“Se guidi l’auto in mezzo ad altre macchine e si rompono i freni, che fai? Manovri per rallentare in ogni modo possibile? Sbagliato: c’è il rischio di collisione con le altre. Premi invece sull’acceleratore, passa le altre auto e tenta la stessa manovra fuori dal mucchio”. Esordisce con questa riflessione paradossale Vineet Nayar, Ceo di Hclt, una delle cinque maggiori compagnie di servizi It in India (più di 30.000 dipendenti, operazioni in 18 Paesi, 700 milioni di dollari di fatturato annuo, crescita annua con un Cagr del 30%). Nel 2005 si è accorto che Hclt era “invecchiata”, con perdita di share (market e soprattutto di mind) rispetto al gruppo di società rivali, capaci di crescite anche del 50% nel boom dell’economia indiana dal 2000 al 2005. Ciò che l’esperienza Hclt ha da insegnare è che serve innovare non solo “cosa si fa” (prodotti, proposte, o mercati nuovi) ma “come lo si fa” (il modo in cui funzionano i team e le aziende).
Il cuore dell’approccio al “come” sta nella filosofia Hclt di mettere i dipendenti al primo posto, sfidando il buon senso che vuole i clienti al primo. “Nell’economia della conoscenza – è la tesi di Nayar – il vero valore si crea nell’interfaccia tra cliente e dipendente; per cui ogni business di servizi che metta i dipendenti al primo posto mette automaticamente al primo posto il cliente, ma con un processo aziendale assai più trasformativo dei soliti programmi di ‘customer care’: combinare dipendenti motivati ed impegnati con un management ‘accountable’ che risponde loro delle proprie scelte è un differenziatore decisivo”.
I dipendenti al primo posto è ormai in Hclt un insieme di pratiche ed attività specifiche con un percorso implementativo che in ultima analisi fa leva sull’intelligenza collettiva dei dipendenti, per cui ulteriori idee ed iniziative emergono di continuo.
Nel suo recente libro intitolato “Employees first, Customers second”, Nayar individua quattro “tappe” di questo percorso, approfondendole in altrettanti capitoli:
1) Creare il bisogno del cambiamento;
2) Crearne la cultura;
3) Costruirne la struttura;
4) Trasferirne la responsabilità.
I quattro passi sono impressionanti: auto-scoperta, fiducia costruita sulla trasparenza, struttura organizzativa (piramidale) “rovesciata” per un cambiamento sostenibile, riformulazione del ruolo del Ceo per un cambiamento “delegabile”. Questo approccio new age è valso ad Hclt l’esser citata come “una delle cinque top emerging companies” (Business week) e “dotata del management più moderno al mondo” (Fortune). Ed essere presentata come caso di successo alla Harvard Business School, che è anche l’editore del libro in cui Nayar conclude con un capitolo sul “Ciclo del cambiamento” riconoscendo che è appropriato parlare “più che di quattro tappe, di quattro componenti” del percorso: “ciascuna può essere rivisitata dalle nuove iniziative che l’intelligenza collettiva dei dipendenti produce”, dice il Ceo.
L’invecchiamento è graduale, non si nota finché non ci si obbliga. “Il cervello è cablato per reagire al cambiamento solo se è un evento: capiamo di dover agire se si rompono i freni; scopriamo di essere invecchiati incontrando un amico dopo vent’anni. L’unico rimedio alla dipendenza da un evento è guardarci (accuratamente) allo specchio. Così è per l’invecchiamento aziendale la cui sola cura è un percorso innovativo”, spiega Nayar.
La prima tappa è un passo di “auto-scoperta”: costringersi a guardarsi allo specchio e, nel caso di Hclt, riconoscere di essere cambiati in peggio. Genera la consapevolezza del bisogno di cambiare. Hclt ha cominciato nel 2005 e ha imparato che “serve non farlo una tantum, ma ogni giorno”, sostiene il Ceo della società. Lungi poi dal soffermarsi sulle cose la cui vista è gratificante (lo fa già il marketing): “serve cercare le cose non belle da vedere e focalizzarsi su ‘come potrebbe essere il domani’ se si riesce a rimediare ‘alle cose rotte’ con la stessa logica con cui si schiaccia sull’acceleratore quando il freno non funziona”, spiega Nayar.
