BI: bilanci, considerazioni e aspettative dei Cio

Dopo la presentazione dei risultati dell’Osservatorio sulla Business Intelligence di Sda Bocconi, il cui responsabile scientifico è Paolo Pasini (nella foto), alcuni Cio si sono riuniti in una interessante tavola rotonda dalla quale sono emersi i primi bilanci in termini di adozione della bi in alcune delle più importanti aziende italiane. Difficoltà culturale e di dialogo sono elementi comuni a molte realtà ma i risultati sono comunque positivi e incoraggianti; come dispostrano le richieste di maggiori analisi e approfondimento di alcune tematiche nelle prossime attività dell’Osservatorio.

Pubblicato il 01 Ott 2008

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Il primo convegno annuale dedicato alla presentazione dei risultati dell’Osservatorio sulla Business Intelligence di SDA Bocconi si è concluso con una tavola rotonda attorno alla quale hanno preso posto cinque dei sei Cio delle più importanti aziende italiane che, assieme ai ricercatori di SDA e ai partner dell’iniziativa (Board Mit, Business Objects, Csi Piemonte, Hp, Kpmg Advisory, Microsoft, Oracle e Sopra Group) formano il Comitato Scientifico dell’Osservatorio stesso.
I cinque Cio – Enzo Bertolini di Ferrero Group, Maurizio Besurga di Mediamarket, Giuseppe Biassoni di Rai Maurizio Dell’Oca di Sisal, Giorgio Mosca di Finmeccanica Group, coordinati da Paolo Pasini, responsabile scientifico dell’Osservatorio che agiva da chairman – dopo aver commentato i risultati della ricerca, hanno proposto anche alcuni temi che, oltre a quelli già previsti dal programma, meriterebbero a loro avviso di essere presi in considerazione nel corso del secondo anno di lavoro dell’Osservatorio.

Pasini – Voi tutti, che ci avete aiutato a capire e a interpretare i risultati della ricerca, avete individuato qualche aspetto, anche curioso o provocatorio, che potrebbe essere declinato in modo più particolare all’interno della vostra esperienza aziendale?

Bertolini – Molte delle difficoltà che ci troviamo ad affrontare nell’attuale fase di evoluzione dei nostri sistemi di Bi, sono legate allo sforzo – non solo tecnologico ma anche culturale – di rivedere una serie di meccanismi consolidati nel tempo e caratterizzati da una visione sostanzialmente nazionale, per metterli in grado di supportare in modo appropriato un’organizzazione sempre più complessa e internazionalizzata. E questo incominciando non solo dai sistemi informativi di base ma dalla struttura dei codici clienti, dal piano dei conti, dalla classificazione dei canali. Un impegno non da poco, perché portare un’organizzazione che ha sempre ragionato in un certo modo ai livelli che ci proponiamo, richiede sia tempo sia adeguati investimenti.

Besurga – Il rapporto presentato contiene parecchie cose interessanti. In alcune mi sono ritrovato, in altre meno. Noi viviamo in una situazione curiosa poiché siamo l’unica country di un’importante multinazionale tedesca a utilizzare la Bi in modo esteso, e quindi la nostra realtà, se confrontata con quella del resto del gruppo, è abbastanza anomala. Per cui talvolta mi pongo domande, molto personali, sul cosa voglia dire fare Bi, e se il farlo sia effettivamente un elemento di distinzione. Rimane il fatto che in questo momento abbiamo un grosso problema: le nostre direzioni vorrebbero disporre di buone informazioni, e le vorrebbero tutte e subito; una richiesta non così semplice da soddisfare. Anche perché per venirne a capo nasce subito un altro problema, forse ancora più complesso da risolvere, quello cioè dell’ownership dei processi.

Biassoni – In Rai abbiamo incominciato a fare Bi alla fine degli anni ‘90 e il sistema che oggi usiamo rispecchia il tipico modello di business di un broadcaster. Un sistema, in definitiva, che a parte qualche problema di qualità dei dati e di tempestività, o qualche intervento di razionalizzazione e di affinamento, fornisce le risposte che ci aspettiamo da lui. E in quest’ottica l’attività dell’Osservatorio mi sembra del tutto pertinente. Ciò che a mio avviso non è stato invece affrontato è lo scenario che sta dietro l’angolo, che determinerà un profondo cambiamento del tipo di relazione con l’utenza. Il modello “uno a molti” proprio del broadcaster, che attraverso il suo palinsesto racconta ciò che ritiene di dover dire, si sposterà infatti verso un modello di tipo “internettiano”, dove la volontà e la scelta di cosa guardare sono completamente diverse. Un cambiamento le cui implicazioni sono tutte da indagare.

