Il crescente utilizzo delle e-mail e la mancanza troppo spesso di policy che regolino il loro ciclo di vita all’interno delle aziende può essere visto come una metafora dei fenomeni e delle problematicità che in generale riguardano la gestione dei contenuti non strutturati. Eppure si sa che è proprio sulla base di questi che vengono prese la maggior parte delle decisioni di business nell’operatività aziendale. Ma come sorgono le informazioni non strutturate? In larga parte sono prodotte a partire da informazioni di tipo strutturato. E anche questo tipo di dati è in continua crescita. Siamo quindi di fronte a un duplice problema: da una parte gestire al meglio i dati strutturati, in modo che si traducano, grazie alla loro elaborazione da parte delle organizzazioni che presiedono i processi di business, in informazioni non strutturate (comunicazioni, report, progetti, solo per fare alcuni esempi). Dall’altra, occorre far sì che queste informazioni non strutturate, a partire da quelle veicolate con la posta elettronica fino ad arrivare a tutto ciò che viene memorizzato nei file system, vengano utilizzate nel modo più efficiente possibile. Il che vuol dire anche farlo in modo economico, archiviando, per esempio, solo una volta e solo le informazioni che servono per prendere decisioni di business, per ottemperare a degli obblighi di compliance, per conservare evidenze da utilizzare in caso di controversie legali e così via.
ZeroUno, in collaborazione con Symantec (www.symantec.com) e Sun (www.sun.com), ha organizzato lo scorso dicembre a Roma uno dei suoi “Incontri con gli utenti” proprio sul tema, intitolando l’evento “Email e information management: archiviazione e gestione intelligente dei contenuti”.
“Si parte dall’email e si estende il discorso al problema più generale dell’information management – suggerisce subito Stefano Uberti Foppa (nella foto), direttore di ZeroUno -. “Nel proliferare dei dati strutturati, ma soprattutto non strutturati, dobbiamo vedere una complessità ma anche un’opportunità. In particolare, per arrivare a uno sfruttamento ottimale di questa, i Cio devono agire su due aspetti: il primo è la capacità di interpretare bene, insieme agli interlocutori aziendali, i processi, la quantità di queste informazioni, le esigenze operative nell’utilizzo delle informazioni; il secondo è quello dell’abilità di identificare le architetture e le soluzioni capaci di generare più risparmi ed efficacia, in modo che l’information management faccia la differenza nel modo di essere impresa sul mercato. In altre parole, adottare sistemi di automazione e metodi di governance capaci di realizzare un vantaggio competitivo e supportare un’erogazione di servizi business oriented”.
Ha quindi preso la parola Stefano Epifani (nella foto), docente di Informatica e Tecnologie della comunicazione digitale presso l’Università la Sapienza di Roma (www.uniroma1.it). Con il suo tipico stile provocatorio ha iniziato subito facendo notare che “sono anni che ragioniamo sul ruolo del capitale intellettuale. La mia impressione è che ne ragioniamo più di quanto ne produciamo. Si spende molto per sistematizzare la conoscenza ma senza ottenere un reale vantaggio, perché non siamo in grado di affrontare il tema in modo organico. La conoscenza è basata su come viene gestita l’informazione, e in questo ciclo prima ci sono i dati, poi le informazioni, e poi la conoscenza”.
