Informazioni e performance. Le imprese italiane verso il Bpm

Con oltre 400 vendor che operano in questo segmento di mercato, il Business Performance Management, nelle sue molteplici definizioni, sembra rappresentare una visione coerente per consentire alle imprese di affrontare le sfide del mercato. si tratta però di soluzioni complesse da realizzare e, per questo, non risultano ancora così diffuse. Guardiamo lo scenario, individuandone le possibili evoluzioni

Pubblicato il 02 Feb 2005

Qualcuno il conto lo ha già fatto, e ha trovato che sono circa 400, compresi anche quelli meno noti, i vendor che operano nel mercato del Business Performance Management (Bpm) proponendo le più svariate piattaforme, architetture, framework e soluzioni per affrontare problematiche che vanno dallo "strategic management" alla "corporate governance", dal "performance measurement" al "customer profitability management", il tutto sotto l’ombrello di sigle sostanzialmente equivalenti quali Bpm, Cpm, Epm o Spm.
Vendor che non appartengono soltanto al settore della business intelligence, come potrebbe sembrare logico, ma anche a quello degli Erp, dell’Eai (Enterprise Application Integration), dell’accounting economico-finanziario e persino del Crm. Tutti ovviamente interessati a sfruttare le opportunità offerte dalla più promettente evoluzione dell’informatica aziendale (così viene ormai considerata), spinta dal numero sempre crescente di fattori che influenzano il modo di fare business: la globalizzazione e la contemporanea frammentazione dei mercati, la proliferazione dei prodotti e la riduzione del loro ciclo di vita, il diffondersi di nuovi canali commerciali e, magari, anche la necessità di gestire in modo efficace le richieste di "compliance" (conformità) dei dati aziendali alle normative che sempre più spesso vengono emesse da organizzazioni di ogni genere.
Fattori che stanno rendendo sempre più pressante, per i manager, non solo la necessità di avere strumenti capaci di rappresentare nel modo più completo possibile le situazioni aziendali, ma anche di metterli nelle condizioni di seguire, e di far perseguire al meglio, gli indirizzi strategici che di volta involta vengono definiti. Proprio quello di cui le soluzioni di Bpm, almeno sulla carta, sembrerebbero capaci, consentendo il passaggio dalle attività di pianificazione a quelle di esecuzione attraverso meccanismi in grado di creare solidi legami fra le intuizioni del top management e l’operatività di tutti coloro che lavorano in azienda.
"Perché – come osserva Gary Cokins, Sas Strategist per le soluzioni di Performance Management, e autore del libro Performance Management: Finding the Missing Pieces (To Close the Intelligence Gap) – se la principale responsabilità del top management è quella di definire le strategie dell’azienda, la sua maggiore sfida consiste nel comunicarle correttamente. Tanto più un obiettivo viene compreso e condiviso dalle persone che in essa lavorano, tanto migliori saranno i risultati ottenibili in termini di performance".
Che è poi anche il fine ultimo del Bpm nella sua accezione più ampia: aggiungere valore alle attività di business delle aziende ponendo continua attenzione al come queste definiscono e implementano le loro strategie, legandole in modo diretto alle attività delle singole persone e tenendo presenti, oltre alla dimensione economico-finanziaria, anche gli aspetti del mercato in cui operano, la gestione dei loro processi interni e la loro capacità di apprendere e di innovare. Impiegando a questo fine metodologie, sistemi e metriche che non costituiscono un’assoluta novità, tranne il fatto che solo recentemente si è incominciato a pensare che potevano essere utilizzate in una prospettiva più ampia e articolata rispetto al passato. E, sopratutto, rendendosi conto che le strategie da una parte, e la loro esecuzione dall’altra, sono i due elementi in grado di determinare effettivamente le performance globali delle aziende.