Tra motivazione acquisita a cambiare e capacità di farlo, c’è però la barriera della scarsa fiducia tra dipendenti e management, una condizione ahimè assai comune. Perché riesca lo sforzo congiunto verso un obiettivo comune è cruciale creare una cultura della fiducia. Tra i vari modi possibili, la scelta di Hclt è stata la leva della trasparenza. Nell’esperienza della società si è visto che spesso i dipendenti sanno cosa non va prima che il management lo percepisca o quantomeno sia pronto ad ammetterlo. Se si affrontano apertamente le difficoltà informando tutti all’interno dell’azienda, i dipendenti percepiscono che i problemi dell’azienda sono davvero anche i loro e si sentono coinvolti. Nasce la fiducia in un management disposto a condividere informazioni importanti, anche non buone. La fiducia attraverso la trasparenza è dunque la ricetta di Nayar, il quale testimonia di aver visto così “i suoi dipendenti affrontare problemi prima ancora di esserne richiesti”. E sottolinea che è una ricetta anticiclica: “affrontare insieme i problemi della recessione 2008-2009 ha accumulato un grosso potenziale di fiducia tra dipendenti e management, che ha poi generato superiori performance nella ripresa; lo stesso non possono dire le aziende che nella recessione hanno imbastito azioni disegnate solo per risultati a breve ‘drogati’”, afferma Nayar.
Motivazione a cambiare e cultura della fiducia generano singole iniziative di cambiamento positive. Ma è difficile condurre “business new age” in strutture aziendali secolari. Nayar critica frontalmente la piramide strutturale “considerata obsoleta da molti leader di pensiero”: chiama “zona del valore” ogni area dove il dipendente crei il knowledge, il vero valore per il cliente (tipicamente ma non solo area di contatto con il cliente); e chiama “creatore di valore” il dipendente che la presidia. “E’ ormai paradossale che i creatori di valore rispondano (siano “accountable”) a manager collocati in cima alla piramide o nelle cosiddette funzioni abilitanti che alla zona del valore non contribuiscono direttamente, ma godono del potere che viene dalla loro autorità sui creatori di valore”, commenta Nayar.
Hclt ha letteralmente capovolto la piramide organizzativa: ha reso il management “accountable” ai creatori di valore, e non viceversa, a partire da quello delle funzioni abilitanti (come risorse umane, finance, formazione). Il razionale, nitido, è che le funzioni abilitanti devono produrre servizi interni che davvero servano ai loro consumatori ed essere pertanto “approvati” dall’intelligenza collettiva dei creatori di valore. Se simili “aggiustamenti” alla struttura organizzativa sono valutati e decisi, la capacità di cambiamento diventa sostenibile nel tempo ed è in grado di sopravvivere al leader che dà il via alla trasformazione.
Un difetto strutturale dei management system tradizionali è che lo stesso leader concentra troppo potere, il che impedisce all’organizzazione di “democratizzarsi”, allentando la “stretta soffocante” di pochi e liberando l’energia dei dipendenti. “Perché il cambiamento possa essere oltre che sostenibile anche rinnovabile, bisogna che il Ceo smetta di pensare a sé stesso come unica fonte ideativa di cambiamento e cominci, un passo alla volta, a trasferire la responsabilità degli adattamenti organizzativi alla nuova generazione di leader provenienti dalla zona del valore”, dice provocatoriamente Nayar. “Deve mirare ad un’azienda che si autogestisca e si autogoverni, focalizzata sempre sul cambiamento e sull’innovazione generati nella zona del valore”. Nayar cita la metafora della stella marina che fa ricrescere un braccio se glielo si taglia, e dello stesso braccio tagliato che fa ricrescere l’intero corpo: ogni organo importante è decentrato in ogni braccio. “Un ragno a otto zampe ha tutto nella testa e se perde una zampa diventa solo un ragno a sette”, aggiunge il Ceo.
L’augurio di Nayar è che il percorso seguito da Hclt, lungi dall’essere una prescrizione per altre realtà aziendali, possa essere vista come un caso di successo da valutare e “adattare a un percorso di cambiamento specifico alla propria situazione di azienda e cultura”. I percorsi davvero efficaci arriveranno a un risultato comune, Nayar ne è convinto: “capovolgere la piramide convenzionale del management e mettere i dipendenti al primo posto”. E centrare così l’obiettivo irrinunciabile per una knowledge economy, capitalizzare sulla intelligenza collettiva che abita la “zona del valore”, che nelle società di servizi è l’interfaccia del dipendente con il cliente.