Da una recente ricerca NetConsulting risulta che le nuove iniziative aziendali legate ai sistemi informativi mirino più che in passato al supporto dell’innovazione piuttosto che alla sola ricerca di efficienza e al contenimento dei costi. Tra le strategie previste per trasformare l’It in questa direzione spiccano quelle di outsourcing, sebbene con “punti di attenzione” (obiettivi, criteri di selezione dei partner, metodologie di governance ecc.) in parte diversi da quelli che sono stati adottati nell’abbracciare questa opzione negli anni scorsi. Su quali nuovi criteri dovrebbero basarsi oggi i contratti di esternalizzazione? In che modo definire cosa tenere in casa e cosa affidare all’esterno? Come dovrebbe evolvere la figura del fornitore di outsourcing per portare nuovo e reale valore alle aziende? Di questi temi si è discusso nel corso di due recenti Executive Dinner organizzati da ZeroUno in collaborazione con Cedacri, principale player nei servizi di outsourcing per gli istituti di credito che si posiziona anche come fornitore di servizi It nel settore dell’industria, dei servizi e delle utilities (272 milioni di euro di fatturato nel 2012). Il primo incontro si è tenuto presso il data center di Cedacri a Castellazzo Bormida (Alessandria), il sito secondario dell’outsourcer (quello primario è a Collecchio, Parma). Il secondo incontro si è svolto a Milano.
Flessibilità e rapporto di partnership dinamica
Qual è il nuovo scenario economico, competitivo e tecnologico con il quale aziende e direzioni It si devono misurare? “Le difficoltà di mercato – esordisce Stefano Uberti Foppa, direttore di ZeroUno – si sono trasformate da aspetti ciclici a strutturali. Molte imprese si trovano anche ad affrontare contesti di business a due diverse velocità: lenta nei mercati consolidati, nei quali occorre con precisione chirurgica saper cogliere le opportunità presenti, e veloce nei mercati emergenti, nei quali si aprono prospettive di crescita a grandi volumi. La domanda, inoltre, è sempre più caratterizzata da costante variabilità. In questo scenario, e a fronte di budget che tendono a non crescere, l’It è chiamata a trasformarsi in fornitore di servizi, abilitatore d’innovazione e di time to market veloci, potendo anche sfruttare le opportunità offerte dalla consumerizzazione dell’It e dai nuovi sistemi di business analysis”.
È con questo contesto che si misurano le strategie di outsourcing finora adottate, come ha dimostrato il campione di aziende presenti ai due eventi, per la maggior parte realtà nazionali di medie e grandi dimensioni. Strategie che, negli ultimi tempi, hanno mostrato più di una debolezza e hanno portato, in molti casi, a cambiamenti non indolori di outsourcer e a modifiche di rotta, come il ritorno alla gestione interna di processi, tecnologie e competenze (backsource) o l’adozione dell’outsourcing selettivo, spesso con interlocutori diversi. “L’impressione – osserva Giancarlo Capitani, amministratore delegato di NetConsulting – è che molte relazioni cliente-fornitore si siano rivelate insoddisfacenti. Questo ha portato l’attenzione sull’aspetto della qualità dei contratti”.
A cosa sono dovuti i principali malcontenti nei rapporti tra aziende e outsourcer? E quali fattori dovrebbero essere maggiormente curati? Il primo tema che esce da queste analisi è la flessibilità. “La nostra azienda – spiega Patrizia Tedesco, Cio di Lavazza – ha esternalizzato da diversi anni parte delle infrastrutture e il data center. Finora abbiamo teso a siglare contratti di outsourcing piuttosto lunghi. Adesso stiamo cercando di capire come trarre maggiori vantaggi in termini di innovazione da questi contratti. Un modo potrebbe essere aumentare i livelli di flessibilità”.
Quest’aspetto diviene più importante in un’epoca in cui le aziende si ritrovano a cambiare sempre più spesso i propri obiettivi di business. Luciano Manini, It Infrastructure & Delivery Manager di Miroglio Group, punta per esempio l’attenzione sul problema che molti responsabili It hanno a “dover gestire in contemporanea i problemi day by day dei contratti con gli outsourcer e il rapporto con una proprietà che cambia velocemente gli obiettivi. Per questa ragione i contratti di outsourcing devono puntare il più possibile su un reale concetto di partnership e non rispecchiare maggiormente gli obiettivi dell’outsourcer”.
Partnership è la parola che ritorna come un mantra quando si parla di come dovrebbero essere i rapporti fra un’azienda e un outsourcer.