Un obiettivo a tendere
In realtà, nonostante le attese che si sono andate generando attorno al Bpm, la sua diffusione nelle aziende, anche in quelle che vantano una buona esperienza di utilizzo degli strumenti della Bi, è ancora piuttosto limitata e, almeno per il momento, prevalentemente rivolta a supportarne le attività di tipo economico-finanziario.
Secondo Idc, all’interno del Bpm possono essere individuate quattro principali categorie di applicazioni: Dashboarding e Balanced Scorecarding, impiegate per monitorare i key performance indicator legati agli obiettivi strategici delle aziende (e che, almeno in Europa, contribuiscono con il 2,4% alla spesa totale per le cosiddette Business Analytics – vedi, a pag. 73, l’intervista a Robert Kaplan, ideatore delle balanced scorecard); il Planning e il Budgeting, riguardanti le attività di pianificazione finanziaria di tipo strategico e operativo (che concorrono alla suddetta spesa per il 3,2%); il Consolidation, orientato al supporto dei processi di reporting e di consolidamento finanziario (che concorrono per il 2,0%) e, infine, alcuni particolari applicazioni, tra le quali l’Activity-Based Costing, utilizzate per effettuare sofisticate analisi finanziarie (che concorrono per lo 0,6%).
Percentuali piuttosto basse, che non consentono ancora di definire ‘mainstream’ il Bpm. Considerazione, questa, che ci ha spinto a cercare di capire se ci sono, ed eventualmente quali sono, gli inibitori che si oppongono ad una sua più rapida diffusione. Un tema che abbiamo proposto a Paolo Pasini, professore di Sistemi Informativi Aziendali presso l’Università Luigi Bocconi di Milano e vicedirettore dell’Area Sistemi Informativi della Sda Bocconi (in rappresentanza, in un certo senso, della domanda), e a Fabio Bianco, Marketing Director di Business Objects Italia (per una vision dal lato offerta).
"Da oltre un anno – spiega Pasini – abbiamo incominciato a osservare con attenzione il fenomeno Bpm, cercando di definirne meglio i confini e dedicando ad esso alcune specifiche iniziative. Attività dalle quali abbiamo ricavato alcune osservazioni di carattere generale. La prima è che il Bpm viene ancora considerato uno strumento proprio del top-management, un’idea che molti si fanno soprattutto quando si parla di cruscotti o di ‘tableau de bord’. E questo, pur essendo conseguenza di un profondo equivoco, ha costituito e tuttora rappresenta un grande limite alla sua diffusione. La seconda – prosegue Pasini – è che vi sono molte aziende (tra le quali anche grandi gruppi italiani e internazionali) che considerano il Bpm una sorta di "fiore all’occhiello" delle analisi di tipo economico-finanziario. Questo, a nostro avviso, è un altro grande malinteso, alimentato in molti casi dagli stessi vendor i quali, spesso in relazione anche alla loro storia, lo propongono appunto come una estensione di quelle analisi. Lo stesso Balanced Scorecarding (Bsc), che per certi aspetti ha fatto da apri-pista al Bpm, deve essere considerato un fenomeno un po’ anomalo in questo discorso: molti pensano infatti al Bpm come a uno sviluppo, a un ampliamento del Bsc. La terza considerazione – dice infine Pasini – è che il Bpm, il quale propone in realtà un approccio di tipo globale alla gestione del business, fino ad oggi è stato invece per lo più impiegato con una visione settoriale, in progetti che non misurano le performance dell’azienda nel suo insieme, ma solo quelle di alcune sue parti, come ad esempio il Marketing o l’It (due aree dove abbiamo visto nascere con maggior frequenza progetti di Performance Management), per cui in effetti si dovrebbe piuttosto parlare di Marketing-Pm o di It-Pm: progetti anche interessanti, ma molto focalizzati, che non traguardano l’azienda nel suo complesso".

Gary Cokins
Sas Strategist per le soluzioni di Performance Management

Paolo Pasini
professore di Sistemi Informativi Aziendali presso l’Università Luigi Bocconi di Milano e vicedirettore dell’Area Sistemi Informativi della Sda Bocconi

