Il nuovo potere del consumatore

Parafrasando un celebre incipit si potrebbe dire che "uno spettro si aggira per il mondo": è lo spettro delle comunità virtuali intelligenti che collaborano, usano blog e nuove forme di comunicazione via internet e possono decretare il successo di realtà sconosciute o obbligare grandi corporation a miliardari risarcimenti. Un potere crescente, ma anche una grande responsabilità. Con queste realtà le imprese devono fare i conti. Un cambiamento organizzativo e culturale di notevole portata, nel quale l’Ict è l’indispensabile elemento abilitatore

Pubblicato il 07 Nov 2005

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Gli effetti della “intelligenza collettiva in rete” e del “design, pelle della cultura” rispettivamente su un nuovo equilibrio domanda-offerta e sulla trasformazione creativa dell’economia aziendale (tra loro in sinergia), li prevedeva già negli anni 90 Derrick de Kerchove, Direttore del Programma McLuhan di cultura e tecnologia all’Università di Toronto. Oggi, la potenza collettiva di ormai quasi 1 miliardo di Internauti, con la capacità, abilitata dalle tecnologie Internet di seconda generazione, di mettere in comune risorse quali conoscenze e knowledge, relazioni sociali, reputazione online e potenza elaborativa, si diffonde “quasi come un organismo”: l’espressione è di Niklas Zennstrom, Ceo di Skype, distributore del software che consente servizi Voice over Ip peer to peer (leggi telefonate) gratuiti in Internet, sfruttando la somma delle capacità online inutilizzate dei sottoscrittori e trasformandola in un sistema di telefonia VoIp capace di autosostentarsi, concettualmente senza investimento capitale.
Nelle consultazioni o ricerche su archivi, articoli e weblog di Gartner, Forrester, Idc, Harvard Business Review, Business Week ed Economist abbiamo trovato che il termine più gettonato per queste multiformi aggregazioni finalizzate di utenti è “collaborazione di massa”. E che la parolina peer emerge come importante rivelatore (peer power, peer production) del problema/opportunità per i business e le aziende nei vari settori d’industria, riproponendo su scala globale il paradigma “computer contro piramide” proposto fin dal 1982 in Megatrend di John Naisbitt (“Abbiamo creato un sistema manageriale gerarchico e piramidale perchè avevamo bisogno di controllare quello che le persone facevano; con il computer che oggi lo fa per noi, possiamo ristrutturare le nostre organizzazioni in modo orizzontale, scriveva l’economista e sociologo amerivano). La domanda che ci si pone è quindi: come ristrutturarsi (o magari parzialmente destrutturarsi?) per aprirsi come azienda cooperativa, in grado di collaborare coi consumatori per “co-produrre” con loro, sfruttando la trazione di inventiva e produzione anche in rete, non più solo centralizzate? E soprattutto come il modello di azienda ed economia cooperativa può funzionare da catalizzatore di un nuovo modello emergente di azienda, l’azienda creativa e di un’economia davvero innovativa, l’economia della creatività, rendendo obsoleta l’organizzazione basata sul “solo” knowledge: per differenziarsi non basta più l’esecuzione ottimale, occorre reinventarsi.
