestirli anche con un alto livello di automazione (per quelli più ripetitivi), sono gli obiettivi del Business process management. Un approccio ma anche “un linguaggio di sviluppo”, come non esitano a definirlo i produttori di piattaforme per il Bpm. Tra le più note e adottate in tutto il mondo si segnala Metastorm. In Italia la società DocFlow, specializzata in soluzioni di document e process management, è impegnata da anni a portare sul mercato il verbo del Bpm e ha scelto Metastorm come piattaforma di riferimento. Recentemente ZeroUno, in collaborazione con la società di analisi NetConsulting e con Docflow, ha organizzato un Executive Dinner intitolato “Collaboration: migliorare i processi per migliorare l’azienda”, durante il quale sono stati invitati a discutere diversi Cio e responsabili di business di banche e imprese di diversi settori industriali. Dalla discussione è emerso sia che oggi gli utenti sono pronti a cogliere le opportunità offerte da soluzioni di Bpm, sia che i responsabili dei sistemi informativi devono affrontare alcune criticità per fare accettare progetti di Bpm e implementarli in modo che non siano l’ennesima tecnologia calata dall’alto, rischiando che invece di facilitare la collaborazione, rendano ancora più rigidi i processi.
Dal modello gerachico a quello reticolare
Secondo Stefano Uberti Foppa, direttore di ZeroUno, “una delle difficoltà principali a introdurre nuovi processi collaborativi nelle aziende è il fatto che vanno a intaccare abitudini consolidate e quella tendenza, insita in tutti i noi, a non voler facilmente cambiare. La tecnologia viene a valle di tutto questo. Noi crediamo, comunque, che aumentare la capacità di governo dei processi collaborativi tra le persone e di intervenire nel loro disegno, rappresenti oggi una leva che l’It aziendale ha a disposizione per rafforzare quella visibilità e credibilità che rischia di essere incrinata. Con il rischio di veder ridurre l’It solo a fattore di costo”.
Oggi la maggior parte dei business mostra un terreno fertile per l’introduzione di tecnologie collaborative. “Siamo in presenza di un nuovo modello d’impresa – ha esordito nel suo intervento Annamaria Di Ruscio, direttore generale di NetConsulting -. La crisi ha avvicinato molto e reso omogenee le esigenze delle imprese e l’Italia non è più indietro di alcuni anni come in passato: tutti vogliono essere globali e più vicini ai consumatori, che sono diventati più ‘infedeli’. Emerge la necessità di gestire il business in modo diverso e dirompente rispetto ai modelli organizzativi funzionali. Ieri regnava il modello gerarchico, oggi quello reticolare. Lavoriamo sempre più spesso con team interfunzionali: ogni individuo diventa un nodo di comunicazione, sono richiesti più partecipazione e consenso”.
Secondo una ricerca condotta da NetConsulting tra luglio e settembre 2010 presso aziende in tutta Italia e in tutti i settori, continua Di Ruscio, “oggi è più sfumato il tema della razionalizzazione dei costi e cresce l’attenzione al rapporto con i clienti e verso il miglioramento dell’efficacia dei processi. I cambiamenti del mondo devono rispecchiarsi in azienda, anche con l’aiuto della tecnologia. Non è un obiettivo facile. I Cio dichiarano esserci molta necessità di business intelligence e di strumenti che permettano di effettuare simulazioni e analisi what if. Si cerca di introdurre soluzioni che replichino a livello aziendale quello che avviene sui social network. L’attenzione verso la Unified communication dimostra il bisogno di articolare in modo diverso, ma su uno strato comune, la comunicazione. Cresce anche l’interesse verso il Bpm perché le imprese desiderano processi più efficienti, flessibili e automatizzati per rispondere meglio ai fattori esterni. Si richiedono contemporaneamente più agilità e robustezza: ecco quindi la virtualizzazione e il cloud computing. L’It deve capire come ascoltare e interloquire, ovvero attuare un demand management efficace. Poi arrivano l’execution e la misurazione. È un ciclo virtuoso, senza fine, in cui entrano in gioco anche i partner. L’impresa è come un essere vivente che interagisce al suo interno e con l’ambiente circostante”.
Come l’It può stimolare la collaborazione e intervenire nel disegno e nella gestione di questo tipo di processi? Su un punto sono tutti d’accordo: l’importanza di andare incontro agli utenti, capire come lavorano e non limitarsi a calare nuovi processi e applicazioni con un approccio meramente top-down. Che non significa non affrontare le resistenze ai cambiamenti.
Stimolare la collaborazione: come?