Dell’Oca – Fra le diverse criticità che influenzano i progetti di Bi, l’Osservatorio ha dedicato a mio avviso poca attenzione alla resistenza che le persone tendono ad opporre al cambiamento, mentre nel nostro caso è stata quella che si è rivelata la più complessa da gestire. Le persone che in azienda avevano il compito di fornire al management le informazioni, avrebbero in realtà voluto continuare a usare i loro vecchi sistemi, basati su miriadi di fogli Excel interconnessi e megastrutturati. Ed è stato molto difficile convincerli che sarebbe convenuto anche a loro diventare veri analisti di dati invece di continuare ad essere i gestori di complicati fogli di calcolo. Un processo di convincimento lungo e faticoso, che ha richiesto una notevole e imprevista quantità di tempo e di energia.

Mosca – Guardando i risultati della ricerca, ciò che mi ha colpito di più è il ruolo preminente che l’It continua a giocare nell’ambito della Bi. Un ruolo anacronistico perché l’It non è di fatto responsabile ne’ del business ne’ della sua “intelligenza”. Il compito dell’It è solo quello di fornire il supporto tecnologico a una “capacità di intelligenza” che deve esistere all’interno del business stesso. E questa è sicuramente la ragione per cui i sistemi di Bi sono ancora impiegati in misura limitata dai responsabili delle unità operative, che dicono di non avere il tempo di analizzare i dati, e quindi finiscono spesso per affidarsi all’intuizione. È un grosso gap culturale quello che le direzioni It e le funzioni di business dovranno colmare, se vorranno armonizzare i loro modi di pensare dati e informazioni, perché è del tutto chiaro che le seconde li “pensano” in modo del tutto diverso dalle prime.

Pasini – Dai vostri commenti emergono alcuni punti comuni e molte specificità legate alle aziende che rappresentate. Tra i primi, di particolare interesse vi è quello riguardante le sfide che l’internazionalizzazione sta proponendo anche in ambito Bi. A questo proposito molto si è discusso circa l’opportunità di non utilizzare solo monolitici modelli di consolidamento ma di lasciare spazi di autonomia alle diverse country, consentendo anche analisi locali. Secondo voi è possibile far convivere le due esigenze?
Bertolini – Personalmente credo che entrambe le esigenze debbano essere tenute presenti. Da un lato, se vogliamo valutare le nostre attività e le nostre performance non solo in un’ottica nazionale, vi sono requirement irrinunciabili, supportati da regole e parametri da applicare in modo univoco, che richiedono una visione globale. Diversa è la situazione quando si considerano processi che riguardano piccole unità o mercati locali. Noi abbiamo ad esempio definito una struttura dei canali distributivi valida per tutte le country, e per ciascuno di essi abbiamo identificato alcuni clienti che riteniamo “globali” e che devono quindi essere trattati come tali. Poi, all’interno di questo frame di riferimento, che consente una vista unificata quando vogliamo analizzare certi fenomeni su una scala più ampia, abbiamo previsto una serie di elementi di flessibilità gestibili mercato per mercato.
Besurga – La nostra particolarità dipende dal fatto che l’Italia è la country più giovane del gruppo, per cui agli inizi abbiamo abbracciato un concetto che dieci anni fa andava per la maggiore: parlare con il cliente, raccogliere i dati che lo riguardavano, cercar di capire che cosa pensava. Le altre country del gruppo questo non l’hanno invece mai fatto, probabilmente perché, avendo una presenza sul territorio molto più consolidata della nostra, non hanno ritenuto di averne bisogno. Siamo dunque partiti in questo modo ma ancora oggi vi sono al nostro interno persone che preferiscono usare pezzi di carta piuttosto che algoritmi matematici. Stando così le cose ci si può chiedere che senso abbia fare Bi. E questa è una domanda che secondo me non ha risposta. Anche dalla ricerca emerge infatti chiaramente che in Italia la sua diffusione è piuttosto limitata. Forse perché non siamo ancora culturalmente preparati al suo utilizzo.
Biassoni – Avendo lavorato per una multinazionale che produceva centrali telefoniche, ponti radio, sistemi di trasmissione, ecc., dove tutto era gestito a livello di singola country, posso anch’io dare un piccolo contributo alla discussione. Un giorno il nostro amministratore delegato decise di riorganizzare il business per linee di prodotto, e fu così che senza toccare una virgola dei sistemi transazionali esistenti, che continuarono a fare il loro lavoro, riuscimmo a trovare il mitico “margine per cliente” solo grazie alla disponibilità di alcune applicazioni dette di Dms (decision support system), antesignane della Bi.
Dell’Oca – La nostra è un’azienda che opera solo in Italia per cui non dovremmo avere il problema dell’internazionalizzazione. Tuttavia poiché il nostro business ci porta a gestire svariati prodotti all’interno di mercati di riferimento molto diversi, qualche analogia di fatto esiste. Anche noi dobbiamo infatti mettere a disposizione dei responsabili di questi prodotti strumenti che consentono di valutare l’andamento delle loro operazioni e le relative performance facendo riferimento a mercati concorrenti notevolmente differenziati. La “localizzazione” delle applicazioni di Bi è dunque un’esigenza sentita anche in un’azienda esclusivamente italiana.
Mosca – Il problema della Bi in un’azienda multinazionale è soprattutto quello di riuscire a “leggere”, con criteri omogenei, l’informazione dovunque questa venga generata. Il che può essere molto complesso perché non è la stessa cosa, come a noi capita, fare aeroplani o componenti elettronici. Tuttavia personalmente credo che il problema di fondo della Bi sia un altro, ovvero quello del trade-off tra flessibilità e rigore, due aspetti che non sempre possono coesistere. Se ho bisogno di rigore devo realizzare un’infrastruttura in grado di garantire che i dati siano allineati, che il piano dei conti sia lo stesso, che i fenomeni vengano letti in un certo modo, ecc., e questo richiede tempo. Se invece ho bisogno immediato dell’informazione, posso essere costretto, entro certi limiti, a improvvisare. Questo è secondo me il maggior problema della Bi: dover fornire un’informazione rigorosa a utenti che non capiscono, visto che a loro l’informazione serve subito, che per farlo ci vuole tutto il tempo necessario.