Quali le tecnologie di seconda generazione alla base di questo big bang di collaborazione in rete? In generale quelle che consentono di andar oltre le modalità “uno a uno” dell’e-mail e “uno a molti” della pagina web affissa come locandina virtuale, per relazionarsi con il “molti a molti”, l’equivalente virtuale della socializzazione. Ecco il peer file sharing, di cui un esempio, magari con problemi legali, è il servizio Kazaa (www.kazaa.com), che sottrae mercato all’industria dell’entertainment, consentendo a decine di milioni di consumatori la circolazione peer di musiche, canzoni e film. Oppure i weblog (o blog) che editano e diffondono le opinioni personali su qualunque evento, notizia, prodotto, servizio senza permessi, selezioni o annacquamenti da alcun editore centralizzato, giornale, rivista o radiotelevisione che sia. Il software collaborativo per eccellenza per i gruppi di interesse è il wiki (svelto, veloce in dialetto hawaiano), insieme di pagine web e foto tra loro collegate che può essere visitato ed editato/arricchito da chiunque (vedi riquadro). È con Web dotati di software wiki, o wikiweb che è stata creata la www.en.wikipedia.org, enciclopedia multilingue libera e gratuita, in qualcosa come 190 lingue mentre scriviamo, con oltre 739.000 voci in inglese, già oltre 111.000 in italiano: gli esperti che collaborano a Wikipedia nel mondo superano già i 120.000 che lavorano per la Britannica. Ancora, servizi per la collaborazione in rete come MySpace o Meetup Inc. che mettono alla portata di tutti la formazione di gruppi di interesse locali. Ultimo non certo per importanza, il software, proprietario o open source, gratuito o a pagamento (possibili tutte e quattro le combinazioni) che consente la messa in comune per un fine condiviso di potenza elaborativa o banda comunicativa, in stile “grid”. Si, il grid ne ha fatta di strada, sia pure in un certo senso e in ordine sparso: dopo l’Enterprise Grid Alliance spinta da Oracle, Sun, Hp, Intel, Emc e altri come luogo degli standard per il grid nel sottouniverso aziendale, non pare uno sproposito considerare un software tipo Skype come un sottoinsieme del grid, certamente ristretto e finalizzato, ma de facto standard, per il mondo peer Voip, alias telefonia Internet per la galassia in esplosione dei consumatori.

Se in ogni ambito la gente si aggrega e collabora in Internet, e vedremo con che effetto dirompente sulle attività di settore industriale in cui sono coinvolti, è perché stiamo assistendo all’ascesa del potere dei consumatori, potere che si organizza su scala globale e con relazioni virtuali in cosidette “folle intelligenti” (smart mob è il termine che usa H. Rheingold in “Smart mobs: the Next Social Revolution”, www.smartmobs.com). Un potere che, rispetto all’establishment, sembra in grado di esprimersi in forme sia drasticamente concorrenziali (Peer power), sia portatrici di preziosa complementarietà e di valore aggiunto (Peer production), e che dovrà comunque maturare verso una nuova o maggiore responsabilità dei consumatori, evitando che nella folla intelligente prenda il sopravvento il “lato oscuro” trasparente dalla parola inglese mob utilizzata dalle nostre fonti e che significa “folla, massa” nel senso di gruppo che fa pressione per qualcosa, pressione che può essere anche violenta tanto che nello slang “mob” assume il significato di “folla sediziosa”. Questo ci pare il filo rosso comune dei ragionamenti che riportiamo dalle varie fonti sulle iniziative delle folle virtuali o attorno ad esse. Anche se va premesso che l’utilità di separare i due campi peer power e peer production è solo didascalica, nel senso che le varie iniziative della folla intelligente si distribuiscono piuttosto a ventaglio fra i due poli, in funzione dell’autocoscienza della propria intelligenza-potere, non meno che degli sforzi delle Corporation di catturarne e controllarne le complementarità.

Il potere peer
Nella suo forma più radicale, il potere peer è “l’emergere di un’economia della gente, dalla gente per la gente”. La visione, sociologica prima ancora che economica, è di Yochai Benkler, professore alla Law School di Yale (vedi www.onthecommons.orgode/145). L’intelligenza delle folle conduce alla democratizzazione dell’industria, con un ridecentramento dell’economia a scapito delle attuali cittadelle del comando e del controllo che sono le Corporation: se la macchina a vapore ha innescato l’ascesa del loro potere economico (le aziende erano le sole a disporre del capitale per realizzare le necessarie economie di scala richieste dai nascenti processi industriali), ora si sta innescando la parabola discendente grazie alla potenza di calcolo sempre più economica, esaltata dall’ubiquità di Internet e dalla disponibilità di software e servizi socializzati. Si va verso un potere di produzione decentrato e una sua riappropriazione da parte della gente, capace di una nuova intelligenza, quella delle folle. Secondo Benkler, ai due classici motori antagonisti dell’economia, il mercato (che tira con le varie forme di retribuzione) e il brand (l’azienda che spinge con l’attenzione mirata al prodotto in tutto il suo ciclo), si aggiunge la collaborazione di massa, che crea valore dando la concretezza di prodotti economici a comportamenti sociali che “normalmente si dissiperebbero nell’aria” (e invece con la rete e i cellulari, per esempio, si instaura un sistema di feedback fra chi alla fine compra prodotti o servizi e chi alla fine li vende: e-Bay consente il mutuo rating fra le controparti ad ogni transazione online, un incontro quasi perfetto fra domanda e offerta).
