La storia del Gruppo Amadori, industria di riferimento nel settore agro-alimentare italiano, inizia da lontano, quando negli anni ’30 i coniugi Amadori, di San Vittore di Cesena (dove ha tuttora sede la società), incominciano a vendere animali da cortile alle famiglie nei dintorni. Presto però alla compravendita si aggiunge l’allevamento in proprio del pollame, attività che negli anni ’50, grazie all’impegno dei figli, diventa prioritaria. Negli anni a seguire, gli allevamenti si moltiplicano e alla soglia degli anni ’60 l’azienda di famiglia si trova a essere tra le principali realtà dell’avicoltura. È l’epoca del ‘boom’, gli italiani mangiano più carne e il pollo in tavola non è più il piatto della festa. Gli Amadori colgono il momento e decidono di far fare a quella che è già un’industria il salto di qualità, coprendo l’intera filiera; così, in pochi anni nascono, nell’ordine, la fabbrica di mangime, l’incubatoio e l’impianto di macellazione. Nel frattempo anche la struttura di vendita è cresciuta e ha assunto una dimensione nazionale. Diventa quindi necessario, per garantire la freschezza del prodotto, avere un altro centro di produzione, che viene realizzato in Abruzzo.
La strada è ormai tracciata e da qui in poi è una crescita continua: si estende l’offerta, con i wurstel di pollo, gli impanati, i piatti preparati, e si estende l’organizzazione, con l’acquisizione di altre aziende avicole in Lombardia, Toscana e nella stessa Cesena. Oggi Amadori è un Gruppo da 1,26 miliardi di euro che conta oltre 7.200 dipendenti (dati 2012), con allevamenti di proprietà e direttamente gestiti che coprono 3.700 ettari, 6 incubatoi, 4 fabbriche di mangime e 6 stabilimenti per la lavorazione delle carni. Notevoli anche i numeri della filiera distributiva-commerciale: 21 filiali e agenzie che servono circa 20 mila clienti in tutta Italia attraverso tre centri primari di distribuzione che smistano fino a 300 mila colli al giorno e assicurano una delivery quasi giornaliera ai clienti tramite 350 agenti e un parco di 700 automezzi.
Una filiera sotto controllo
Come si avrà capito dalla storia che abbiamo tratteggiato, alla base del successo Amadori vi è sempre stata una ‘filosofia’ quanto mai semplice: farsi tutto in casa, controllando in tal modo le operazioni, i risultati (in termini di qualità e di risposta agli obiettivi) e ovviamente i parametri economici e di profittabilità di ogni passo dell’intera filiera. Questa scelta però comporta, stante la differenziazione dei processi inerenti la filiera stessa (che spaziano dalla produzione del mangime alla gestione della flotta frigorifera), il costante controllo di una grande quantità di valori, tanto disparati tra loro quanto in varia misura interdipendenti ai fini della direzione strategica e gestionale dell’intera impresa.
Su queste premesse, allo scopo appunto di permettere alla proprietà e ai vertici aziendali di avere una visione sintetica, ma globale, di tutte le attività, è stato costituito un gruppo operativo interfunzionale, che comprendeva Controllo di gestione, Risorse Umane, Marketing e Ict. Frutto di questo lavoro di squadra è stata la raccolta di oltre una sessantina di report, ricavati dal sistema di BI e Data warehousing aziendale (basato su Microstrategy 9) di cui la società era dotata e forniti in diversi formati: Excel per la più parte, più file Word, Powerpoint e documenti Pdf. Tutto questo materiale rispondeva adeguatamente ai bisogni per il contenuto informativo, ma la quantità stessa dei report e l’eterogeneità dei formati ne ostacolava la diffusione e condivisione tra gli utenti (una quindicina di persone), con la conseguenza di limitarne l’effettivo sfruttamento.
