La co-creazione di valore coi consumatori (aggregati o no in cosidette “folle intelligenti”) può essere un’opportunità di trasformazione cooperativa dell’azienda per sfruttare inventiva e produzione non più rigidamente centralizzate ma aperte in rete. È probabile che il Ceo condivida questo modello di azienda cooperativa, ma anche che gli risolva solo una parte dei problemi che ha davanti a sé. Si dice e si scrive che gli occorre ormai una transizione organizzativa ancora più profonda: a un recente sondaggio di Boston Consulting Group, 940 Senior Executive di aziende in 68 Paesi hanno risposto che “è diventato essenziale al successo nel proprio settore d’industria eccellere nella crescita del fatturato (top-line growth) attraverso l’innovazione”. Forse serve un’azienda non solo cooperativa, per importare innovazione e creatività dall’esterno, ma creativa tout-court. È il modello stesso dell’economia aziendale basata sul knowledge, in cui l’eccellenza si costruisce su minimo prezzo e massima qualità di processo, che non basta più per differenziarsi sulla concorrenza. La commoditizzazione, che dalle tecnologie risale all’informazione e allo stesso knowledge, complice la globalizzazione della forza lavoro, consente di spedire processi in offshore a geografie con pool di skill meno cari e altamente specializzati, rende questo modello sempre meno redditizio. Con l’economia del knowledge in crisi, serve un’azienda che, riorganizzandosi attorno a competenze core creative, riesca a produrre costantemente nuovi prodotti e servizi o quantomeno nuovo disegno in quelli correnti, con percentuali di successo nell’innovazione di un ordine di grandezza superiori agli attuali, in modo da eccellere in una nuova economia, quella della creatività. Il centro nevralgico di questa riformulazione creativa dell’azienda è la strategia di disegno del prodotto o servizio, strategia incentrata, qui sta il cambiamento di paradigma, sull’esperienza del consumatore del prodotto, piuttosto che sul prodotto di per sé. E con un’attenzione quasi ossessiva ad ogni requirement “non soddisfatto, addirittura non articolato o al limite inconscio”, che è il sacro Graal dell’innovazione consumer centrica. Aziende leader, società di consulenza dedicate all’innovazione, business school con master in business design (D-School), stanno tutti pensando alla sfida di ricondizionare il management aziendale per organizzare un’azienda non per l’ottimizzazione in stile 6-sigma (la famosa metodologia per il controllo della qualità adottata da numerose aziende a partire dagli anni ‘80 nella quale l’avvicinamento alla qualità totale avviene per step successivi, ma senza raggiungerla mai completamente), ma attorno a una strategia di disegno e di innovazione continui mirata a indovinare l’esperienza desiderata dal consumatore e a realizzarla prima e meglio della concorrenza. Ce n’è bisogno, visti i risultati di un’indagine Doblin Consultant: oltre il 95% dei tentativi di innovazione mancano l’obiettivo del ritorno dell’investimento. Il risultato è la media dei (bassi) successi per segmento d’industria, dalla produzione di giocattoli alle società di venture capital.
I nuovi consulenti dell’innovazione
Design Continuum (www.dcontinuum.com) che gravita intorno al Mit, Ziba (www.ziba.com), Doblin Consultant (www.doblin.com), leader nelle metriche dell’innovazione, Ideo (www.ideo.com) legata alla D-School di Stanford sono alcuni dei nomi che si trovano aggirandosi nel nuovo spazio consulenziale, tutti attivi come “occhio esterno” con aziende leader che si riorganizzano per l’economia creativa. Non dubitiamo che un’Accenture o una Kpmg siano a loro volta “sul pezzo”, ma su questi argomenti tra i big della consulenza troviamo la sola Boston Consulting Group che sta chiaramente investendo. I nuovi consulenti parlano un linguaggio più antropologico che tecnologico, costruiscono le loro raccomandazioni più sulla base di workshop ed esercitazioni che su sondaggi. Negli Usa hanno Corporation leader che li seguono per indirizzare assieme il mercato dei consumatori più grande del mondo. Sono i portatori della cultura di “pensare fuori dalla scatola”. Vantaggi competitivi non da poco, per il salto nella economia della creatività: gli Usa hanno dunque buone prospettive di continuare nel gioco dei margini alti in un mondo a basso costo. E l’Europa?