Intorno all’estremo del potere peer tendono ad aggregarsi i movimenti d’opinione, con i weblog, capaci di scuotere col loro “clamore collettivo” l’industria mediatica centralizzata (nello scontro coi weblog ha avuto la peggio un Dan Rather, anchorman di Cbs – dopo che il famoso giornalista aveva mostrato in tv un documento che svelava i favoritismi ricevuti dal presidente Bush ai tempi del suo servizio militare, the blogger hanno iniziato ad avanzare dubbi sull’autenticità del documento che si è poirivelato fasullo obbligando Rather e Cbs a pubbliche scuse). Ma c’è una Hollywood in trincea sotto l’attacco di un centinaio di milioni di fan che si passano in modalità peer e gratuita canzoni, programmi e film (Kazaa è solo il software peer più popolare). Ed è concorrenza frontale ai fondi d’investimento il servizio a 70.000 investitori virtuali di www.marketocracy.com, che costantemente distilla i 100 portafogli al top della performance, su cui poi muovere i titoli del proprio fondo arrivato a 60 milioni di dollari di valore sottoscritto. Per non parlare delle iniziative open source, nella nicchia (ormai una delle tante) dei sistemi operativi: tutte coalizzate nell’attacco all’imperante Windows, anche se divise nelle strategie (l’opposizione ideologica stile peer power di www.gnu.org, il ceppo originale che fa capo al carismatico Richard Stalman; l’attacco fondato sul modello di business “software come servizio”, Linux in una parola, come stile vicino alla peer producton, irrobustita nei servizi da mani forti di concorrenti a Microsoft).

La produzione peer: come le folle intelligenti collaborano
Le folle in rete, che diventano intelligenti coagulandosi attorno a un loro interesse, possono averne maggiore o minor consapevolezza, ma hanno già un potere di giudizio impensabile fino a poco tempo fa, che è strategico per l’establishment perché intrinsecamente non antagonista e capace di incidere positivamente in diversi ambiti della catena del valore. E’ quanto osserva C.K. Prahalad, professore alla B-School, Università del Michigan, ne “Il futuro della concorrenza: la co-creazione di valore insieme ai consumatori”. I search di milioni di consumatori su Google o Yahoo creano combinazioni di centinaia di milioni di pagine web, la cattura e intelligenza dei cui risultati costituisce un sofisticato strumento di polling delle richieste e del giudizio collettivo dei consumatori, oltre beninteso a determinare un elevato valore commerciale degli annunci pubblicitari supermirati all’interesse della ricerca, un mercato multimiliardario che fa premio sulla tradizionale pubblicità su carta stampata.
La partita della co-creazione di valore, già in pieno svolgimento fra Corporation e folle intelligenti, va assolutamente al di là del banale “se non puoi batterli unisciti a loro”: ha per posta lo sfruttamento come vantaggio competitivo della saggezza e competenza delle masse di persone, non solo sulla pubblicità con Google e Yahoo, ma praticamente in tutti gli ambiti della catena del valore. Con effetti che, se hanno successo, non influenzano le sole folle intelligenti, ma si riverberano sulle Corporation stesse, che prendendo atto che “le reti diventano il luogo dell’innovazione” si autocondizionano a diventare “più porose e decentralizzate, (stiamo citando W.W. Powel, professore a Stanford di Organizational Behavior, Sociologia e Comunicazione).
