Social media marketing: misurare il ritorno di business

La sfida fondamentale per intraprendere consapevoli scelte di progetti online e di social media marketing è comprendere quali strumenti utilizzare e come farlo per raggiungere i target aziendali misurandone i risultati. Ecco alcuni spunti emersi da un recente appuntamento, il Social Media Marketing Day.

Pubblicato il 19 Set 2013

Sapere come comunicare nell’era dei social media è importante. Contattare e coinvolgere persone prima non raggiungibili con strumenti di comunicazione ‘tradizionali’ semplicemente ‘twittando selvaggiamente’, non garantisce certo i risultati attesi. Potremmo riassumere così, in estrema sintesi, ciò che è emerso dai numerosi interventi che hanno caratterizzato la giornata del Social Media Marketing Day tenutasi a Milano lo scorso giugno. Ad aprire i lavori, l’organizzatore Andrea Albanese, social media marketing manager (esperto e consulente) che spiega come “nell’era social e online, ogni singolo utente diventa una sorta di agenzia di comunicazione che propaga il proprio messaggio a un pubblico sempre più ampio, sconfinato”. Eppure, invita a riflettere Albanese, “c’è ancora una fortissima resistenza al cambiamento, soprattutto nei modelli di business, di comunicazione e marketing: in Italia gli utenti Twitter sono ancora pochi [ad oggi sono 4 milioni gli ‘utenti attivi’ in Italia, ossia che usano il social network in modo abituale, contro i 13 milioni di Facebook – fonte: Blogmeter, State of the Net 2013 ndr] e Facebook sembra aver rallentato la sua crescita; non solo, sul fronte pubblicitario, sono pochissimi gli utenti che ‘cliccano’ sulle pubblicità o i messaggi promozionali che appaiono all’interno di questi canali sociali”.

Andrea Albanese, social media marketing manager (esperto e consulente)

Questo perché, spiega Albanese, “la comunicazione e il marketing sul web in generale e sui social media nello specifico, richiedono competenze e approcci nuovi; non si possono semplicemente ‘replicare’ online messaggi e strategie tradizionalmente nate per l’offline”.
Ed è una sfida da affrontare ora perché, nonostante le evidenti difficoltà di riuscire a ‘fare business’ attraverso i canali sociali, questa può risultare molto promettente in termini di nuove opportunità. A dare un forte contributo a questo ‘quadro delle opportunità’ vi è senza dubbio il fenomeno della mobility, ossia il crescente utilizzo di dispositivi mobili su larga scala: dei 4 milioni di utenti attivi su Twitter, per esempio, 2,89 milioni twittano anche o esclusivamente da smartphone e quasi 1 milione da tablet (fonte: GlobalWebIndex). “I device digitali sono ‘psicoattivi’, hanno cioè un impatto psicologico sull’esperienza utente molto forte: siamo sempre connessi e il device è diventato lo strumento con cui esprimiamo e comunichiamo le nostre emozioni al mondo. E i social network amplificano l’esperienza utente”, commenta Albanese.

Gli acquisti si fanno ‘social’
Al di là delle analisi filosofiche, però, la ‘rivoluzione social’ assume un significato ancor più importante se la si rapporta al business, in particolare all’e-commerce. “Il social, infatti, sta pesantemente entrando nel processo di acquisto dei consumatori e lo sta modificando”, spiega Roberto Liscia, presidente del consorzio Netcomm. In un anno (da aprile 2012 a oggi) gli acquirenti online attivi in Italia hanno registrato una crescita del 50% (a fine aprile 2013 ammontavano a 13,6 milioni, secondo i dati dell’Osservatorio eCommerce B2c Netcomm – School of Management del Politecnico di Milano); analizzando i comportamenti di acquisto è emerso che il 55% delle persone si informa online per gli acquisti, il 30% compra direttamente online, il 62% condivide poi via web la propria esperienza di acquisto”.

Roberto Liscia, presidente del consorzio Netcomm

Dati significativi che devono far riflettere le aziende: “Gli utenti che acquistano via web non solo modificano l’andamento e l’evoluzione del canale e-commerce ma, come conseguenza diretta, modificano anche i processi di vendita offline che devono essere ‘rivisti’ sula base dei nuovi trend e dei nuovi comportamenti degli utenti”, invita a riflettere Liscia. “Non solo: le aziende devono tenere conto del fatto che il gradimento di chi acquista online, a livello europeo, è oggi molto alto (il 91% degli acquirenti online dà un voto superiore a 7 al canale e-commerce, in un punteggio da 1 a 10). Dato certamente positivo, da un lato, ma che dall’altro evidenzia le elevate aspettative degli utenti, soprattutto se pensiamo alla multicanalità e alla forte diffusione degli smartphone che ha reso più facile l’accesso a Internet in ogni momento della giornata (il mobile commerce, m-commerce, rappresenta il 2% dell’e-commerce, ma è destinato a crescere di molto nei prossimi anni)”.
Il digitale, insomma, sta rivoluzionato il consumer journey, anzi, lo ha già modificato: “il potere è passato dal venditore al compratore, il quale detiene dunque anche ‘il controllo del processo’: prima di comprare ci si informa, poi si passa all’acquisto e infine alla condivisione. I nuovi stili di acquisto sono più avanti e dinamici di quanto non sia, al contrario, l’offerta”, commenta Liscia. “Le aziende italiane registrano un ritardo su questo fronte perché l’e-commerce sta facendo un po’ più di ‘fatica’ a emergere rispetto ad altri paesi, ma la globalizzazione non lascia altra via: gli utenti troveranno in Cina, in Australia, in Usa, in Germania ciò che non li soddisfa a pieno in Italia. E se volessimo, invece, guardare la medaglia dall’altro lato, è bene sottolineare che il cosiddetto social commerce apre per il ‘made in Italy’ nuove interessanti opportunità di business oltre confine”.

