Il retail non è stato l’unico settore ad avere subito lo tsunami della pandemia, ma le conseguenze sui suoi modelli di business e sugli assetti che tradizionalmente lo caratterizzano sono più vistosi rispetto ad altri comparti economici. Gli ultimi dati dell’Osservatorio Innovazione Digitale nel Retail, promosso dalla School of Management del Politecnico di Milano, hanno messo in rilievo alcuni fenomeni macroscopici e di dettaglio da cui si può ricavare quanto tali conseguenze siano state rilevanti nel 2020. A cominciare dalla crescita dell’e-commerce nell’azienda delle vendite online per antonomasia, Amazon, che nell’anno di crisi che ci siamo lasciati alle spalle ha aumentato di 500 mila il numero di dipendenti, portandolo a 1,3 milioni, e ha visto crescere di circa due terzi la sua capitalizzazione, che oggi è vicina a 1,7 trilioni di dollari. Di contro, un’impresa tradizionale come Walmart, il più grande retailer del mondo con 2,2 milioni di addetti, ha quasi raddoppiato le sue vendite online, mentre Inditex-Zara è stata costretta a ridurre di circa 1.200 il numero dei suoi 7.500 negozi monomarca a livello globale. Nel frattempo, però, ha avviato un piano di investimenti che dovrebbe incrementare del 25% la quota di vendite online entro il 2022.
Il retail italiano all’epoca dell’emergenza
Per quanto riguarda l’Italia, l’analisi dall’Osservatorio condotta su un campione formato da 50 top retailer e 312 PMI del commercio mostra dei trend che, secondo Elisabetta Puglielli, uno dei ricercatori che ha curato l’indagine, sono “in continuità con gli anni precedenti. Con la differenza che alcuni di questi fenomeni hanno subito una forte accelerazione dovuta all’emergenza sanitaria”.
Un esempio fra tutti è quello dei pagamenti digitali in negozio. “Sicuramente – spiega Elisabetta Puglielli – si tratta di un cantiere di lavoro su cui il retail sia in Italia sia all’estero stava lavorando da anni per semplificare sempre di più l’esperienza d’acquisto nel punto vendita fisico, seppure con obiettivi diversi. Nell’alimentare, ad esempio, l’uso di pagamenti innovativi aveva lo scopo di snellire la coda in cassa, nell’abbigliamento quello di pagare in mobilità in qualsiasi punto dello store. L’emergenza Covid non ha fatto altro che accelerare il processo di attivazione di questo tipo di pagamenti da parte dei retailer, proprio perché il negozio ha subito un calo importante di frequentazione e di pedonalità. Nel momento in cui, soprattutto dopo il primo lockdown, c’è stato bisogno di riportare le persone in negozio, bisognava garantire esperienze più sicure, distanziamento sociale, contingentamento degli ingressi e così via. Le soluzioni di pagamento innovativo hanno permesso di ridurre il tempo in negozio, e quindi le file alla cassa, nonché di garantire il distanziamento anche nei confronti del personale di front-end”. Misure come il cashback, poi, hanno contribuito ulteriormente a incentivarne l’adozione.
Autonomia in store e canale e-commerce
Se quello dei pagamenti digitali è un versante su cui da tempo il mondo del retail e non solo aveva iniziato a sviluppare delle apposite soluzioni, ci sono invece esempi opposti di innovazione nati ad hoc, per far fronte all’emergenza. È il caso dei sistemi di prenotazione della visita da remoto o di quelli di gestione virtuale delle code.
Prima del 2020 non sembravano particolarmente necessari per gestire gli ingressi in negozio. Così come il livello di autonomia che si era cominciato a introdurre nei punti vendita non era così elevato come quello dei negozi alimentari della catena Amazon Go (quasi una trentina esclusivamente negli Usa) nei quali gli acquisti sono automatizzati e non esistono le casse, ma l’addebito avviene direttamente sull’account del cliente. La pandemia ha fatto in modo di ampliare i comparti del retail oggetto di queste sperimentazioni. “I meccanismi di automazione erano sviluppati soprattutto nell’alimentare – continua Elisabetta Puglielli -, ma l’anno scorso altri settori merceologici, come ad esempio l’abbigliamento o l’elettronica di consumo, hanno iniziato a testare modelli di negozio self-service che combinassero autonomia, velocità ed esigenze di sicurezza”.