Un’impressionante carrellata di idee in proposito di produzione peer, applicate con successo dall’R&d, alla produzione, al marketing, alle vendite, ce la offre Business Week, da cui riportiamo alcuni esempi. R&d: P&g, con una politica di progressivo outsourcing (in tre anni i nuovi prodotti derivati dall’esterno sono passati dal 20 al 35%), ha incrementato le vendite per addetto R&d del 40%. Come? Avvalendosi, fra gli altri, della rete di 80.000 ricercatori indipendenti di www.innocentive.com, che mette in contatto i “seeker” che hanno un problema con i “solver” che hanno una soluzione. Produzione: la società di giochi virtuali Lindelab (www.lindenlab.com) propone un gioco, Second Life, in cui vende ai partecipanti online (oltre 25.000) “terra virtuale” in cui ciascuno si costruisce tutto sulla “sua” seconda vita, dai personaggi, ai luoghi, agli oggetti. Il totale di ore di costruzioni utili per gioco, già oltre le 6.000 ore al giorno, anche assumendo che solo il 10% dei giocatori costruisca qualcosa con un senso e riusabile da Lindenlab, equivale al lavoro di un gruppo dedicato di oltre 100 persone in una società di giochi tradizionale. Marketing: la famosa Lego (www.lego.com) ha piazzato in meno di due settimane 10.000 pezzi della favolosa locomotiva modello “Santa Fe Super Chief”, dopo aver sondato in rete 250 appassionati, con spese di marketing vicine a zero. Vendite e previsioni di vendita sono forse il campo dove la “saggezza delle folle” ha il maggior potenziale: i pianificatori di Hp e di Eli Lilly hanno fatto acquistare a propri dipendenti azioni virtuali che riflettevano una gamma di forecast a livelli superiori, uguali o inferiori a quelli ufficiali dell’azienda, con risultati, nel caso di Hp di un miglioramento del 50% nella capacità previsionale del sempre difficile primo trimestre, e nel caso di Eli Lilly di azzeccare la previsione dell’esito, prima del suo rilascio, di una sentenza su una medicina da mettere in circolazione sul mercato.

La responsabilità dei consumatori
Ma il pensiero di gruppo è sempre potenzialmente superiore a quello dell’individuo, per magica virtù statistica? La domanda non è peregrina e i vari accademici citati snocciolano i rischi: primo fra tutti quello che la collaborazione di massa nel campo di interesse produca mutui condizionamenti con appiattimento sulla linea del “gruppo pensiero”, la cui prima vittima potrebbe essere l’innovazione stessa (si dubita che la folla intelligente sia un habitat favorevole a intuizioni di geni solitari come Darwin o Einstein). Poi il “lato oscuro”: le folle intelligenti con scopi non etici, un esempio su tutti, i gruppi terroristici. Ma in terzo luogo, emerge il rischio di folle che seguono logiche appunto di mobbing virtuale, mettendosi di traverso alla creazione comune di valore, non solo con Corporation, ma con autorità regionali, governative o transnazionali. Sui mercati azionari, le folle intelligenti potrebbero trasformarsi in “orde che amplificano movimenti momentanei di compravendita”. Sempre Business Week riferisce di una “rivolta” di appassionati di bicicletta, che hanno fatto circolare in rete un video sul modo con cui si riesce ad aprire con una penna a sfera gli antifurti per bici della ditta Kryptonite, costringendola a una spesa di 10 milioni di dollari per sostituirli.
Economisti e sociologi concludono comunque a un di presso con una nota di ottimismo. Per tornare al nostro filo rosso, se alle folle dall’intelligenza e dall’autocoscienza viene il potere, ne verrà anche la responsabilità: le folle intelligenti di consumatori siamo noi, o lo diventeremo con l’avanzare della collaborazione di massa. Daremo un rating di un venditore su eBay, potremo contribuire a una voce di Wikipedia, confronteremo presto i prezzi di libreria con quelli di Amazon semplicemente facendo lo scanning di un codice a barre su un cellulare, useremo se non usiamo già software open source. La somma di un’infinità di piccole azioni collaborative come queste sposterà su nuovi equilibri i rapporti di forza fra produttori e consumatori, con vantaggi per questi ultimi, contestualmente però chiamati, proprio dalla consapevolezza dell’estendersi del loro potere, a una maggior responsabilità di giudizio e scelta. Si allargherà in definitiva l’area che la cultura legale anglosassone chiame dei “Common”, del bene percepito come comune dai cittadini. Il paradosso è semmai proprio questo: che mentre i common reali come l’aria, l’acqua o il verde sono a rischio per il prevalere egoistico dell’interesse individuale, i common virtuali sembrano destinati a proliferare come letto di catalisi della collaborazione di massa che spinge l’ascesa dei consumatori “responsabili”.