Ma cosa significa? Essere partner vuol dire assumersi reciprocamente onori e oneri. La flessibilità, per esempio, non può tradursi semplicemente in una riduzione della durata del contratto. “Per alcuni tipi di soluzioni – afferma realisticamente Dario Bonavitacola, responsabile infrastrutture tecnologiche, servizi e sicurezza di Cedacri – è difficile riuscire comprimere sotto una certa soglia la durata contrattuale, perché è necessario riuscire ad ammortizzare nel tempo gli investimenti fatti dall’outsourcer, per garantire sufficienti livelli di servizio ”.
Del resto, lo stesso tipo di considerazione potrebbe essere fatta anche da un’azienda cliente: “Un servizio di posta su internet – spiega Pierfrancesco Cei, Ict Treasury Applications Business Analysis di Fiat Item – si può spostare da un fornitore all’altro nel giro di poche settimane. Ci sono invece servizi affidati in outsourcing che richiedono magari un anno tra analisi e sviluppo. In questi casi anche noi clienti siamo interessati a prevedere tempi più lunghi. Perché non sarebbe ragionevole, dopo poco tempo, spendere ancora un anno per definire e implementare tali servizi”. Il punto, quindi, non è tanto la durata in sé dei contratti, quanto la possibilità che i contenuti possano variare in funzione delle mutate esigenze delle aziende o delle innovazioni tecnologiche che diventano disponibili. “È vero – sottolinea Capitani – che la lunghezza dei contratti può confliggere con la velocità di cambiamento dei business. Ma dato che non è possibile ridurla al di sotto di un certo limite, si può invece far sì che cliente e fornitore definiscano dei patti per delle roadmap di innovazione e di valore creato, non solo in termini di business ma anche di competenze. In questo modo si perde la sensazione di rigidità del contratto, che tende invece a portare vantaggi dinamici che durano nel tempo”.
Competenze e governance
Quello delle competenze è un altro degli aspetti chiave nella definizione e nella gestione di una strategia ottimale di ousourcing. Le competenze, sia presso l’azienda cliente sia presso l’outsourcer, giocano un ruolo cruciale anche nella gestione delle relazioni cliente-fornitore.
Le scelte delle aziende riguardo alla cessione di personale agli outsourcer sono svariate tanto quanto lo sono quelle relative alle esternalizzazione di risorse tecnologiche, applicazioni e così via. “Non esiste – puntualizza Annamaria Di Ruscio, direttore generale di NetConsulting – una sola ricetta valida di outsourcing. Ogni azienda deve capire qual è il suo modello ottimale”. In alcuni casi, l’aver conferito agli outsourcer tutte le risorse competenti su certi aspetti si è rivelato un problema per le aziende nel momento in cui queste hanno deciso di riportare all’interno determinati processi.
“Prima della fusione di Aem con Asm Brescia e la nascita di A2A – racconta ad esempio Sandro Galluccio, responsabile infrastrutture Milano di A2A – avevamo attribuito all’outsourcer tutti gli skill, con un conseguente oggettivo impoverimento delle conoscenze interne. Dopo la fusione abbiamo dovuto ricostruire tutte le competenze che avevamo perduto”.
E a quanto pare di capire deve essere stato un processo faticoso. “Noi invece – interviene Aurelio Mora, Cio Express Mediterranean Area di Dhl Express – abbiamo preferito seguire una via di mezzo. Abbiamo deciso di tenere all’interno delle competenze di base su applicativi, networking, project management e così via, parcellizzando l’outsourcing tra diversi fornitori. Questa strategia, negli ultimi tre anni, ha pagato rispetto a realizzare grandi progetti con singoli outsourcer e conferire a loro tutto. Recentemente, a fronte di un problema tecnico che la filiale locale di un nostro provider internazionale non era in grado di risolvere velocemente, abbiamo sperimentato il vantaggio di avere ancora delle nostre risorse esperte su quel tema, che sono riuscite ad aiutare il provider ad arrivare a una soluzione”.
