L’aspetto organizzativo è vitale per il successo dei progetti che riguardano big data analytics e intelligenza artificiale (AI) nelle aziende che vogliono implementare un approccio data driven. L’adeguamento delle competenze dei team IT, il reclutamento dei data scientist sono aspetti importanti, ma sempre di più contano le capacità di realizzare cambiamenti che vanno in profondità a livello di tutta l’organizzazione.
Il tema che è stato affrontato in una tavola rotonda all’evento Data Science: time to grow up organizzato nelle scorse settimane dall’Osservatorio Big Data e Business Analytics del Politecnico di Milano e in cui si sono confrontati esperti e responsabili dati di grandi aziende con la moderazione di Carlo Vercellis, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio e di Alessandra Chiuderi, Group head of Analytics di Generali, nel duplice ruolo di moderatore e testimone del lavoro portato avanti presso la propria società.
Un team per aiutare lo sviluppo delle modalità data driven in azienda
Diffondere e migliorare l’impiego degli strumenti analitici in azienda è la sfida di Alessandra Chiuderi, a capo del team di Generali che sta portando modalità data driven nelle società del Gruppo triestino: “Da tre anni aiutiamo le nostre società nei progetti che hanno al cuore l’analisi dei dati per i compiti che vanno dalla definizione dei prodotti al loro pricing, dal marketing alle vendite, dal rilevamento delle frodi all’automazione – spiega la manager -. Un impegno che oggi si è esteso alla formazione dei team interni deputati a dare supporto continuo alle esigenze degli utenti”.
Tecnologie analitiche e AI portano beneficio quando attraversano l’intera catena del valore: “Quando permettono di capire le esigenze dei clienti, per contattarli quando e come preferiscono – precisa Chiuderi -. Non sostituiscono le persone, ma sono un appoggio per svolgere meglio il lavoro”. Servono anche ad affrontare i momenti peggiori, “dopo il sinistro, quando il cliente è sotto stress e si gioca la forza dell’organizzazione nell’essere d’aiuto al cliente, ridurre i tempi e le noie burocratiche”.
Perché il data scientist da solo non basta per adottare un approccio data driven
La figura professionale del data scientist è quella più direttamente associata con lo sviluppo della data analytics nelle aziende, ma non basta a innescare il cambiamento che può rendere capace l’impresa di adottare un approccio data driven. È questo un motivo per cui dopo un iniziale boom, si è stabilizzata la domanda di questa figura nel mondo del lavoro: “Il data scientist offre dati a chi risolve i problemi del business – spiega Chiuderi -, ma perché sia utile serve che ci sia domanda di dati. Serve che a valle, tra gli utilizzatori, ci siano persone capaci di fare le domande giuste”.
Per questo alla creazione dei team analitici serve affiancare la formazione su larga scala all’uso dei dati: “In Generali abbiamo avviato un programma di upskilling analitico per 50 mila persone del Gruppo – precisa Chiuderi -. Abbiamo inoltre lavorato nell’identificazione degli use-case di maggiore successo per poter sfruttare meglio le risorse, creare un circolo virtuoso tra realizzazioni e benefici, avere un approccio sistematico per mandare in produzione i proof of concept (POC)”.
Anche per Alberto Rossi, Global Head of Retail Data Platform & Analytics di Shell, a capo di un team di 70 persone che si occupa di analisi e qualità dei dati, la sfida è riuscire a migliorare l’utilizzo dei dati e garantire il successo dei POC. “Per questo abbiamo creato un hub di data scientist in India, affiancando queste persone con logica 1:1 alle persone chiave del business – racconta il manager -. Questa modalità incentiva la collaborazione sui dati nello specifico lavoro e l’impegno dal lato business [che paga i data scientist, ndr]. Ci toglie l’onere di dover gestire le priorità nei progetti, aspetto che inevitabilmente ci creava ‘amici’ e ‘nemici’ nelle line of business (LOB) lasciando ciò che possiamo fare meglio, nel delivery dei servizi in chiave end-to-end”.
L’obiettivo di Shell è aumentare la quota dei POC su tematiche analitiche che approdano alla produzione. Per il 2020, Rossi prevede di portare a 60 il numero dei data scientist e di creare team intermedi dotati di operation analytics manager e innovation manager dedicati allo sviluppo di prodotti da vendere alle LOB e di creare delle figure professionali in grado di tradurre le richieste dei clienti in problemi che possono essere soddisfatti dai data analyst.
Le best practice organizzative nell’esperienza delle aziende
Per Michele Miraglia, Senior Manager di Data Reply, società che realizza per conto terzi progetti di data analytics e AI, il problema delle imprese che hanno fatto investimenti in soluzioni complete per la disponibilità dei dati è industrializzare le modalità con cui ottenere vantaggi di business: ”Non c’è un modo unico ed efficace per gestire questa fase – spiega il manager -. C’è chi ci riesce mettendo a fattor comune l’esperienza, chi usando approcci ‘a spaghetti’ più confusi, ma resta in generale complesso calare i dati nelle esigenze aziendali, far capire al business ciò che la tecnologia dati può fare e sfruttare gli insight”.
Camillo Moratti, Enterprise & Partner Account Executive di Talend, ritiene sia fondamentale creare fiducia nei dati: “Per questo serve avere governance sui dati, fare in modo che non servano a giustificare decisioni arbitrarie già prese”. La governance sui dati è un processo collettivo, che richiede organizzazione: “Una squadra a cui deve partecipare tutta l’azienda: da chi cura il rispetto normativo a chi traduce i dati in insight abilitando valore di business”.
La sfida organizzativa è centrale anche per Sergio Stievano, CDO di lastminute.com Group: “Serve per creare domanda di dati da parte del business, cosa che il data scientist, da solo, non può fare”. Un aspetto che, secondo Stievano segna la superiorità di AI e ML rispetto alla tradizionale business intelligence nel metabolizzare i dati nei processi decisionali, integrarli in processi agili, in prototipi capaci di rendersi utili fin dal primo giorno”.
Le competenze dei business translator e del CDO per portare i dati alle LOB
Dopo il data scientist è il business translator ad emergere come figura chiave dei rapporti, spesso complicati, tra i tecnici dei dati e il business e per realizzare concretamente un approccio data driven. Traduttore, non solo sul piano linguistico, delle esigenze degli utenti delle LOB affinché abbiano la migliore interpretazione informatica: “Tra il data scientist e gli utenti c’è grande bisogno di figure intermedie – spiega Stievano -. Non abbiamo ancora definito il ruolo preciso per il traduttore, ma lo stiamo immaginando forti di una serie di casi e sperimentazioni”.
Stievano descrive il “traduttore” come l’avanguardista dei dati: “Una persona giovane, capace di creare aggregazione attorno ai progetti, d’identificare le best practice che riguardano i dati e di sollecitare la sensibilità dei team sugli impatti associati al cambiamento”.
Anche per Moratti il data scientist ha bisogno di essere affiancato sul fronte dell’organizzazione aziendale con una figura che sia insieme garante della governance sui dati e della capacità di usare gli stessi per ottenere concreti risultati nel business. Una figura che identifichiamo nel Chief Digital Officer (CDO)”.