Saper comunicare e misurare

Nicola Palmarini, executive dell’Ibm Smarter Planet initiative e Europe marketing manager & director Human Centric Solutions di Ibm

Se il consumatore è dunque colui che guida il processo di acquisto in modo autonomo, è anche diventato il ‘possessore’ del brand aziendale. “Nell’era dei social ogni azienda è un’azienda pubblica”, commenta Nicola Palmarini, executive dell’Ibm Smarter Planet initiative e Europe marketing manager & director Human Centric Solutions di Ibm. “Il marketing non è un messaggio, ma un comportamento e ogni collaboratore aziendale, in qualsiasi divisione o ruolo, rappresenta il brand dell’azienda. Non esistono più i ‘dietro le quinte’. Per comunicare correttamente nell’era dei social serve dunque un nuovo modello basato su autenticità e coinvolgimento”. Come si stabilisce l’autenticità? “Puntando sul character corporation – risponde Palmarini -. Oggi il ‘carattere’ del proprio brand non può più prescindere dal ‘potere’ degli utenti. Quanto al coinvolgimento: oggi il ‘trust’ si costruisce con gli utenti (ogni azienda può diventare editor e boradcaster di se stessa)”. E cosa significa questo sul piano del marketing e della comunicazione è presto detto: “La reputazione del brand si costruiva con il ‘paginone di pubblicità’ attraverso il quale l’azienda si raccontava agli altri: adesso sono gli altri, gli utenti, a ‘raccontare’ l’azienda”, sottolinea Palmarini.

Roberto Manzoli, sales consulting manager Crm di Oracle Italia

Il che non significa affatto che l’azienda sia divenuta attore passivo, tutt’altro. Deve solo capire che cambiano i paradigmi di marketing e comunicazione e, di conseguenza, anche gli scenari, i modelli e i metodi per fare business. “La customer experience è importante, ma il social marketing non è una risposta univoca”, interviene Roberto Manzoli, sales consulting manager Crm di Oracle Italia. “Bisognerebbe, semmai, parlare di digital marketing quale strategia per conoscere il consumatore (attraverso il monitoring e l’analisi dei social network), creare l’ingaggio (con piattaforme che consentano di rispondere, interagire e comunicare con gli utenti precedentemente monitorati, piattaforme di engage e lead management per trasformare la conoscenza in azioni di campagna sui lead generati), capire come agire (marketing insights per trasformare in conoscenza i dati raccolti: tutti, anche quelli dei risultati delle azioni intraprese), ecc.”.

Dario Manuli, esperto di social media strategy, co-fondatore di Beatall e poi di Bewe

Tutti approcci e strategie che tuttavia non possono realmente essere considerate efficaci se non si è in grado di monitorare e misurare i risultati delle azioni intraprese. “Un progetto digital mediamente complesso ha bisogno di diverse metriche: interne (numero dei visitatori sul proprio sito, community che ha sottoscritto abbonamento alla newsletter, ecc.); social (follower sui canali social, utenti che parlano di noi su Facebook, ecc.); esterne (impression, influencer, ecc.)”, spiega nel suo intervento Dario Manuli, esperto di social media strategy, co-fondatore di Beatall e poi di Bewe, aziende che si occupano di social media marketing, gamification, social media services ecc.. “Non esiste un modello univoco; l’importante è definire una strategia chiara che identifichi le metriche utili rispetto alle proprie necessità. Misurare tutto, raccogliere tutti i dati, analizzare tutti i canali social…. non serve a nulla!”.
Dello stesso parere anche Albanese che in chiusura sottolinea il fatto che “non esiste un unico metodo di valutazione perché ogni azienda e ogni persona ha un differente stadio di maturità online e social. Obiettivo dell’attività social è lavorare su brand & communication, da un lato, e sales & marketing dall’altro: due attività differenti, ma molto complementari, che però usano metriche di misurazione diverse: la prima utilizza Kpi quali share, like, retweet, ecc. per monitorare le risposte sul fronte social; la seconda deve ragionare sul Roi, con Kpi più orientati ai tempi di risposta, alla capacità di engagement, ecc.”.

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