Pasini – Paradossalmente, l’introduzione in azienda di strumenti di “intelligence” avanzati sembra creare più problemi nell’It che presso gli utilizzatori. Che cosa avete fatto, per superare queste difficoltà?
Dell’Oca – La nostra azione è stata soprattutto caratterizzata da molta pazienza e dal coinvolgimento dei manager, che sono poi quelli che hanno bisogno delle informazioni. Coinvolgimento nel senso di partecipazione diretta al processo di sviluppo, non solo negli steering committee mensili ma anche nelle riunioni settimanali dove, assieme alle loro persone, venivano valutati gli stati di avanzamento. In certi casi si è rivelato utile “sedersi sulla riva del fiume” e attendere che i vecchi sistemi andassero in tilt nel tentativo di adeguarli ai nuovi requirement. Fatti che si sono propagati in azienda e che ci hanno consentito di superare certe rigidità.
Besurga – Uno dei parametri fondamentali per capire l’andamento del nostro business è il valore medio dello scontrino dei distributori. Quando, anni fa, abbiamo incominciato a introdurre in azienda la Bi abbiamo deciso di consentire ad alcune funzioni di continuare a elaborare in modo empirico le loro valutazioni di quel parametro, dando invece alle altre nuovi strumenti per farlo. I risultati si rivelarono in realtà abbastanza simili; tuttavia mentre alle prime l’elaborazione richiedeva un enorme impegno, le seconde giungevano al risultato senza troppa fatica. E fu così che in azienda si capì che c’erano modi migliori per fare certe cose.

Pasini – Veniamo ora all’ultima domanda. Qual è l’aspetto che in particolar modo vi piacerebbe vedere indagato quando l’anno prossimo ci ritroveremo per la seconda conferenza dell’Osservatorio?
Bertolini – Dopo il “turmoil” di acquisizioni che lo scorso anno ha dato una forte scossa al mercato della Bi, sarebbe interessante poter conoscere il punto di vista rigoroso di un osservatore qualificato esterno circa le strategie di prodotto che i maggiori vendor stanno ridisegnando. Un’analisi che ci possa orientare nelle nostre scelte future.
Besurga – A me piacerebbe riunire attorno allo stesso tavolo Ceo, Cio, Direttori di funzioni, ecc. – tutti coloro insomma che in azienda, usando gli stessi dati, devono gestire situazioni molto diverse – per fare in modo che da una comprensione reale delle loro specifiche esigenze possano emergere obiettivi condivisibili.
Biassoni – Sempre più spesso si sente parlare di “real time Bi”, e noi saremmo molto interessati a capirne qualcosa di più. Ci piacerebbe quindi che l’Osservatorio investigasse il fenomeno andando per esempio a vedere chi, in Italia, si sta muovendo o si è già mosso in quella direzione.
Dell’Oca – Io sarei interessato alla realizzazione di un benchmark a livello internazionale che ci consentisse di capire come questi strumenti vengono utilizzati dalle aziende del nostro settore non solo in Italia o in Europa.
Mosca – Un argomento sicuramente da approfondire, anche nella logica dell’ownership, è quello riguardante il modello di implementazione delle soluzioni di Bi. Come comporre i gruppi di lavoro che realizzano questi progetti, come attribuire le responsabilità nelle fasi di sviluppo e in quelle di gestione. Un approfondimento da cui escano le linee da seguire per avere gruppi di lavoro che veramente funzionino e siano capaci di produrre risultati corretti.

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