Nell’eterna rincorsa tra domanda e offerta se di solito è l’industria o il commercio che, evidenziando un bisogno emergente, stimola la ricerca di soluzioni adatte, capita a volte che siano queste ultime a precedere i problemi. O in altri termini, che siano disponibili delle tecnologie delle quali non è ancora ben chiaro a che possano servire e, soprattutto, come vadano usate. Stando ad estese indagini che Forrester Research ha svolto quest’anno e l’anno scorso, pare sia questo il caso delle analytics sui big data.
Da un lato, infatti, l’adozione di tecnologie per la gestione e l’analisi di grandi volumi di dati eterogenei è sempre più diffusa. Il loro impiego è attuato o pianificato, in special modo con lo sviluppo e l’implementazione di sistemi di analisi predittiva, nelle più importanti funzioni aziendali, e più dell’80% delle imprese vi sta investendo, con un 45% che nel 2015 ha aumentato il livello di spesa rispetto all’anno prima e il restante 36% che l’ha mantenuto invariato. Ma dall’altro lato risulta dalla stessa indagine come, secondo quelle stesse persone che le hanno introdotte in azienda, i vantaggi per il business ottenuti da questi investimenti riguardino soprattutto la migliore efficienza operativa.
Se ciò è ovvio per le operations, intuitivo per l’It (che è tuttora la funzione che più di altre analizza i big data) e comprensibile per la gestione finanziaria, dove più efficienza vuol dire più riserve e più liquidità, risulta meno logico per il marketing e le vendite, che pure sono ‘grandi utenti’ dei big data, e meno ancora per il customer service. Funzioni dove, come analisti e ‘big data evangelist’ ci hanno detto e ripetuto, la promessa delle analytics starebbe soprattutto nelle nuove opportunità di business e nell’incremento delle profittabilità di quelle in atto.
L’efficienza aiuta, ma…
Ora, è chiaro che guadagnare efficienza operativa è una gran bella cosa e alla fin fine si traduce in minori spese e/o maggiori entrate nel bilancio generale. Ma si resta perplessi quando, per esempio, l’incremento del numero di acquisti per cliente e la riduzione dei tempi d’acquisto (che nel business online significa più probabilità di chiudere positivamente la transazione) risultano agli ultimi posti nei vantaggi rilevati. E si resta più che perplessi quando, secondo un’indagine svolta nel novembre 2014 in Nord America presso 132 responsabili del marketing business-to-business, si legge che l’analisi dei big data risultava, con una quota del 4%, all’ultimo posto nel budget 2015 per il B2B. Ora, i casi sono due: o i marketing manager americani pensano che analizzare la mole di dati disponibili sui clienti e sulle operazioni serva a poco, e ci riesce difficile crederlo; oppure credono che possa servire, sì, ma non sapendo bene come fare, non vogliono rischiare. E questo, il non aver chiare la scelta e l’uso delle tecnologie analitiche, è probabilmente il vero problema.
In realtà, ci sono anche altre cause che possono spiegare come mai le aziende, e in modo speciale le funzioni commerciali, vedano l’uso delle analisi limitato ai vantaggi operativi. La prima, molto semplice, è che di soluzioni per il marketing digitale comprendenti tool di BI per l’analisi dei dati ne sono state sviluppate e implementate parecchie in questi anni e oggi quasi ogni impresa ne ha almeno una. Non saranno real-time e non sfrutteranno le nuove fonti dei big data, ma prima di imbarcarsi in un’altra avventura bisogna dimostrare che quello che si è speso sta dando i suoi frutti. E l’efficienza è facile da provare.
Poi c’è l’idea che prima si debba far funzionare bene il processo che dalla transazione porta al guadagno (L2RM, cioè lead-to-revenue management) e solo poi si possa pensare all’analisi predittiva. Per Forrester è una visione miope, perché il marketing che sfrutta le analisi big data crea valore se è applicato all’intero ciclo di vita del rapporto con il cliente e in particolare proprio alle fasi precedenti l’atto d’acquisto. Ma stando ai fatti sembra che ciò non sia ancora accettato e men che meno realizzato.
L’opzione tecnologica…
Se l’impiego delle analisi predittive nel business non è chiaro a tutti, il fatto che l’offerta tecnologica alimenti un mercato tanto vivace quanto in evoluzione non aiuta di certo chi abbia deciso di farne uso. Per fortuna, come capita spesso nei mercati emergenti, le varie interazioni tra utenti e fornitori portano a condensare le soluzioni in tre macro aree d’offerta, corrispondenti grosso modo a tre passi del processo che trasforma i dati in previsioni. Forrester ha elaborato il grafico di figura 1 per rappresentare Il posizionamento di queste tre aree e dei relativi fornitori rispetto al livello di approccio analitico del vendor e alla maturità dei processi di marketing dell’azienda utente. Come si vede, esistono zone di sovrapposizione con soluzioni polivalenti la cui evoluzione funzionale va attentamente seguita, ma i criteri di tripartizione restano nel generale validi. Possiamo quindi dividere gli strumenti oggi disponibili nelle seguenti classi:
Aggregatori – Raccolgono e organizzano i dati, sia aziendali sia soprattutto provenienti da fonti esterne, in modo che possano essere usati dagli utenti business per il loro lavoro. Molti fornitori vi aggiungono anche servizi di data management, pulizia e arricchimento. Queste soluzioni sono soprattutto necessarie per le aziende che vogliono entrare in mercati nuovi o sconosciuti, hanno dati interni ‘sporchi’ (ridondanti, equivoci, incerti…), o la cui struttura dati sulla clientela presenta aree scoperte.