VoIP peer versus telecom
Di sicuro il più risonante effetto della collaborazione di massa sull’establishment è la minaccia di Skype allo stesso modello di business delle telecom fisse e soprattutto mobili. La recente e clamorosa acquisizione di Skype da parte di e-Bay per 2,6 miliardi di dollari non allontana certo la minaccia. Dal suo punto di vista, Meg Whitman, Ceo di e-Bay, con i bottoni Skype al posto giusto sulle pagine e-Bay può “ridurre la frizione” tra acquirente e offerente, consentendo al primo di chiamare il secondo e concludere un affare a voce; e può offrire pubblicità telefonica mirata “pay per call” a carico dell’ente chiamato, analoga al pay per click dei link pubblicitari di testo, vedi Google. Ma l’affare l’ha fatto il piccolo Skype che, copertosi le spalle con una società che lo vede complementare e lo lascia largamente libero di perseguire il suo brand, punta ad estendersi dall’attuale piattaforma VoIp (fra computer peer, fra computer e telefono, SkypeOut, o fra telefono e computer, SkypeIn) e a diventare “la miglior piattaforma per voce, testi e video” sempre nelle tre varianti, peer, In e Out”. E intanto, sul piede di 150.000 nuovi utenti al giorno del proprio software peer VoIp, senza costi marginali (l’utente mette in comune potenza e banda), né spese di marketing (gli utenti si invitano l’un l’altro), mantiene così il fatturato (60 mlioni di dollari all’anno) e punta a massimizzare il numero di utenti catturati. È una politica del fatturato minimo per utente (2 centesimi di dollaro al minuto per SkypeOut, o servizi voicemail), che è l’esatto opposto del modello centralizzato telecom, che è di massimizzare l’Average Revenue Per User. E questo, dice Rich Tehrani, fondatore della rivista Internet Telephony, ha un’unica conseguenza possibile: “un futuro in cui le telefonate, vicine o lontane, saranno gratuite, indipendentemente dalla durata” e l’unica cosa che servirà saranno indirizzi di voice-mail (come gli attuali indirizzi di e-mail) al posto dei numeri di telefono che cadranno in disuso.
A parte le previsioni di un’utenza VoIp in crescita dai 54 milioni di sottoscrittori odierni (per il solo Skype) a 197 milioni nel 2010, tra Skype, Vonage o altri provider VoIp, secondo l’Economist ben prima di allora entrerà in crisi il modello di business delle telecom (fisse o mobili), basato su distanza e durata, che sono irrilevanti in VoIp. E il principio generale è che i più danneggiati saranno gli operatori che più resteranno dipendenti dalla voce. Diverse le strategie difensive delle telecom fisse: o legare (bundling) i servizi voce per esempio con la Tv digitale, o integrare servizi fissi e mobili o riuscire ad offrire Voip con reti di nuova generazione. Si farà sentire la concorrenza degli operatori di Cable Tv che, già su base banda larga, sono in grado di offrire telefonia a basso costo. Lo scontro fra i due contendenti per tenere i clienti fidelizzati dovrebbe favorire a maggior ragione un’accelerazione verso servizi voce gratuiti, magari finanziati da altri servizi del pacchetto offerto.
Quelli di sicuro messi peggio sono gli operatori mobili, il cui business è quasi tutto voce e che oggi non riescono ad offrire banda larga. Troppo si è fatta attendere la rete 3G che avrebbe consentito servizi dati compensativi del declinante fatturato voce; e oggi sembra di colpo tardi, perché la transizione alle reti 3G oltre ai servizi dati degli operatori mobili, abilita ormai anche VoIp a chiamare in rete mobile. C’è già un esempio, e-Plus, operatore mobile tedesco che ha annunciato di consentire ai suoi utenti l’uso di Skype sulla sua rete 3G.


