Pagine viste, utenti unici, frequenza di rimbalzo, nuovi visitatori, tempo di permanenza medio: il web sembra essere una scienza esatta, un media perfettamente misurabile in termini quantitativi, che non lascia adito a dubbi sui ritorni delle iniziative online e sulla creazione di valore per il business. Ma le logiche di tecnologie disruptive come i blog e i social network, a partire da Facebook e Twitter, complicano inevitabilmente questo scenario, caratterizzato sia dalla mancanza di metriche condivise e definite per calcolare il successo delle campagne in Rete sia dalla raccolta di grandi quantitativi di dati che, senza un chiaro contesto di riferimento e specifiche competenze sulle dinamiche di Internet, rischiano di rimanere sterili e incomprensibili ai decision maker aziendali. Come si sviluppa allora un piano corretto di comunicazione digitale volto a costruire la reputazione nelle community e la diffusione virale dei contenuti? E soprattutto, quali sono gli indicatori da tenere in considerazione per misurare l’efficacia delle attività online e strutturare programmi coerenti alle strategie di marketing e delle Lob? Ha senso parlare in questo ambito del tanto mitizzato Return on investment (Roi) oppure bisogna allargare l’orizzonte valutativo ad altri strumenti di monitoraggio e intelligence? Su questi temi e interrogativi, ZeroUno ha intervistato Daniele Chieffi, giornalista e addetto alle online media relations per un’importante realtà italiana del finance, autore di numerosi libri sulle dinamiche di Internet, con un passato da docente presso l’Università Cattolica di Milano e la Business School del Sole 24 Ore.
Attivita’ quotidiana e incessante
“Innanzitutto – esordisce Chieffi – vorrei fare una distinzione tra digital marketing e online media relation, due attività che pur utilizzando sostanzialmente lo stesso set di strumenti e facendo leva su skill analoghi, ovvero la capacità di stringere relazioni, innescare viralità, creare interazione, si pongono obiettivi diversi. Nel primo caso, infatti, la mission è convincere le persone ad acquistare un bene o usufruire di un servizio, mentre, nell’altro contesto, il fine è costruire il rapporto con gli stakeholder e gli influencer della Rete, che godono di un certo grado di autorevolezza presso gruppi di utenti. Due approcci sinergici, che sono, l’uno rispetto all’altro, condizione necessaria e non sufficiente”. Con le media relation, insomma, si prepara il terreno, con il marketing si affonda il colpo.
Aprire la strada per creare brand awarness e pilotare le decisioni di acquisto richiede un’attività quotidiana e incessante, che si sviluppa principalmente su tre fasi. In primis, bisogna dedicare tempo e risorse nella creazione e nel rafforzamento delle relazioni con i media professionali e non, dal quotidiano nazionale al blog, interagendo direttamente sulle loro stesse piattaforme di comunicazione (per esempio, contribuendo alle conversazioni con commenti di interesse per il pubblico di riferimento), così da costruire un’identità riconosciuta e accettata all’interno della community. “La seconda parte del lavoro – argomenta Chieffi – riguarda il monitoraggio dei media per verificare quanto e cosa scrivono a proposito del brand oggetto di promozione, valutando i risultati anche alla luce di una precisa gerarchizzazione degli influencer: conta infatti molto di più il loro grado di autorevolezza all’interno di un gruppo piuttosto che l’ampiezza dell’audience a cui si rivolgono”. Infine, arriva il momento dell’azione con finalità reattive (per esempio, si chiede agli influencer di rettificare le informazioni negative o fuorvianti pubblicate sull’azienda) o proattive (si innescano meccanismi di push per spingere su determinati aspetti della comunicazione).
Misurare l'attività social
Misurare l’atività social è certamente complesso, quali sono le possibilità offerte dalla tecnologia? “Soluzioni ce ne sono – afferma Chieffi – e di diverso tipo. Io stesso, insieme a un fornitore di tecnologia, ho messo a punto una piattaforma di monitoraggio tailor made, ma abbastanza flessibile da essere estesa a vari contesti, che permette un controllo a tappeto dei media influenti attraverso il passaggio degli spider, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, secondo regole di priorità predefinite. A ogni influencer, infatti, viene attribuito un punteggio da 1 a 10, in base alla sua capacità di ingaggio, ovvero di condizionare e mobilitare l’opinione e il comportamento dei suoi follower”.