Nella primavera del 2013 si decise quindi di rivedere il progetto, nel metodo come nella tecnologia, allo scopo di creare un “Executive Book”, come è stato chiamato in azienda, le cui informazioni fossero immediatamente leggibili e venissero fornite in un unico formato, con accesso e fruizione interattiva da dispositivi mobili. Come dice Luca Bazzocchi, BI Specialist Direzione Sistemi Informativi e Organizzazione dell’azienda, che ha gestito il progetto, “In tal modo, il direttore generale invece di una valigetta piena di carta avrebbe avuto tutta l’azienda racchiusa nell’ IPad”. Per la revisione metodologia, spiega ancora Bazzocchi, “Scegliemmo un approccio a livelli differenziati, con un cruscotto di sintesi con valori di Lpi e Rpi (Leading performance e Risk performance indicator) per il primo livello e una reportistica verticale, con una granularità più spinta, per il livello sottostante”.
L’Executive Book si presenta quindi con un quadro generale diviso in quattro sezioni: gli indicatori di gestione aziendale; gli indicatori di prestazioni e di rischio, con viste degli scenari di mercato; le viste per Divisione aziendale e infine le viste relative alle funzioni trasversali. È da notare che tra gli indicatori di rischio, oltre ai costi delle materie prime, alla posizione finanziaria e alla consistenza del magazzino, vi è anche la reputazione del brand. Questo indice è elaborato da un ente esterno che svolge ricerche e analisi mirate, ma viene visto, trattato e incrociato dal sistema di BI come ogni altro dato aziendale.
Dal Data Warehouse alla Mobile BI
La conoscenza della piattaforma tecnologica di Microstrategy, già usata in azienda, ha semplificato parecchio l’implementazione di Microstrategy Mobile, scelta nella versione per i Pad, in quanto tutti gli utenti designati erano già dotati del tablet Apple. Così, sia pure, ricorda Bazzocchi, “al prezzo di un’estate abbastanza intensa”, partiti a giugno dello scorso anno con il lavoro, il sistema era pienamente operativo già a luglio. I problemi che l’It ha dovuto risolvere hanno riguardato l’aggiornamento automatico da e verso il Master data management aziendale e, soprattutto, la sicurezza, trattandosi ovviamente di dati riservati. Oltre alle solite misure di controllo degli accessi con userid e password, si è creato un sistema di monitoraggio che registra in ogni momento chi fa cosa e quando e si sono dotati gli iPad di una funzione di “swipe” che permette, ad esempio in caso di furto, di cancellare da remoto tutti i contenuti.
Ma il compito dell’It non è finito. Si cerca infatti di migliorare la user experience con strumenti di navigazione più adatti al touch-screen e sfruttando l’uso del colore facilitare identificazione e memorizzazione degli ambiti d’interesse. Si sta inoltre lavorando affinché il responsabile del dato vi possa legare un commento, utile qualora il dato non sia chiaro od occorra motivare eventuali sensibili discostamenti da quanto atteso.
Un problema avvertito da Bazzocchi, non però imputabile alla tecnologia, è che l’Executive Book non è usato allo stesso modo da tutti i manager: “C’è chi lo usa sempre e chi solo ogni tanto”. È però una cosa piuttosto normale, considerato che si tratta di utenti sul cui modo di lavorare non è facile intervenire. Con un po’ di tempo e contando sullo spirito di emulazione verso chi si è impadronito del sistema si può essere ragionevolmente certi che il livello d’impiego sarà presto uniforme ed elevato. Infatti, non è sfuggito alla dirigenza aziendale che lo scambio d’informazioni e di conoscenza reso possibile dalla soluzione realizzata stimola un maggior livello di collaborazione, o quanto meno di visione condivisa di obiettivi e risultati, tra i vari utenti. “È un risultato – osserva Bazzocchi – che volevamo ottenere e che la tecnologia ha abilitato. Un direttore di divisione poteva sempre avere i dati di altre divisioni, ma li doveva chiedere e ciò portava a lavorare per silos. Nata su richiesta del direttore generale e dell’amministratore delegato, che volevano giustamente poter vedere tutto, la pubblicazione dei dati è oggi generalizzata e resa automatica. Ciò porta i manager a ragionare insieme sviluppando importanti sinergie”.