C’è anche il quantum computing tra le tecnologie messe in campo oggi per sconfiggere l’epidemia da coronavirus. Dario Gil, Director IBM Research, lo ha sottolineato intervenendo in streaming il 6 maggio scorso all’IBM Think Digital. “I super computer – ha detto – possono essere usati per modellare e comprendere meglio la struttura proteica del virus, aiutando i ricercatori a esplorare diversi composti chimici che potrebbero essere usati per combatterlo”.
A tale scopo, IBM ha fondato insieme ad altri 30 membri il Covid-19 High Performance Computing Consortium, riuscendo ad aggregare più di 400 petaflop di potenza di calcolo (un petaflot corrisponde a un milione di miliardi di istruzioni al secondo) e 100 mila nodi per gestire un ampio portafoglio di progetti, così da comprendere più rapidamente l’evoluzione del virus e accelerare il ritmo con cui gli scienziati possono sviluppare antivirali e, si spera, un vaccino. Ma l’uso del calcolo quantistico, abbinato ai super computer HPC, non si limita alle applicazioni dettate dall’attuale emergenza pandemica.
Quantum computing: ecco come sarà (e com’è) il future of computing
“L’implicazione più profonda di ciò che sta accadendo oggi nell’informatica – ha evidenziato Gil nel suo intervento – è la convergenza di bit, qubit e sistemi di reti neurali che costituiscono la base dell’intelligenza artificiale. Questa convergenza sarà orchestrata con l’aiuto della programmazione assistita dall’AI e di un’architettura cloud ibrida che maschera la complessità dell’infrastruttura sottostante”.
Che non si tratti di qualcosa che vedremo soltanto in un futuro lontano, lo dimostrano alcuni risultati raggiunti nei laboratori di Zurigo dell’IBM e di cui ci parla il direttore, Alessandro Curioni: “Digital computing, quantum computing e intelligenza artificiale nel loro insieme rappresentano quello che chiamiamo future of computing”. Uno degli ambiti in cui l’istituto elvetico ha testato l’efficacia di questa triangolazione è stato quello del material design: “Il disegno di nuovi materiali – spiega Curioni – è alla base delle possibili soluzioni a tanti nostri problemi: dalla ricerca di nuovi materiali ecosostenibili per l’industria dell’elettronica, ad altri che aiutino l’assorbimento della CO2, ad altri ancora da utilizzare nella creazione di fertilizzanti con minore dispendio di energia”.
La differenza sta nel riuscire a farlo in maniera più veloce e con minori costi rispetto al metodo scientifico tradizionale. “Grazie all’AI, al cloud e al quantum è possibile fare un salto di paradigma nel modo in cui viene fatta una scoperta”. Detto in altri termini, bisogna “mettere al centro il metodo scientifico e dargli degli ormoni perché diventi molto più efficace”.
Il progetto IBM RXM for Chemistry per il material design
Teodoro Laino, ricercatore dell’IBM Research Zurich Lab, ne dà una esemplificazione illustrando l’IBM RXM for Chemistry: “Tutto è iniziato nel 2018, in tempi non sospetti, quando perciò non vi era alcuna delle restrizioni imposte negli ultimi mesi. L’implementazione di questa tecnologia rientrava in una strategia tesa a eliminare i colli di bottiglia nello sviluppo dei materiali”. Oltre all’ideazione, infatti, il processo prevede anche dei test necessari a validarne l’attendibilità scientifica. Un’attività condotta in laboratorio nella quale la sintesi del nuovo materiale avviene con una serie ripetitiva di operazioni che vede impegnati i chimici direttamente. “E se fosse possibile raccogliere la conoscenza di partenza di una persona che sta in laboratorio e accoppiarvi l’intelligenza artificiale attraverso l’utilizzo di automatismi e di sistemi robotici?” Da questa domanda di partenza Laino e il team di ricercatori dell’IBM hanno costruito l’attuale servizio di laboratori remoti senza personale, controllato mediante una piattaforma cloud, in cui un assistente AI supporta i chimici sia nello sviluppo sia nell’ottimizzazione dei processi, mentre i robot si occupano in loco dell’implementazione. “Puntiamo a trovare una soluzione – evidenzia il ricercatore – che sia valida non solo in periodi eccezionali come quelli della quarantena, ma che possa essere un’alternativa valida per un modo diverso di lavorare nel chimico computazionale”.
La linguistica computazionale applicata alla chimica organica
Intelligenza artificiale e machine learning hanno avuto anche un’altra funzione nel progetto, che ci riporta al focus sul material design. “Se avessimo la possibilità di tornare indietro di 100 anni – prosegue Laino -, vedremmo un laboratorio di sintesi chimica molto simile a quelli odierni. Allora, abbiamo pensato di trattare la chimica come un linguaggio. Questa è stata l’idea cruciale, ed è stata anche una scommessa”.
Scommessa vinta, a giudicare dagli esiti. A distanza di due anni dal suo avvio, la linguistica computazionale applicata al mondo della chimica ha permesso di mettere insieme più di 2 milioni di reazioni estraendole da 30 milioni di brevetti, realizzando quella che tecnicamente si chiama retrosintesi, cioè la progettazione della corretta sequenza di reazioni chimiche che servono a generare una nuova molecola. “Il team ha insegnato a una macchina nozioni scientifiche di chimica organica – commenta Alessandro Curioni – per imparare le quali a un uomo occorrono diversi anni. Se ci si pensa, anche da un punto di vista filosofico, è una cosa davvero affascinante”. Tutte questo oggi è messo a disposizione della comunità scientifica gratuitamente tramite il portale IBM RXN for Chemistry ed è la dimostrazione di una potenzialità che può trovare infiniti risvolti per la scienza, la società e il business. “Il quantum computing – tiene a rimarcare Curioni – non è in alternativa al digital computing. L’unione di dati, conoscenza e intelligenza artificiale continuerà a sviluppare una value proposition per avere la soluzione a problemi complessi”.