Ogni anno nascono o cercano di nascere 800-1000 nuove imprese in settori tecnologici. “In realtà non è facile sapere esattamente quante siano le startup in Italia: il 40% non sono ancora costituite come società ma sono progetti di impresa, quelle che noi chiamiamo wannabe startup”, commenta Alberto Onetti, chairman Mind The Bridge, iniziativa non-profit nata per creare un ponte fra i giovani imprenditori italiani e la Silicon Valley, e direttore del CrESIT (Research Centre for Innovation and Life Sciences Management). La stima deriva dalle informazioni fornite dal sistema degli investitori e fotografa quelle che hanno cercato investimenti, portatrici dunque di piani di sviluppo ambiziosi e che non possono vivere di auto finanziamento. E poiché gli imprenditori non sono “lupi solitari”, dietro ogni impresa ci sono in media 3 soci e 3-4 collaboratori. Un piccolo esercito di potenziali nuovi occupati destinato ad aumentare con lo sviluppo di aziende in settori generalmente caratterizzati da alti tassi di crescita. Queste indicazioni derivano dalla survey 2011 realizzata dalla Fondazione Mind the Bridge con il supporto scientifico del CrESIT, basata su un campione di circa 100 startup. Fra queste è spiccata la prevalenza del mondo web (60%) e dell’Ict (25%); seguono Cleantech e Biotech con circa il 10% e 5% rispettivamente. In termini anagrafici, l’imprenditore hi-tech tipo è maschio (ancora limitata la presenza femminile, sia pure lievemente in crescita rispetto allo scorso anno), trentaduenne, residente al Centro (39%) o al Nord Italia (35%).
L’aspetto preoccupante è però che 9 aziende su 100 sono incorporate all’estero (fanno cioé parte di progetti imprenditoriali che non hanno sede in Italia), generalmente in Nord America. “È comprensibile che vadano dove è più facile trovare capitali e che, se prevedono un exit internazionale tramite acquisizione, preferiscano la forma aziendale anglosassone anziché una srl – dice Onetti –. Senza contare che i costi per creare startup e per chiuderla in Italia sono certamente più alti”.
Figura 1 – Capitali raccolti dalle startup italiane
(cliccare sull'immagine per visualizzarla correttamente)
(Fonte: Survey 2011 "Startup in Italy. Fact&Trends")
Comprensibile dunque ma preoccupante visto che il rischio di un massiccio “corporate drain” si va a sommare all’ormai nota fuga dei cervelli. Per evitarlo è utile analizzare meglio le caratteristiche degli imprenditori innovativi per capire come trattenerli o meglio attrarli. Secondo l’analisi, hanno un livello di formazione elevato: a una laurea segue un master o un dottorato di ricerca e un’esperienza di 6-7 anni di attività lavorativa, all’estero in un terzo dei casi. “La creazione di impresa può rappresentare dunque un flusso di ritorno”, nota Onetti. Per favorirlo andrebbero messe in atto tutte le possibili strategie prendendo spunto anche da quanto è stato fatto in paesi come Cina e India che sull’esperienza dei connazionali all’estero hanno basato gran parte della loro fortuna nello sviluppo di un’industria hi-tech”.
A parte l’incorporazione all’estero per le ragioni sopra indicate, l’azienda viene creata generalmente dove si è completato il ciclo di studi. Un’indicazione importante per i territori. Secondo i dati, infatti, i talenti sono attratti da università con alta reputazione (le università di provenienza sono principalmente il Politecnico di Milano, La Sapienza di Roma, l’Università di Firenze) e con un’offerta di programmi di formazione di eccellenza da cui, quasi naturalmente, deriva la nascita di startup, anche se poi la percentuale delle startup accademiche, in particolare fra le top15 startup (ossia quelle selezionate per la competition finale di MtB, considerate le più avanzate), è molto basso. “Nascono nell’università ma poi fanno fatica a trovare all’interno la loro strada”, dice Onetti.
Alla startup di successo si arriva dopo la seconda o terza esperienza. Va anche sottolineato che i due terzi delle aziende precedentemente create sono ancora attive e che, nel 60% dei casi, gli imprenditori continuino ad esservi coinvolti. “L’indicazione che se ne trae è che il mestiere dell’imprenditore si impara e si perfeziona soprattutto facendolo”, commenta Onetti.
Se si considerano le top15 startup tutte le principali caratteristiche di fondo si accentuano: la percentuale di imprenditori seriali (quelli che concentrano le loro attività sull’avvio di start up) sale al 35% e la quota di startup incorporate all’estero risulta del 40%.