Red Hat: il 2011 è stato l’anno del decollo

ZeroUno incontra Werner Knoblich, Vp e General Manager Emea di Red Hat, che ci affida due messaggi chiave.
Primo, l’ecosistema attorno alle tecnologie Open Source di cui Red Hat è alfiere è decollato proprio nel difficile 2011.
Secondo, Red Hat si è attrezzata per mantenere intatta la “filosofia che è nel suo Dna”: la libertà di scelta anche in nuovi contesti che incombono: Cloud e Big data su tutti.

Pubblicato il 13 Mar 2012

20120313Knoblich Redhat
Altro che anno 2011 difficile per Red Hat. Continua la crescita di RedHat Enterprise Linux (Rhel): un altro 28% anno su anno e il forecast alla data di fatturato anno fiscale 2011 è in rialzo a 1,12 miliardi di dollari. Ma il 2011 è soprattutto l’anno dell’emersione di un intero ecosistema di Isv e di integratori di sistema che propongono le rispettive applicazioni e soluzioni attorno a tecnologie open source, naturalmente centrate sulla pila Rhel – Jboss (che ricordiamo è l’application server open source basato su Java EE acquisito da RedHat). Si è insomma innescato e si autoalimenta un meccanismo virtuoso con Rhel-Jboss quale piattaforma per applicazioni enterprise e soluzioni industry.

Un esempio? Accenture Mobility Operated Services (Amos), piattaforma per una business unit di Accenture dedicata alla definizione e allo sviluppo di prodotti e servizi di mobilità che propone alle Telco di offrire servizi hosted ad aziende clienti e consumatori finali.

“Superano quota 4000 le applicazioni certificate Rhel prodotte dagli Isv; ogni nuovo server fisico prodotto da Hp, Ibm, Dell, è certificato Rhel prima ancora che per Microsoft o altri; è al 22% (fonte Idc) la quota di mercato server che Linux copre”, ci dice Werner Knoblich, Vp e general manager Emea di Red Hat che abbiamo incontrato. “Di questa quota, la parte del leone la fa proprio Rhel, alimentata da due grandi serbatoi: la base installata Unix che Idc vede contrarsi dagli attuali 2,5 milioni di server di un -40% annuo in tre anni, anche se una parte migrerà a Windows; e quella dei clienti ex Sun che, scontenti delle prospettive offerte da Oracle, decidono di abbandonare il sistema operativo Solaris per migrare a RedHat” dice Knoblich.

“L’offerta di tecnologie open source centrata su RedHat ha poi nel suo Dna un modello di business “value driven” (e a basso costo) anziché “lock-in driven”. Un’offerta che dipende – precisa Knoblich – da software mantenuto da comunità di sviluppatori, per le quali standard rigorosamente aperti sono prerequisito funzionale che non porta certo al lock-in. E la commercializzazione della manutenzione (non della licenza) impone il value driven: se il servizio non è perfetto, ogni trimestre il cliente insoddisfatto può cambiare”.

I settori che particolarmente apprezzano, in Europa e in Italia? Grandi istituti finanziari e le Telco. Anche Pa: citabile in Italia, il Ministero della Giustizia.

Ma – chiediamo – come persiste questo principio in scenari che avanzano, come cloud e big data?

“Per il cloud, RedHat mette in campo OpenShift, la prima offerta Paas con supporto Java EE che lascia agli sviluppatori la scelta del fornitore cloud in cui eseguire la propria applicazione, risolvendo contesto e dependency”, osserva Knoblich. “Ma soprattutto RedHat aderisce al progetto DeltaCloud dell’Apache Foundation il cui slogan è “Many clouds, One Api, No Problem”; in sostanza il progetto fornisce un’unica Api e dei “plug-in” a chi sviluppa applicazioni cloud (con Openshift nel caso di RedHat) e assicura la portabilità dell’applicazione da un cloud qualsiasi ad un altro, evitandole il lock-in”.

E per il big data è di ottobre 2011 l’acquisizione di Gluster per la gestione centralizzata di storage scalabile, cruciale per lavorare su masse distribuite di dati non strutturati.

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