“Le innovazioni It degli ultimi trent’anni – sostiene Carlo Petti di Docflow – hanno omologato le imprese, importando spesso modelli organizzativi che erano sì best practice, ma di altri. La globalizzazione ha aumentato il numero di competitor con cui ogni azienda deve misurarsi. Oggi, le imprese del Far East, che sono molto aggressive, adottano le nostre stesse best practice. Come fare a sopravvivere con il nostro costo del lavoro? Non è attraverso gli Erp che possiamo diventare più competitivi, bisogna pensare al cambiamento. Gli individui, le persone nel loro modo di lavorare e collaborare hanno un potere incredibile, desiderano continuare a farlo nel modo che è loro più congeniale, e per questo hanno una forte capacità di influenza sull’impresa. Si è iniziato a rendersi conto che, in realtà, negli ultimi anni con l’adozione di processi molto rigidi derivanti dagli Erp, gli individui sono stati trascurati: di qui l’inserimento di nuove funzionalità collaborative e la crescente attenzione verso il Bpm. Ma come cercano di sincronizzare, al momento, i processi collaborativi gli utenti? Nella quasi totalità dei casi con le email, spesso inviate anche verso se stessi per ricordarsi di un evento. Ebbene, abbiamo detto che oggi innovare non è omologare – prosegue Petti – e che il vero vantaggio competitivo risiede nei processi collaborativi, che consentono di rinforzare gli elementi di differenziazione delle nostre imprese, quelli che consentono di competere. Che fare allora? Una volta assicurate la coerenza architetturale delle nostre applicazioni e la loro scalabilità, dobbiamo ascoltare le esigenze degli utenti. Spesso ci rendiamo conto che non è necessario cambiare tutto nel modo di lavorare. Possiamo iniziare ad automatizzare alcune attività ripetitive e fare in modo che l’utente possa eseguirle in modalità pull – cioè è il sistema che mi ricorda quello che devo fare – piuttosto che push – sono io che mi devo ricordare cosa fare”.
Appare a questo punto chiaro il ruolo che le tecnologie collaborative pensate per il supporto dei processi – come quelle Bpm – hanno all’interno del variegato panorama delle soluzioni It adottabili all’interno di un’azienda. “Il Bpm – sintetizza efficacemente Robin Martin, Executive Vice President of International Sales di Metastorm – propone il lavoro giusto alla persona giusta nel momento giusto. In questo modo vengono rimosse latenze e ritardi. Il lavoro può essere svolto ovunque, a differenza di quanto avviene con i faldoni fisici destinati a essere utilizzati a una scrivania. Grazie al Bpm un’azienda nostra cliente è riuscita a consolidare i lavori svolti in cinquanta uffici in soli tre. Il risultato è che si possono svolgere più compiti con meno persone o eseguire più task con lo stesso numero di risorse: del resto, le soluzioni Bpm sono ideali soprattutto a fronte di processi di tipo people intensive. Tutto questo porta a risparmi ripetibili e misurabili per le aziende. Inoltre il Bpm non comporta la sostituzione di tecnologie esistenti, ma incrementa il valore di esse. Aiuta a estrarre dati dai sistemi legacy e a introdurre nuovi dati negli stessi in modo più rapido, agendo come una sorta di gestore di una supply chain costituita da applicazioni. E consente di gestire i processi in modo più organizzato, indipendente dalle localizzazioni geografiche e con un’elevata mitigazione dei rischi, perché i processi vengono eseguiti sempre nello stesso modo. Infine il Bpm aiuta a dare visibilità a tutti i processi e a renderli trasparenti e tracciabili: un beneficio molto apprezzato, per esempio, nel mondo bancario. E si possono identificare ed eliminare ridondanze o risorse sottoutilizzate, realizzando maggiori risparmi”.
Il ruolo reciproco che hanno It e utenti, diventa subito il tema principale del dibattito. Per Roberto Contessa, di Branca Distillerie, “non dobbiamo dare tutto il potere agli utenti, ma non dobbiamo nemmeno avere la presunzione di dirgli cosa devono fare. Non dobbiamo essere arroganti”. L’importanza di comprendere i processi di business e le loro necessità – cioè quel demand management sul quale torna spesso a richiamare l’attenzione Uberti Foppa – è sottolineata anche da Tarcisio Zacchetti del Salumificio Beretta: “Io vivo costantemente alla ricerca di capire cos’è il business della mia azienda. Se non lo capisco vuol dire che non capisco nemmeno il mio cliente [leggi utente interno ndr]”. Da parte sua, Mario Migliori, della Banca Popolare di Milano, avverte: “Un ostacolo al miglioramento dei processi collaborativi è affrontare questo tema da una prospettiva di sola tecnologia. Negli ultimi anni ci siamo abituati a pensare che il cambiamento degli strumenti tecnologici deve sempre essere all’ordine del giorno. Si tratta di un approccio non corretto. Dobbiamo partire da ciò che produce valore: non è detto sia l’It il vero fulcro dell’innovazione”. Parzialmente diversa è l’opinione di Luca Fioletti, della Banca Popolare di Sondrio. “Da noi l’It è trainante nella definizione, comunicazione e ottimizzazione dei processi di business. Se abbiamo difficoltà a implementare un determinato progetto It, il motivo casomai può essere la sua scarsa giustificazione in termini di costi-benefici. Finora per noi è stato difficile vendere il Bpm per processi core”.