LE PIATTAFORME PER CREARE E GENERARE WIKI
Nel 1995 Ward Cunningham creò WikiWikiWeb, non un manuale ma uno strumento per scrivere un manuale: non scritto non da lui, ma scritto da tutti quelli che avevano voglia di mandare contributi per scriverlo. Nel 2001 Jimmy Wales fondò Wikipedia, un’enciclopedia che viene scritta collaborativamente da migliaia di membri della comunità online. Questa, in due frasi, la storia dei wiki. Per soddisfare la fame di wiki di Internet sono nati Swiki.net, Seedwiki, Editme, Mediawiki e tante altre piattaforme che consentono di creare e gestire wiki. Il grande pregio dei wiki è che riducono la barriera che divide produttore e consumatore di un documento. Il successo popolare di questa semplice idea sta inducendo diversi personaggi a creare prodotti basati sulla stessa filosofia, fornendo la security e il supporto di cui le grandi organizzazioni hanno bisogno. Socialtext (
www.socialtext.com), fondata nel 2002, ha interpretato i wiki come la nuova onda di groupware. In fondo, si tratta di far collaborare persone che sono competenti della stessa materia: l’uno raffina il contenuto dell’altro. Con il groupware tradizionale, c’è una persona incaricata di produrre un documento (o quello che è); questa persona produce il primo draft e poi lo fa circolare ai colleghi che possono aver qualcosa da aggiungere. Con Socialtext, chiunque può iniziare un nuovo documento e poi, senza bisogno di smistarlo, informare il resto dell’organizzazione che cerca contributi per completare o raffinare quel documento. Chi si sente competente, può direttamente editare il documento così com’è. Il risultato è alla fine lo stesso che si ottiene con il groupware tradizionale, ma tipicamente implica meno burocrazia, e pertanto incoraggia a correggere/aggiungere/migliorare i documenti: invece di mandare un’email al possessore del documento spiegando cosa vorrei cambiare, posso farlo direttamente. Il costo di Socialtext viene ampiamente ripagato dal fatto di non dover più aver bisogno di groupware (come Ibm Lotus Notes o Microsoft SharePoint) e del wordprocessor (a meno che uno non voglia alla fine garantire compatibilità con le tradizionali applicazioni d’ufficio come Word).
Un’altra giovane società che vuole trasformare i wiki in una piattaforma per lo sviluppo di applicazioni è JotSpot. L’idea è la stessa e forse non meriterebbe tutta la pubblicità che ha ricevuto (duemila società si sono iscritte al programma di beta test nel primo mese di vita di JotSpot), ma i fondatori sono celebri: Joe Kraus e Graham Spencer, che fondarono Excite (uno dei motori di ricerca che era in voga prima che Google spiegasse a tutti cosa il pubblico voleva). JotSpot consente anche di inviare semplici messaggi via email al documento che la comunità sta creando: il messaggio non diventa parte del documento, ma rimane collegato al documento. La metafora è che il documento diventa un ”inbox” (una casella postale). È una metafora che forse piacerà ai manager più anziani che non hanno mai usato un editor o un wordprocessor e pertanto non si trovano a loro agio nell’editare un documento collaborativo.
Piero Scaruffi


BLOG SEARCH E VIDEO SEARCH
L’esplosione dei blog (pare ce ne siano 15 milioni solo negli Usa, non male per un paese che ha 280 milioni di abitanti) è uno dei fenomeni più sorprendenti degli ultimi anni. Pare che stiano prendendo il posto dei “talk show” della radio e della tv, a giudicare da recenti polls in cui una percentuale significativa di americani dichiara di leggere i propri blog preferiti almeno una volta al giorno, e, in casi di emergenza, come Katrina, di passare la giornata a spulciarli. L’altra faccia del fenomeno è ovviamente che ci sono milioni di sviluppatori di blog, di persone che passano la giornata ad aggiornare il proprio blog. I motori di ricerca più blasonati, Google e Yahoo, non ce la fanno a racimolare i cambiamenti in tempo reale. Essendo stati progettati per spazzolare miliardi di website in maniera più o meno metodica, non hanno il concetto di offrire l’aggiornamento istantaneo. La popolarità dei blog e le carenze delle search engine classiche offre un’opportunità a società come Technorati, Feedster, IceRocket, BlogPulse che sono specializzate nel catalogare blog. Il loro vantaggio è che non cercano di catalogare tutti i website del mondo, ma soltanto i blog che ritengono significativi. Peraltro ciascuna di esse vanta di monitorare in tempo reale più di dieci milioni di blog.
