Cresce l’hype attorno ai chatbot che cominciano a prendere le distanze dai semplici risponditori automatici, evolvendo velocemente per offrire un’esperienza cliente sempre più fluida e naturale ma anche più utile. Già oggi un agente conversazionale può suggerire il corso di laurea on line più adatto al nostro profilo e alle nostre ambizioni, consigliare il modello di passeggino che fa al caso nostro a seconda dell’età del bimbo e dell’utilizzo che ne vogliamo fare, oppure rispondere alle nostre richieste rispetto ad un prodotto acquistato che non ci soddisfa o che non comprendiamo come utilizzare al meglio. Perché accada tutto ciò e questo software “parlante” possa andare sempre più incontro alle esigenze di chi lo incontra nel suo customer journey è necessario che presenti delle precise caratteristiche e capacità che possono essergli fornite dal conversation designer.
Fluida, integrata, omnicanale e mai frustrante: l’esperienza chatbot ideale
Sono quattro gli aspetti fondamentali in grado di fare la differenza nel mondo degli agenti conversazionali, facendo in modo che non si rimpianga in certi frangenti l’intervento umano ma anzi si riconosca un miglioramento sia dell’esperienza conversazionale che del servizio erogato. Prima di tutto un chatbot deve padroneggiare il maggior numero di tematiche possibili per cui deve avere una profonda comprensione del linguaggio naturale ma allo stesso tempo è importante che sia in grado di dare risposte fluide e disinvolte. “Questo risultato è raggiungibile solo se il software interagisce oltre che con l’ambiente esterno anche con quello dell’azienda, integrandosi con sistemi, applicazioni e database di dati, scambiando file e documenti, recuperando informazioni autonomamente “ spiega Andrea Gabrielli, Founder di Heres.ai, startup bolognese che sviluppa chatbot e voicebot enterprise e multilingua.
L’integrazione con il contesto aziendale assicura anche un’altra connotazione ormai fondamentale, quello della omnicanalità: “il chatbot – aggiunge Gabrielli, – deve essere fruibile su tutti i touchpoint utilizzati da un cliente per connettersi ad un brand e diventare un insostituibile unico punto di riferimento a cui rivolgersi senza più dover vagare da soli all’interno di siti e app in cerca di risposte”.
Il quarto requisito richiesto ad un chatbot potrebbe mettere in crisi anche molti umani, ed è la capacità di fallire. Nello specifico contesto ciò significa che invece che arrendersi di fronte ad una frase non chiara, il software dovrebbe essere in grado di sfruttare il riconoscimento parziale del frammento di conversazione critico per rispondere al cliente con alcune opzioni in chiave “forse intendi…” prima di passare la palla all’operatore umano. “Questo evita di provocare una sensazione di frustrazione nell’utente – spiega Gabrielli – il chatbot si mostra un servizio 24/7 certamente fallibile ma sempre in grado di gestire le problematiche garantendo una presa in carico delle richieste in tempi rapidi”.
Il fattore umano essenziale per sviluppare chatbot utili, proattivo e piacevoli
Una tendenza oggi in crescita è quella di sviluppare degli agenti conversazionali sempre più proattivi e per farlo è necessario spingere sulla loro integrazione processi e strumenti dell’azienda “perché solo così si può comprendere lo user journey e identificare quali possibili azioni inserire nel flusso conversazionale – precisa Gabrielli – la proattività nasce da una buona conoscenza del contesto d’uso e dei dati dell’azienda, oltre che dalla collaborazione con i programmatori in grado di integrare CRM e altri elementi eventualmente necessari per offrire un servizio efficiente”.
Dal punto di vista tecnologico, il core dei chatbot restano sempre gli algoritmi di machine learning e deep learning per la comprensione del linguaggio naturale (NLU) a cui si aggiungono una serie di strumenti corollari per allenare il motore di NLU, progettare flussi conversazionali per ogni singoli intent e consentire di esporre i chatbot stessi su diversi touchpoint di prima o terza parte.
Si tratta di tecnologie che presentano continue evoluzioni ma che, secondo Gabrielli, hanno bisogno di un significativo “contributo umano” per poter dare risultati soddisfacenti. “Gli algoritmi da soli non sono in grado di rendere un agente conversazionale davvero utile, servono persone con capacità di comprensione del contesto d’uso, come avviene per la progettazione della user experience delle interfacce grafiche, e di scrittura, per assicurare risposte fluide, valide e anche corrispondenti alla brand indentity”.
Cercasi conversation designer, creatore e “allenatore” di chatbot
Emerge quindi la presenza di un ruolo sempre più chiave per far sì che i chatbot sfondino davvero sul mercato, e sta nascendo una nuova figura professionale ad hoc, il conversation designer, a cui non corrisponde ancora nessun percorso di studi ma che ha ben chiaro quali sono i suoi compiti.
“In fase di creazione analizza il contesto aziendale, definisce il perimetro conversazionale identificando ciò che il software deve sapere e cosa deve rispondere, e poi progetta i flussi di risposta con approccio da pioniere, anche creando da zero delle logiche conversazionali specifiche e decidendo eventuali integrazioni con i sistemi dell’azienda. Infine si occupa dei testi che devono essere fluidi e rispecchiare il brand” spiega Gabrielli che ha già formato una squadra di 5 conversation designer con un’età media di 27 anni.
Dopo la fase di test e di rilascio, il conversation designer prosegue il proprio lavoro per ottimizzare il chatbot sia migliorando la comprensione di ciò che è già presente nella knowledge base creata, sia imparando dai fallimenti e inserendo eventuali nuove parti di flusso conversazionale con informazioni aggiuntive.
Per ricoprire questo ruolo, ad oggi è necessario “unire i puntini”, in attesa di iniziative formative dedicate che Gabrielli si aspetta prima di tutto dalle digital academy, e si tratta di “puntini” molto distanti tra loro dato che le tre capacità indicate come indispensabili sono quelle umanistiche, di scrittura creativa, quelle tecniche, sia di conoscenza del machine learning che di programmazione, e quelle di User Experience Design Per ora Gabrielli ha riscontrato tra i conversation designer sul mercato una prevalenza di profili umanistici, laureati in Lettere o in Linguistica (dove esiste l’esame opzionale di linguistica computazionale): “la maggior parte sono donne che integrano il proprio background universitario con lo studio da autodidatta dell’informatica e del machine learning, per lo meno le nozioni di base essenziali per intervenire sull’algoritmo alla base di un chatbot”.
È un mix sfidante e ad oggi la meticolosità progettuale richiesta per lo sviluppo di un agente conversazionale fa sì che la figura del conversation designer sia da formare obbligatoriamente all’interno delle aziende specializzate ma Gabrielli è pronto a scommettere che “quando arriveranno soluzioni no code o tool per fare chatbot per ecommerce in autonomia, ci sarà una fortissima richiesta di questi profili e, dato che a quel punto serviranno solo domande e risposte, risulteranno essenziali doti di scrittura creativa”.