Anche per Maurizio Fontana di Ugf Unipol Gruppo Finanziario, a volte le difficoltà possono sorgere da eccesso o rigidità delle tecnologie. “Gli uomini business oggi sono più istruiti sulla tecnologia. Da parte loro i responsabili It hanno una grande capacità di razionalizzazione, motivo per il quale spesso le aziende ricorrono a loro per risolvere problemi di processo. A volte però siamo lenti nel rivedere i processi perché non riusciamo a far parlare i mondi dell’It e del business”. Un rapporto dialogante è la base di innovazioni di successo anche per Francesca Gatti di B Ticino. “L’azienda mi ha chiesto di occuparmi di collaborazione. Due gli obiettivi che ci siamo proposti: scoprire quella già in atto e spronare il suo sviluppo laddove è ancora carente. Se ci guardiamo intorno, scopriamo che molti team utilizzano già strumenti di collaborazione in modo intensivo. Da noi, per esempio, erano i team di ricerca e sviluppo, che interagiscono con persone che si trovano in altri Paesi. In questi casi abbiamo deciso di offrire le nostre competenze per utilizzare al meglio queste soluzioni. Il riscontro è stato subito positivo e abbiamo reso questi strumenti da sotterranei a evidenti”. Anche per Stefano Cappello di Luceplan si deve prestare molta attenzione agli strumenti con cui gli utenti hanno già familiarità. “Il Bpm è utile, ma non è solo quello che permette di collaborare. Credo che oggi sia opportuno portare in azienda quegli strumenti di social networking che gli utenti utilizzano già a casa e che permettono loro di comunicare meglio. Questo non significa incentivarli a chattare senza scopo ma aiutarli a condividere i progetti”.
Gestire i processi ma prevedere le eccezioni
Riccardo Baraldi, chief financial officer di Waste Italia (gestione dei rifiuti e servizi ambientali), riporta quindi l’attenzione su quella che è la finalità della collaboration nella maggior parte delle imprese: la gestione di processi di business. “Un progetto di Bpm – afferma – ha senso se risponde a tre requisiti. Il primo è che risulti, per rifarci alla legge di Pareto [Pareto, studiando la distribuzione dei redditi, dimostrò che in una data regione solo pochi individui possedevano la maggior parte della ricchezza. Questa osservazione ispirò la cosiddetta “legge 80/20”, una legge empirica che è sintetizzabile nell’affermazione: la maggior parte degli effetti è dovuta ad un numero ristretto di cause ndr], utile almeno per l’80 per cento degli utenti. Il secondo è che supporti flussi ordinati di processi, perché è di questi che stiamo parlando. Il terzo è che aiuti effettivamente chi, come me, ha tempo di controllare i flussi di lavoro solo a sera tardi, quando ormai tutti sono andati via. Insomma mi piacerebbe che la collaboration fosse qualcosa di più dell’Outlook che ho nel telefonino”.
In questo modo, non si rischia che il Bpm diventi una nuova versione di Erp? Interviene Ruggero Carnevali di Sandvik Italia (utensili per la lavorazione dei metalli): “Se il Bpm non è un semplice strumento per tracciare i processi, ma serve a gestirli, occorre sempre prevedere delle uscite di sicurezza. Nessun processo può andare bene nel cento per cento dei casi. Occorre che sia possibile sganciarsi da un processo e rientrarci alla fine del giro”. A questa obiezione risponde Vincenzo Cocciolo di Docflow: “È vero che bisogna essere in grado di gestire dei casi particolari, ma è anche vero che l’80 per cento dei processi possono essere completamente automatizzati”.
Ci sono casi di aziende in cui appare più difficile cambiare il modo in cui si svolgono i processi collaborativi. Un esempio sono le imprese che operano in mercati poco competitivi, basate ancora su organizzazioni rigidamente funzionali e gerarchiche. “Nel nostro caso – spiega Laura Gatti di Sapio, uno dei pochi colossi che operano nel mercato dei gas a uso medicale e industriale – l’It è trainante. Guai se non ci fosse. Tuttavia, non sempre l’utente esprime quello di cui ha bisogno”. Le fa eco Stefano Ferrari della stessa società: “Ci sono settori in cui gli utenti riescono meglio che in altri a declinare le proprie esigenze. Nel mondo dei produttori di gas, così come in quello delle costruzioni, le persone sono meno portate al cambiamento”. Anche Carnevali, che in passato ha lavorato in un’azienda di questo tipo, concorda che “un conto è parlare di collaborazione in realtà con processi prevalentemente de-strutturati e un altro è farlo laddove sono invece più rigidi”.
Scarica le relazioni presentate dai relatori nel corso dell’evento
– “Business e It per la competitività”, Annamaria Di Ruscio, direttore generale e partner NetConsulting
– “Migliorare i processi per migliorare l’azienda”, Carlo Petti, Presidente DocFlow
– “BPM: tecnologie e funzioni”, Robin Martin, Executive Vice President of International Sales Metastorm