Di opinione diversa è invece Fabio Gatti, It Infrastructure and Operations di Finmeccanica: “L’outsourcing come lo intendiamo in Italia – sostiene – è diverso da quello che ho visto attuare, per esempio, in Inghilterra. Là, quando esternalizzano qualcosa, conferiscono tutto. Da noi, invece, si decide l’outsourcing delle infrastrutture, ma ci si tiene in casa qualche sistemista, perché ‘non si sa mai’. Queste persone rischiano di diventare un elemento di disturbo. Con questo approccio il cliente è frustrato, l’outsourcer pure e i vantaggi dell’esternalizzazione faticano a venire fuori”. Gatti invita inoltre ad analizzare il tema dell’outsourcing anche alla luce delle difficoltà riscontrate dalle direzioni risorse umane nel gestire il turnover delle competenze e dell’impatto della riforma Fornero sulla permanenza del personale nelle aziende. “Un informatico ultraquarantenne – aggiunge -, a meno che non intraprenda uno sviluppo manageriale, rischia di ritrovarsi in difficoltà a maneggiare tecnologie molto diverse da quelle su cui ha studiato molti anni fa”. Se le aziende non possono assumere nuove persone, insomma, su certe tematiche dove sono richieste competenze molto fresche, può rivelarsi vantaggioso ricorrere ad outsourcer che dispongono degli skill giusti.
L’attribuzione all’outsourcer non solo delle attività It di tipo “commodity”, ma anche di tutto il personale “operativo” che se ne occupa presso l’azienda, è un tema che suscita un’appassionata discussione. Claudio Tancini, vicepresidente del ClubTi Milano, è d’accordo sul fatto che, una volta deciso di esternalizzare un’infrastruttura, “più personale tecnico si conferisce all’outsourcer e meglio è, perché conosce bene quella tecnologia. Bisogna, invece, stare attenti nel cedere figure professionali di livello ‘intermedio’: con il tempo anche l’outsourcer potrebbe liberarsi di tali risorse, con il risultato che prima o poi, dall’altra parte, non abbiamo più nessuno che conosce bene il nostro business”.
Ma qual è la posizione di Cedacri su questo delicatissimo punto? “Per noi – spiega Bonavitacola – l’outsourcing funziona bene solo se il cliente è in grado di governare il fornitore. Se l’azienda non ha manager in grado di gestire bene l’outsourcing, questo può addirittura rivelarsi controproducente. Per questo va evitato un eccessivo depauperamento degli skill It delle aziende che scelgono l’esternalizzazione . L’outsourcer, per esempio, non si occupa di demand management. Anche le architetture è bene che vengano definite da professionisti dell’azienda, lasciando poi a noi la gestione operativa nel rispetto di Sla e Kpi definiti insieme. A questo proposito, sottolineo che noi adottiamo per i clienti di facility management o di altri tipi di servizi esternalizzati, lo stesso impianto di Sla e Kpi che utilizziamo per le banche a cui offriamo il full outsourcing”.
L’adozione dell’outsourcing, insomma, non esime le aziende da dotarsi di skill e metodologie di governance in grado di estrarre maggiore valore possibile da questo modello. “Se al nostro interno – sostiene Tedesco – adottiamo dei processi di governance strutturati, anche i rapporti con gli outsourcer diventano più rigorosi. E diventa più facile definire leve di dinamismo all’interno dei contratti”. Secondo Matteo Stefani, It manager di Severn Trent Services, “chi si occupa di demand management all’interno delle aziende dovrebbe conoscere ogni riga dei contratti di outsourcing e sapere quale impatto ha ogni clausola sui processi di business”. Una più rigorosa corrispondenza fra applicazioni, processi aziendali e richieste nei confronti dell’outsourcer si può tradurre in Sla e Kpi più realistici, monitorabili e indicativi di un reale valore prodotto per il business: non semplici velleità o scommesse.
Tutto questo implica una più profonda conoscenza fra cliente e fornitore, base anche per una partnership dinamica. “Flessibilità – interviene Roberto Morello, It manager di Fratelli Gancia e C. – è quando l’outsourcer entra in azienda e parla non solo con l’It ma anche con gli altri enti aziendali, si rende conto dei problemi, fa proposte e acquisisce la fiducia di tutti. In questo modo l’outsourcer aiuta l’It a fare capire meglio all’azienda il suo valore”.
Un valore che non consiste solo nel fare risparmiare sui costi di infrastruttura. “Sono convinto – conclude Bonavitacola – che in futuro il facility management continuerà a esistere, ma crescerà anche il nostro ruolo nell’integrazione tra sistemi”. Un outsourcing, insomma, che non s’identifica più quasi solo con la fornitura di potenza computazionale e storage, ma con l’abilitazione delle imprese a sfruttare al meglio le tecnologie per fare nuovo business.
In questo scenario, l’avanzata del cloud offre un ulteriore input per ripensare le dinamiche di esternalizzazione secondo nuovi criteri e modelli di business: anche gli outsourcer, infatti, stanno guardando con crescente interesse alla nuvola, che inevitabilmente potrà rappresentare per loro un’ipotesi di libera offerta con una non semplice fase di transizione da affrontare verso la generazione di nuove opportunità.