Arricchitori – Potenziano e completano il monte-dati relativo alle attività di marketing e vendita con elementi di diversa fonte, principalmente feed e clickstream raccolti dal Web e dai social network. Molti strumenti pre-elaborano i dati per trarne informazioni mirate ai bisogni dell’azienda-utente e tendono ad entrare nel campo delle vere e proprie analisi. Questi tool vanno considerati da chi vuole affinare la segmentazione del mercato, fare marketing diretto con messaggi personalizzati e (nel business-to-business) interagire con specifici clienti.
Modellatori – Applicano ai dati algoritmi che ne evidenziano gli schemi e li confrontano a criteri di probabilità (le regole in base alle quali si stima che un evento possa accadere) in modo da poter costruire modelli di previsione. Alcuni includono nei modelli elementi tratti dai processi L2RM di cui s‘è detto, in modo da dire il tipo di cliente e di vendita che può avere il maggior potenziale di business a fronte dell’evento previsto. Il problema di queste soluzioni è che spesso sono realizzate da start-up la cui tecnologia (e le cui stessa sorte) può cambiare nel breve termine. Sono quindi adatte a società già abbastanza esperte nel marketing digitale che debbano colmare dei vuoti nel loro demand management.
…che porta risultati
Su queste considerazioni si può fare un primo screening delle proposte. La soluzione giusta è quella che bilancia il livello di automazione dei processi commerciali, le capacità dello staff It e la maturità delle iniziative lead-to-revenue, con quella che ritenete potrà essere la capacità di applicare al business i risultati delle analytics. Capacità che dipende in gran parte dal grado con cui il management e l’organizzazione aziendale sapranno assorbire il cambiamento culturale e il modus operandi che questo comporta.
Non è né un lavoro facile né privo di rischi, ma i vantaggi che l’analisi big data può dare sono parecchi. Per quanto se ne sia già più volte parlato su queste pagine vale la pena di ricordarne i principali. Citandoli in ordine di profittabilità per il business, potrete:
-Riempire i vuoti tra i dati. A volte bastano i soli dati, se sono quelli giusti, sintetizzati in una semplice analisi quantitativa per far crescere una vendita, valutare la dimensione di un mercato, arricchire un profilo-cliente, calibrare la gestione di un account.
-Rendere più prevedibile lo sviluppo della domanda. Basarsi sul comportamento dei clienti come specchio della propensione all’acquisto è un rischio: chi mai può dire che faranno domani ciò che oggi fanno? L’analisi di big data estranei a ciò che riguarda la vendita dei brand e dei prodotti dell’azienda può invece rivelare intenti e interessi dei potenziali clienti non altrimenti evidenti e permette di valutare la ‘fitness’ dell’offerta, ossia il grado con cui si accoppiano le cose che sappiamo sul ciclo di vita del cliente con quelle che veniamo a scoprire.
-Dare più valore all’account management. Analizzando le operazioni tra venditori e clienti e integrandole con informazioni su ciò che fanno i clienti al di fuori del rapporto di business (fusioni, acquisizioni, finanziamenti, assunzioni, questioni legali…) si può focalizzare la relazione B2B sui reciproci obiettivi, servendo meglio il cliente e aiutando gli account manager a ottimizzare il loro lavoro.
-Prevedere ciò che è meglio fare per un qualsiasi cliente. Si tratta di applicare l’analisi predittiva all’account management. In pratica, si porta nel B2B ciò che fanno nel B2C le aziende di vendita diretta con le promozioni mirate. Analizzando la mole di dati interni ed esterni al rapporto di vendita ci si trova pronti a soddisfare una richiesta o meglio ancora a prevenirla con un’offerta adatta.
-Aprire nuove opportunità di business. Se ne parla spesso riferendosi a nuovi prodotti o servizi che l’analisi dei big data suggerisce di fare. Ma il discorso vale anche, ed è un caso più frequente, per chi voglia allargare il mercato puntando su clienti relativamente nuovi. Caso tipico: l’azienda attiva sui grandi utenti che intenda rivolgersi alle piccole imprese e debba quindi studiare un diverso business model calibrato sulle Pmi.