Una tendenza che ha accomunato tutti i retailer, spinti dalla medesima situazione pandemica, ma che ha visto differenze tra l’Italia e altre economie comparabili a causa del ritardo nell’implementazione di un canale e-commerce che sopperisse al calo delle vendite in prossimità. “La fase di lockdwon, con la chiusura di negozi, all’estero ha permesso di avere come cuscinetto un e-commerce che era già maturo per poter offrire una risposta a una domanda online così significativa. In Italia, invece, gli operatori non erano così pronti, soprattutto nel comparto dell’alimentare che ha registrato il boom di domanda maggiore tra tutti i settori. I retailer della GDO, ad esempio, hanno dovuto mettere in atto una serie di misure volte a potenziare l’e-commerce, mentre tanti store italiani non erano neanche presenti sul web e hanno dovuto velocizzare la messa online della loro offerta”.
Perché il negozio non è destinato a morire
La crescita dell’e-commerce e del mobile commerce adesso apre una nuova sfida per i retailer, quella di gestire in maniera sempre più congiunta e integrata offline e online.
Non esiste un percorso identico per tutti, tiene a precisare Elisabetta Puglielli, poiché ogni strategia varia in funzione delle esigenze del retailer e degli asset che presidia, tuttavia si comincia a registrare in Italia e all’estero un forte ridimensionamento dell’infrastruttura fisica. “Questo ridimensionamento è controbilanciato da un investimento sempre più spinto non solo sui canali digitali e sul potenziamento dell’online, ma anche su una maggiore integrazione fisico-digitale”. Ad esempio, la chiusura annunciata dei punti vendita di Inditex-Zara è stata accompagnata dalla progettazione di spazi di vendita diversi sia in termini di dimensione, sia di integrazione con l’online, visto che il cliente può visionare i capi delle collezioni e acquistarli online direttamente dal negozio.
Oppure, un altro caso emblematico è quello di Starbucks che ha chiuso 400 store in Usa e Canada per concentrarsi su punti dedicati al solo ritiro dei prodotti ordinati via web. Una cosa è certa: “Il negozio non è destinato a morire, ma a cambiare pelle” rimarca Elisabetta Puglielli. Un cambiamento che anche i retailer italiani hanno deciso di intraprendere a giudicare dalle risposte dei top retailer intervistati dall’Osservatorio. L’88% punta a rafforzare l’infrastruttura logistica, il 48% ad assumere personale dedicato all’e-commerce, il 36% ad avere un’analisi e un’integrazione dei dati cross canale, il 70% l’integrazione delle operations in chiave omnicanale. “Quando parliamo di omnicanalità, non ci riferiamo soltanto a iniziative volte a integrare il negozio con l’online dal punto di vista fisico, ma soprattutto all’integrazione in termini di dati. Il negozio diventa sempre di più un bacino da cui raccogliere una serie di dati che poi, aggregati con quelli che provengono da altri touchpoint, possono permettere di creare una vista unica sul cliente per garantirgli un’esperienza il più possibile personalizzata”.
L’innovazione elementare delle PMI del commercio
La propensione a innovare non sta interessando unicamente le grandi catene italiane, ma anche il vastissimo universo delle PMI, da sempre caratterizzato da bassa o nulla digitalizzazione a causa della sua estrema frammentazione, della difficoltà a reperire capitali per l’investimento e competenze idonee a portare avanti una strategia di innovazione digitale. “Nel 2020 c’è stata un’accelerazione importante anche da parte di questi attori – dice infatti Elisabetta Puglielli -. Trovandosi con i negozi chiusi, sono stati costretti a innovare il loro modo di far business, iniziando a sperimentare modalità di vendita nuove, sebbene più elementari rispetto a quelle dei top retailer. In questo caso non possiamo parlare di tecnologie di frontiera e neppure di tecnologie particolarmente innovative, ma di strumenti diversi con cui mantenere la relazione con i clienti e acquisirne di nuovi”.
Rientrano fra questi, ad esempio, la possibilità di gestire l’ordine tramite app di messaggistica come Whatsapp, Facebook, Instagram ecc. O ancora la diffusione maggiore della prassi del click & collect con cui consentire all’utente di ordinare online per poi ritirare la merce in negozio. Lockdown e restrizioni sono stati anche l’occasione per allargare la partnership con altri soggetti della filiera, anzitutto con marketplace e siti di flash sales che permettessero di ridurre l’inventario in eccesso venutosi a creare con la chiusura dei negozi. “L’emergenza sanitaria ha innescato la volontà di essere maggiormente consapevoli sull’innovazione digitale, interfacciandosi ad esempio con quei service provider che offrono soluzioni digitali per i retailer. Moltissime richieste sono arrivate proprio dalle PMI del commercio. Magari non tutte poi sono andate a buon fine, ma le PMI si sono mosse per conoscere il mercato dell’offerta, cioè le soluzioni che possono portare benefici al business e trasformare le modalità di fare retail”. In definitiva, anche per i piccoli retailer il 2020 ha provocato una rivoluzione dalla quale non si può più tornare indietro.