Scuole di Business in metamorfosi
In un’economia aziendale creativa non è più così ovvio dove mandare i manager a imparare. È chiaro che su una B-School che sforna Master di Business Administration (Mba o B-School) fa premio una D-School che crea Master di Business Design (Mbd). E non è mero gioco di titoli, ma di skill e di contenuti. Gli skill che sanno “solo” amministrare perdono valore rispetto a quelli, creativi, che sanno disegnare il business. E quanto ai contenuti, sono complementari: una B-School ha orientamento analitico, si focalizza sulla soluzione di un problema; i corsi di una D-school puntano alla scoperta del problema (problem finding) per creare l’opportunità di soluzione. E’ in atto una vera e propria corsa alla D-School di tutte le grandi Università americane. Nettamente in testa Stanford e l’Università dell’Illinois, che si sono create rispettivamente lo Stanford Institute of Design (Sid) e l’Illinois Institute of Design (Iit). Inseguono un po’ tutte le altre. dalla Wharton a Berkeley, da Harvard a Carnegie Mellon che ancora in normali B-School offrono combinazioni di formazione per executive, corsi elettivi o programmi Mba sulla lunghezza d’onda delle strategie di Disegno del business. In Europa, Insead a Fontainebleau ha incominciato ad organizzare corsi elettivi in collaborazione con l’Art Center College of Design di Pasadena, Ca., dove gli studenti a fine corso sono portati a presentare i risultati del lavoro svolto.
Le aziende leader nell’innovazione
Nella citata indagine Boston Consulting Group, i 940 Senior executive hanno anche votato le Corporation ritenute più innovative e motivato la loro indicazione. Fra le prime venti classificate spicca Apple con quasi il 25% dei voti, per “l’eccezionale esperienza fornita al consumatore con un disegno del prodotto di grande livello, la ridefinizione di vecchie categorie con un costante flusso di nuove idee e la persistente capacità di evolvere il modello di business e lo stesso brand”. Al secondo posto 3M (12%) per la “cultura interna di creatività con capacità di motivazione delle persone”; al terzo Ge (8,5%) per “le pratiche più innovative”, e giù al settimo Ibm (5%) per “la capacità di risolvere i problemi dei clienti e persino far funzionare parti del loro business, grazie alla poderosa base It” e al nono P&g (4%) per “l’innovazione dei prodotti basata sullo studio approfondito dei cambiamenti negli stili di vita dei consumatori”. Possiamo dire che P&g sia stato il vero pioniere dell’azienda creativa (l’inventore), che Ge ne sia subito diventato un riferimento come best practice (il metodologo), mentre Sas è citato da Harvard Business Review come modello di gestione per la creatività (il gestore). A queste interessanti esperienze abbiamo dedicato il riquadro di queste pagine.
TRE ESPERIENZE SIGNIFICATIVE
1 – Quando A.G. Lafley è diventato Ceo di Procter&Gamble, la crescita dei volumi era piatta, malgrado P&g avesse i migliori ingegneri chimici del mercato e un marketing potente. Lafley ha deciso che si stava guardando troppo a come funzionavano i prodotti e troppo poco all’esperienza del consumatore che li comprava e ha puntato sul design dei prodotti per renderli attraenti. Nel 2001, quando P&g stava licenziando migliaia di manager e scienziati, ha creato un VP Disegno, Innovazione e Strategia, cui ha assegnato e fatto quadruplicare un battaglione di disegnatori a tempo di record. La prima mossa del nuovo VP è stata spedire i disegnatori a lavorare a fianco dei ricercatori di R&d per co-produrre nuovi prodotti per stabilire una relazione di lungo termine tra ricerca del miglior prodotto e attenzione all’esperienza del consumatore, rendendo l’intero processo innovativo centrato sul consumatore anziché rimorchiato dalla tecnologia. Seconda mossa, ha ingaggiato consulenti dedicati all’innovazione per avere “occhi esterni”, liberi da paradigmi. Infine ha messo in formazione continuativa l’intera impalcatura manageriale, mandandola a “ginnastica”, in luoghi appropriati, a un tirocino dedicato al nuovo pensiero-design. E si è aperto a sua volta a suggerimenti innovativi esterni, costituendo un Design Board di persone non P&g.
