Editoriali

Il valore del dato e l’irrilevanza dell’uomo

Pubblicato il 02 Set 2019

Data Economy

Oggi siamo molto concentrati sulla “paura” dell’utilizzo che le Big Tech possono fare dei nostri dati e ci battiamo, più o meno convintamente, per la nostra privacy e contro lo sfruttamento dei nostri dati.

Secondo lo storico israeliano Yuval Noah Harari dovremmo invece iniziare a preoccuparci fin d’ora del rischio dell’irrilevanza: quando ci saranno sistemi e macchine in grado di fare cose meglio di noi umani (cosa che in alcuni settori è già avvenuta), quale sarà il nostro valore?

È una provocazione forte, ma la biologia, secondo la quale noi esseri umani siamo un insieme di algoritmi esattamente come i sistemi basati su silicio, potrebbe indurci a pensare che abbiamo un valore solo perché produciamo dati; e allora vien da chiedersi, quando i dati prodotti dalle “cose” saranno più rilevanti dei nostri, che valore avremo noi nella società e nell’economia?

L’intelligenza artificiale è davvero una minaccia?

La minaccia di una guerra nucleare ed i disastri derivanti dai cambiamenti climatici oggi sono minacce reali tanto quanto un cieco progresso tecnologico che non tiene conto dei suoi impatti. Lo sanno bene i Governi di molte Nazioni che hanno costituito gruppi di lavoro di esperti per definire strategie nazionali per guidare, per esempio, lo sviluppo e l’adozione dell’intelligenza artificiale, una delle tecnologie più dirompenti dell’ultimo secolo insieme alle biotecnologie.

L’Italia è arrivata parecchio in ritardo non solo rispetto ad USA e Cina ma anche rispetto agli altri paesi dell’Unione Europea, tuttavia sta facendo un enorme sforzo per “mettersi al pari” degli altri Stati. Pochi giorni fa è stata ufficialmente aperta la fase di consultazione della strategia nazionale per l’intelligenza artificiale sviluppata dal gruppo di esperti chiamato a lavorare qualche mese dal Mise, Ministero dello Sviluppo Economico.

Il documento riporta, tra gli altri, alcuni temi ed obiettivi che tengono conto di due elementi chiave nel percorso di cambiamento e progresso tecnologico: i dati; gli esseri umani (anche se non nell’accezione cui stanno oggi guardando storici e filosofi).

Partiamo dai dati

La strategia nazionale italiana per l’intelligenza artificiale, così come le linee guida europee in materia, parte dal presupposto che i dati siano beni immateriali, asset che possono generare ricchezza ed essere commercializzati.

L’obiettivo di tutti, Governo italiano compreso, è quindi sfruttare il potenziale dell’economia dei dati. Un’economia che già oggi è in mano a pochi e che, nella sua evoluzione verso un’economia algoritmica, rischia di concentrarsi nelle mani di una “super élite” (di aziende e persone che possiedono gli algoritmi).

La consapevolezza di un possibile rischio ha spinto molti Governi ad adottare policy per la tutela delle persone, per evitare che possano essere esposte inconsapevolmente a rischi di sicurezza e privacy o che “svendano” i propri dati. Accortezze che anche la strategia nazionale italiana per l’IA ribadisce, ammettendo al contempo la necessità di trovare un compromesso tra privacy ed utilizzo dei dati [questo ciò che viene riportato nel documento del Mise: …Si rende quindi necessaria una policy comune che tuteli i cittadini e le PMI, per evitare che si espongano sotto il profilo della sicurezza e della privacy e che “svendano” i propri dati, ma che al tempo stesso non ne ostacoli il libero flusso nell’Unione europea e lo sfruttamento per l’IA, soprattutto per fini di ricerca – nda]. Questo perché l’intelligenza artificiale, in generale, per poter generare concretamente risultati rilevanti ha bisogno di grandissime mole di dati: per poter diagnosticare meglio di un oncologo un tumore della pelle, l’intelligenza artificiale deve imparare a riconoscere i tumori della pelle attraverso un ampissimo set di dati, che solo i pazienti possono offrire.