L’idea è relativamente semplice. Google, naturalmente, può fare, e infatti fa, la stessa cosa. Il trucco sta nel riuscire a catalogare più blog degli altri e Google, in teoria, dovrebbe essere relativamente lento: considera infatti un blog come un website qualsiasi, ergo lo assorbirà in un lasso di tempo pari a quello impiegato per assorbire un nuovo website (talvolta mesi). L’idea di queste search engine orientate ai blog è di scovare tutti i blog, e soltanto blog, e di seguirli minuto per minuto. Per riuscirci, ques i blog sono “hosted” da servizi come Blogger e LiveJournal, oppure dai maggiori servizi di webhosting, e questi servizi in genere offrono la feature di “ping” che informa chi lo desidera quando un blog viene cambiato. Queste search engine si iscrivono a tutti i blog, ricevono un ping ogni volta che uno cambia e si attivano per assimilare il nuovo testo pubblicato sul blog.
La stragrande maggioranza delle video search (comprese quelle dei motori di ricerca più celebri) non fanno altro che cercare testi associati a video. Sulla base del testo, determinano se il video è quello cercato.
Ma naturalmente ciò non ha nulla a che vedere con la ricerca visuale. L’occhio umano che cerca la foto di un attore non si limita a leggere le didascalie sotto le fotografie: esamina le foto. Truveo ha realizzato una vera search engine per video, Visual Crawler, che cerca il contenuto basandosi sulle caratteristiche visive di un’immagine. Così Google può trovare centinaia di pagine che hanno un video di Angelina Jolie, ma in realtà nessuno dei video è particolarmente significativo, mentre Truveo dovrebbe elencare i video in un ordine che rappresenta quanto l’immagine di Jessica Alba è protagonista del video. Blinkx.com fa già qualcosa di simile e offre in più l’integrazione dei risultati testo, video e audio: in altre parole, trova sia le pagine che trova Google, eventuali segmenti audio trasmessi dalla radio o video-clip trasmessi dalla tv. Il problema maggiore della ricerca video è catalogare i video trovati su internet. Non è banale costruire un indice “cercabile” (all’interno del quale è possibile compiere ricerche intelligenti), ovvero trasformare pixel in metadati.
Piero Scaruffi


…E I CONSUMATORI IN ITALIA?
Recentissimo, in occasione della presentazione a Milano di un Innovation Store Intel-Euronics, il rilascio alla stampa da parte di Carlo Parmeggiani (Consumer Marketing Manager Intel Italia) di uno studio commissionato a Consumer Analysis Group su come la tecnologia ha modificato lo stile di vita degli italiani alla data. L’indagine è stata condotta su un campione della T (technology) Generation: 9000 intervistati in Europa, di cui 1012 in Italia (48% uomini, 52% donne).
Lo studio è rivolto in generale alla penetrazione delle tecnologie da noi. Risulta che “amiamo” la tecnologia: l’indagine ci assegna un 83% fra “entusiasti ed appassionati”, contro l’81% di UK e Olanda, 75% di Francia, 65% di Spagna e Svezia, 55% di Germania.
Con la tecnologia ci stiamo orientando verso una casa sempre più digitale. La usiamo nei nostri comportamenti sociali. Sembra di intravedere per lo meno premesse se non indizi del nostro potenziale ad aggregarci in gruppi di consumatori intelligenti. Positivi in quest’ottica i pesi delle risposte alla domanda sui servizi Internet che usiamo: al 91% cerchiamo informazioni (non meglio precisate, ma si suppone in buona parte su Yahoo e Google almeno in partenza), al 79% ascoltiamo notizie, al 63% prenotiamo biglietti, al 49% scarichiamo musica, al 37% usiamo le chat e al 31% giochiamo online. Speriamo solo di essere non solo bravi a farci penetrare come mercato da queste tecnologie, ma anche capaci di dispiegare tutta la nostra italica fantasia in iniziative ed aggregazioni peer a valore aggiunto che diano una mano, oltre ai nostri consumi, alla nostra economia. (R.M.)

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