2 – Jeff Immelt, succeduto al mitico Jack Welch alla guida di Ge, con l’obiettivo di far crescere Ge dell’8% annuo contro il 5% del predecessore, sapeva di essere prigioniero di crescite ormai asintotiche a meno di non abbandonare l’economia del knowledge. E lo ha fatto con decisione, anche se, ha detto, “il six sigma (metodologia di controllo della qualità di cui Ge è stato uno dei casi di successo ndr) resta il fondamento su cui si può costruire innovazione”. Ma è recente la frase: “La creatività e l’immaginazione applicate in un contesto di business sono l’innovazione stessa”, con il proposito in Ge di “misurare i leader su quanto sono immaginativi: cioè sul coraggio che hanno di finanziare idee nuove, sulla leadership nel pilotare i propri team verso di esse e sulla formazione delle proprie persone ad assumersi consapevolmente maggiori rischi”. Anche Immelt ha creato una posizione chiave, una VP Chief Marketing Officer (per generare) Innovazione e Creatività, che gestisce disegnatori Ge e relazioni con i guru della consulenza nell’innovazione. La macchina Ge ha già lanciato qualcosa come 80 iniziative per l’innovazione, investendo oltre 5 miliardi di dollari, spingendo su nuovi mercati, nuove aree prodotto, nuovi settori. Una di queste iniziative è una “Scoperta del mercato cinese”, una tre giorni di 90 dirigenti Ge e consulenti esterni dell’innovazione. Non è chiaro se è un caso o no, le vendite Ge in Cina si sono impennate nell’ultimo trimestre. Ma la Corporation del six-sigma non poteva non creare una nuova best practice e inventarne l’acronimo, Cencor (Calibrare ed Esplorare; Creare e infine Organizzare e Realizzare), che sintetizza i passaggi della nuova metodologia in cui si articola la strategia di disegno: la fase Calibrare ed Esplorare parte con l’osservazione del cliente (lo shopping ai grandi magazzini, le famiglie ai ristoranti o i pazienti negli ospedali) e con l’esercizio assai istruttivo del “sii tu il tuo stesso cliente”; nella Creazione del nuovo prodotto importa piazzare ove appropriato il racconto della storia, che favorisca l’immedesimazione del consumatore col prodotto, per esempio fanno furore le scarpe da guida e l’orologio Mini-motion per guidatori della Mini Cooper, che psicologicamente “indossano” la soddisfacente esperienza di guida del mezzo; Organizzare e Realizzare sono un’accoppiata, e che accoppiata: ogni volta che un prodotto innovativo va in produzione devo avere in funzione tutto il processo che serve, dunque stiamo parlando di un’organizzazione capace di costruire il nuovo processo che serve al nuovo prodotto, contestualmente al prodotto stesso. Stiamo intravedendo solo da poco come costruire processi con business intelligence per decisioni operative (vedi ZeroUno 281, intervista a M. Ferguson su Il Datawarehouse al centro dell’impresa agile) e qui già si presuppongono da un punto di vista It processi intelligenti al punto da poter essere loro stessi riconfigurati dinamicamente. Ma è ancora più ardita la sfida culturale: “costruire un tipo di cultura di innovazione di routine, applicando il design pensiero a tutta l’organizzazione”, il messaggio è di David Kelley, co-fondatore di Ideo, e capo della D-School di Stanford.
3 – Ma già oggi c’è chi gestisce un’azienda orientandola e stimolandola alla creatività. Su Harvard Business Review di agosto è apparso Managing for Creativity, uno studio del vero e proprio framework per la gestione della creatività che Sas ha messo a punto per coniugare le energie creative di tutti gli stakeholder, sviluppatori software, manager e … clienti. Con indiscutibile successo: Sas è da sempre fra le prime 20 nella lista “100 Best Companies to work for” di Fortune, con un turnover fra il 3 e il 5% annuo (la media di settore è il 20%) e ha un incredibile 98% di rinnovi annui di sottoscrizioni delle sue licenze dai Clienti, grandi corporation e governo in testa. Il framework poggia su tre linee guida forse semplici da enunciare, ma costate anni di evoluzione culturale per costruire un’organizzazione che li rispecchi armonicamente: Aiutare i dipendenti a dare il meglio nel loro lavoro tenendoli intellettualmente ingaggiati (sottinteso, un creativo è motivato più da un problema che lo affascini che da un premio e a maggior ragione da un incentivo) e rimuovendo distrazioni (sottinteso, Sas si è spinta a finanziare fino ai due terzi i costi della salute dei dipendenti e della cura della prole, tipo cure mediche in loco e asili nido). Responsabilizzare i manager ad “innescare la creatività” con l’esempio e agganciare i clienti come “partner creativi” se si vuole essere capaci di fornir loro prodotti di qualità superiore. Il framework produce dunque un ecosistema corporate in cui si punta a far coesistere creatività e produttività, coniugare profittabilità e flessibilità e, ciò che non guasta, armonizzare lavoro dedicato ed esigenze della vita privata. Ma c’è una premessa alla radice di questi tre principi, formulata da Jeffrey Pfeffer professore a Stanford sulle “Organizzazioni basate sui talenti”: ci vogliono sei mesi per rendere produttivo (up to speed) un nuovo lavoratore del knowledge, ci vogliono anni perché un dipendente assorba veramente la cultura aziendale e forgi relazioni di lavoro solide e abilitanti in un lavoro creativo. Notare come la premessa ci riconduce dritto allo iato economia del knowledge – economia della creatività. Il fattore critico di successo nell’organizzare un’economa aziendale per la creatività è dunque promuovere in ogni modo relazioni di lungo termine fra vendita e supporto, tra dipendente e cliente. Perché è nella relazione di lungo periodo che si coltiva il capitale creativo, che non è solo una raccolta di idee individuali, ma un prodotto di interazioni, funzione dunque anche di una cruciale esposizione nel tempo. (R.M.)
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