Fabio Bianco
Marketing Director di Business Objects Italia

Il punto di vista del vendor
"È vero che i vendor – osserva Bianco – sono portati a dare proprie interpretazioni del Performance Management, fino a giungere all’estremo attuale dove ognuno ritiene di dover usare un acronimo diverso. Noi ad esempio parliamo di Epm (dove la E sta per Enterprise) perché vogliamo mettere in evidenza come quella che in definitiva è un’evoluzione della Bi, stia assumendo una sempre maggiore strategicità circa il modo di impiegare l’informazione a supporto del processo decisionale dell’impresa nel suo complesso. Riteniamo infatti sempre più necessario che le diverse funzioni aziendali cooperino nell’atto decisionale, e siamo convinti che questa cooperazione stia facendo assumere alla Bi il ruolo ancora più importante di strumento capace di fornire una singola versione della verità."
Bianco prosegue spiegando che questo, assieme alla richiesta di concretezza è ciò che alla fine è per Business Objects il Performance Management: un utilizzo intelligente della Bi che permette di legare gli obiettivi strategici dell’azienda a quelli settoriali, impiegando strumenti sia di lavoro sia di cooperazione in grado di rendere l’informazione ‘actionable’, di diventare cioè azione: "Si tratta comunque di un’attività complessa, che coinvolge diversi ambiti e che non può essere affrontata solo con un approccio tecnologico, ma per la quale è necessario avvalersi di figure come quelle dei consulenti e dei system integrator".

Top-down o bottom-up?
Un assunto questo che propone immediatamente un altro importante tema di riflessione: quale sia cioè il migliore punto di attacco per fare in modo che i concetti che informano il Bpm possano essere introdotti e fatti propri dalle aziende di un Paese "dove – come commenta Pasini – le strategie non siamo molto abituati a definirle con chiarezza."
"Effettivamente ci possono essere delle difficoltà – continua Bianco – che sono tanto maggiori quanto più l’organizzazione considerata è grande e complessa. Gli approcci possibili sono in fondo solo due: il top-down e il bottom-up, e non è sempre facile capire quale sia il migliore. La nostra esperienza ci consente di affermare che l’approccio top-down è più raro di quello bottom-up, sia pure con qualche distinguo. La modalità bottom-up è infatti più facile da affrontare per svariate ragioni: perché di solito non richiede importanti e immediati investimenti in termini di Eai; perché quando si cerca di definire una strategia unica per l’azienda molti nodi possono venire al pettine; ed anche perché, almeno nell’attuale situazione economica, quasi nessuna azienda si avventura in progetti che possano avere durate superiori a pochi mesi."

Una metodologia per il Bpm
"Il fatto che sia difficile definire quale dei due approcci sia il migliore – riprende Pasini – ci ha spinto ad andare a cercare più a monte ulteriori indicazioni. E questo ci ha portato a formalizzare una sorta di metodologia, basata su 40 punti, per valutare quella che noi chiamiamo la ‘readiness’ dell’azienda al Bpm, per capire cioè quanto questa sia preparata ad affrontare l’impegno che un progetto del genere inevitabilmente richiede."
Cinque sono gli aspetti che vengono presi in considerazione. Innanzitutto quelle che Pasini definisce le "precondizioni di carattere strategico", che consentono di valutare quanto le strategie di un’azienda siano pianificate, formalizzate ed esplicitate. Seguono le "precondizioni di carattere organizzativo", attraverso le quali si cerca di capire in che misura il Bpm potrà impattare sull’accentramento-decentramento del potere aziendale, sul ruolo del controller, sullo stato delle persone. Si vanno poi a esaminare i sistemi amministrativi e di controllo dell’azienda, per vedere se e come si fa il budget, se esistono procedure di forecasting, come vengono calcolati i margini e quant’altro. Al quarto punto vengono considerate le "precondizioni di carattere informatico": che tipo di sistemi ha l’azienda, qual è il suo portafoglio di applicazioni, se dispone di un Erp, se il suo Crm è effettivamente operativo. Infine, al quinto punto, vengono valutate le "precondizioni di progetto", perché l’implementazione di un Bpm deve essere gestita con logiche progettuali serie.
"Questo è lo schema che usiamo per fare l’analisi dell’azienda, per capire se e da dove può incominciare con il suo progetto di Bpm, quali sono le priorità che deve tenere presenti e anche per rispondere alla domanda se sia meglio l’approccio top-down piuttosto che quello bottom-up. Una scelta che è giusto mettere in discussione, anche perché la stragrande maggioranza del management, soprattutto se non appartiene all’It, tende a privilegiare la visione top-down. Però io insisto spesso sul fatto che non è per niente scontata la necessità di partire dalle strategie (e quindi da una visione top-down), anche perché altrimenti la nostra Pmi verrebbe immediatamente tagliata fuori tutta", conclude Pasini.

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