La piattaforma di Chieffi, sostanzialmente, funziona così: attraverso la creazione e l’analisi dei grafici che riportano la frequenza delle citazioni relative all’azienda (brand, prodotto e così via) sui vari siti, si definisce l’universo web di riferimento dove andare a intensificare l’attività di monitoraggio fino ad arrivare a quei media di confine dove il numero delle segnalazioni tende allo zero. All’interno di questa sfera virtuale, un algoritmo identifica tutti gli influencer, dal portale di news all’utente social, che vengono classificati sia secondo le tipiche counting metrics (pagine viste, numero di follower eccetera) sia in base al rating indicatore della loro efficacia persuasiva: più un media è autorevole e maggiore sarà la frequenza con cui gli spider andranno a scandagliare i contenuti pubblicati nell’arco della giornata. Non su tutti i siti è necessario un controllo in real time e questo modello gerarchizzato permette di ridistribuire correttamente e ridimensionare le risorse di banda e di calcolo necessarie alle attività di monitoring, con una riduzione dei costi e una maggiore focalizzazione sulle priorità. Un sistema di alert via email o Sms, infine, avvisa i responsabili delle media relation sui contenuti pubblicati, che, a seconda del caso, vengono analizzati e semplicemente archiviati oppure danno seguito ad azioni di tipo correttivo se propongono affermazioni lesive per la brand reputation. Attraverso una dashboard è possibile effettuare, da parte di una redazione specializzata, una serie di ricerche sul sentiment che si è venuto a creare attorno al marchio. “Non credo – sostiene Chieffi – che sia possibile fare eseguire in automatico da una macchina un’analisi qualitativa e semantica dei contenuti: il tasso di errore sarebbe troppo alto perché occorre un’intelligenza umana per capire il taglio e il tono di una notizia, opportunamente inserita all’interno di un mood di contorno”.
Secondo Chieffi, solo il concorso di queste due attività di monitoraggio in chiave quantitativa e qualitativa restituisce una corretta dimensione della reputation aziendale: “Fare una valutazione dei ritorni di una campagna online basandosi solo sull’evidenza di dati numerici oggettivi è riduttivo. D’altra parte, non sono ancora stati definiti dei Kpi che tengano conto dell’aspetto qualitativo dei contenuti e siano in grado di misurare obiettivamente la percezione del pubblico. Un approccio possibile per il calcolo della reputazione potrebbe coniugare la misurazione della viralità di un contenuto nel web e il monitoraggio del sentiment sulle pagine social degli stakeholder, al fine di valutare se le attività di push e di comunicazione hanno realmente condizionato e modificato l’opinione degli influencer. Si stanno studiando degli algoritmi in grado di tradurre in valore economico le attività di media relation e brand reputation, ma ci troviamo ancora in una fase di sperimentazione. Fermo restando che è stata scientificamente provata dall’Istituto Prometeia di Bologna una stretta correlazione tra le oscillazioni dei titoli in Borsa e l’andamento della reputazione online delle aziende: migliore è la percezione degli utenti web, maggiore è il valore delle azioni”.
I presupposti verso un approccio più sistemico e strutturato alla brand reputation, quindi, ci sono. Ma come stanno rispondendo le aziende italiane alle nuove opportunità offerte dalle media relation online e più in generale dal digital marketing?
“Fare comunicazione sul web – asserisce Chieffi – costa decisamente meno rispetto alle campagne tradizionali. Il problema è una certa incapacità, soprattutto da parte delle piccole imprese b2c e in generale delle realtà b2b, di comprendere la necessità e i vantaggi di certi tipi di azione commerciale: in sostanza, queste organizzazioni non capiscono perché dovrebbero investire in attività di promozione digitale. Eppure, la situazione non è così negativa ed è stato già raggiunto un certo grado di consapevolezza: ormai le aziende sanno che la presenza su Internet oggi è un fattore indispensabile per la competitività. Bisogna esserci. Ma nel modo giusto”.
Si ringrazia Andrea Albanese, social media marketing manager, per la collaborazione