Oggi, l’anonimizzazione dei dati e la crittografia consentono di poter usare i dati clinici dei pazienti senza rischi per la loro privacy, ma è evidente che serve un passaggio culturale che convinca le persone a cedere quel tipo di dato per finalità di ricerca e prevenzione che vanno ben oltre il personale tornaconto. Oggi siamo più propensi a cedere i nostri dati alle Big Tech (più o meno consapevolmente) per avere un servizio personalizzato anziché offrire i nostri dati clinici alla ricerca medico-scientifica.

Tuttavia, secondo Harari ed altri studiosi come lui, quando il beneficio personale promesso dalle nuove tecnologie sarà l’immortalità, cadrà anche l’ultima remora in fatto di privacy e cederemo senza troppi rimorsi tutti i nostri dati [va precisato che il quadro evolutivo prospettato da Harari non riguarda solo il progresso dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie informatiche, anzi queste avranno persino un ruolo secondario rispetto agli impatti della bioingegneria e delle biotecnologie – nda].

Persone e competenze

Volendo guardare l’intelligenza artificiale da una prospettiva ancora più ampia, quella del progresso tecnologico che porta le macchine a svolgere, meglio dell’uomo, alcuni compiti cognitivi, è fondamentale chiedersi cosa accadrà, soprattutto da un punto di vista di mercato del lavoro e impatto sociale, quando questi “alcuni compiti cognitivi” diventeranno “la maggior parte dei compiti cognitivi”.

La cosa che ancora fatichiamo ad ammettere (almeno guardando alle concrete iniziative messe in atto per risolvere il problema) è il fatto che non abbiamo idea di come sarà il mondo tra trenta o cinquant’anni, figuriamoci tra un secolo. Non sappiamo quali materie insegnare alle nuove generazioni perché non sappiamo quali competenze serviranno.

L’unica via allora è la flessibilità.

Secondo le indagini più recenti di McKinsey, il cosiddetto “job shift”, ossia l’automazione di task e mestieri e la ricollocazione verso nuove attività, rappresenterà un cambiamento meno marcato e più gestibile del cosiddetto “skill shift”, il cambiamento delle competenze richieste per il quale si rende necessario un cambio prospettico e programmatico delle politiche e del mercato del lavoro.

Bisogna iniziare a considerare le persone in contesti lavorativi dove l’interazione con macchine intelligenti e autonome sarà costante… e sempre più naturale dato che, in fondo, la cosa che come esseri umani abbiamo sempre saputo fare nella storia è re-inventarci.

Quello che alcuni “pensatori illuminati” come Harari stanno cercando di trasferirci è che, pur non sapendo come definiremo il nostro futuro, possiamo provare a capirne in anticipo rischi ed opportunità. Uno sforzo che dovremo fare attraverso la cooperazione multidisciplinare: creare un sistema super intelligente senza capire che tipo di impatti sul lavoro, sociali ed economici porterà potrebbe creare conseguenze gravi alla democrazia, al pianeta, alle persone… ingegneri e scienziati tecnologici non possono essere “lasciati soli”, sempre più dovranno lavorare con filosofi, sociologici, storici, economisti… La cultura scientifica dovrà avvicinarsi a quella umanistica, e viceversa.

E se volessimo guardare questo macro scenario da una prospettiva più ristretta e più vicina a noi? Non ci vedete (seppur con un po’ di forzatura, mi rendo conto) l’evoluzione del ruolo del CIO, oggi così lontano dall’uomo in camice bianco chiuso nella vecchia sala CED, al quale si chiede di essere imprenditore, con competenze economiche e di business ma al contempo con un forte presidio tecnologico, innovativo e non convenzionale?

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Nicoletta Boldrini
Nicoletta Boldrini

Segue da molti anni le novità e gli impatti dell'Information Technology e, più recentemente, delle tecnologie esponenziali sulle aziende e sul loro modo di "fare business", nonché sulle persone e la società. Il suo motto: sempre in marcia a caccia di innovazione #Hunting4Innovation

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