La necessità di gestire al meglio le informazioni non strutturate, secondo il ragionamento precedente, nasce dal fatto che la loro crescita avviene a un tasso maggiore di quelle strutturate. Questa ridondanza, se non si prendono delle contromisure, si può rivelare una lama a doppio taglio. “Secondo Gartner (www.gartner.com) – aggiunge Epifani – l’80% delle decisioni di business si basa sull’analisi di informazioni non strutturate. Un processo di knowledge management che non tiene conto di questa realtà non produce risultati. La quantità di informazioni non strutturate raddoppia ogni due mesi. Paragoniamo queste informazioni elettroniche a dei fascicoli cartacei. Cosa succede quando una scrivania si ingombra di faldoni? Di solito, se dopo tre mesi non li abbiamo utilizzati, una parte di essi finisce per essere messa e dimenticata in un cassetto e un’altra buttata nel cestino. Buttare queste informazioni è come perdere l’80% delle probabilità di fare del business. Ma come vengono gestite al momento le informazioni non strutturate da chi le dovrebbe utilizzare? Secondo alcune ricerche, poco più di un terzo dei manager delle aziende ritiene che le informazioni contenute nei sistemi Ims (Information management system) in uso nella loro impresa siamo affidabili. Un 38% di loro ammette di ritenere caotica la maniera in cui operano sul proprio hard disk. Insomma, tutti i manager dicono di avere difficoltà a gestire la posta elettronica, a usare in modo ottimale l’hard disk del proprio pc, di non ritenere affidabili le informazioni degli Ims esistenti; eppure tutti dichiarano che le informazioni non strutturate sono imprescindibili per il successo del business”.
Cosa fare? A questo punto Epifani si dimostra scettico sul modo tradizionale di ragionare dei dipartimenti dei sistemi informativi e ricorda l’allegoria del “cigno nero” contenuta nel libro “Il cigno nero. Come l’improbabile governa la nostra vita” scritto da Taleb Nassim (saggista, operatore di borsa e filosofo nonché docente di Scienze dell’incertezza alla University of Massachusetts). Il cigno nero rappresenta un evento inaspettato che si verifica raramente ma che ha un forte impatto sulla vita e sull’ambiente. L’esempio più ricordato, quando si parla di questo, è quello di Google (www.google.com) che ha rappresentato una grande discontinuità. “Il cigno nero – puntualizza il professore – identifica un tipo di risposta negativa alla domanda: la conoscenza del passato ci aiuta a conoscere il futuro? Cosa significa per noi questa metafora nel nostro lavoro? Significa che stiamo entrando in un’epoca in cui nel modello azione-reazione tra azione e reazione si può inserire un fenomeno non predittibile. Per questo motivo, tutti i sistemi che trattano le informazioni come oggetti e pretendono che, una volta che queste siano cristallizzate generino valore, non funzionano più. Bisogna prendere atto che l’informazione diventa sempre più un processo dinamico, non è stabile, è mutevole. Il ciclo di vita è breve. Il mondo cambia più velocemente della nostra capacità di gestirlo. Dal punto di vista informativo, una volta gli utenti avevano a disposizione poche fonti. A queste oggi si è aggiunta una nuvola di altre fonti che aggiungono informazioni non strutturate”. E, concludendo, Epifani rincara la dose: “Quanto più i sistemi informativi si preoccupano di disegnare e implementare policy, quanto più gli utenti cercano di aggirarle, per esempio utilizzando Google Docs per archiviare in remoto dei documenti o Delicious per tenere in un posto unico i bookmark. Il mondo dell’informatica, ma soprattutto quello degli utenti, si sta muovendo moltissimo e si sta generando una frammentazione dell’informazione. Pensiamo anche alla possibilità di creare in modo autonomo e diffondere video su Internet. Tutti gli utenti insieme producono più conoscenza dei veri esperti nelle diverse materie. Ma che ne è della qualità?”.
La provocazione viene subito raccolta da Uberti Foppa: “Il problema è di capire fino a che punto una governance delle informazioni è sostenibile. D’altra parte, non possiamo rinunciare a capire quali modelli e passi, sia a livello architetturale che di esperienze, vanno tentati”. La gestione delle email come metafora di
quella più generale dei contenuti non strutturati. Interviene Michelangelo Cristoforetti (nella foto), pre sales specialist manager, Mediterranean Region di Symantec: “Negli ultimi anni abbiamo visto un enorme crescita dei messaggi di posta elettronica sia a livello di contenuti sia di allegati. Mentre questo fenomeno innesca la domanda di maggiore spazio di storage, all’It viene chiesto di diminuire i costi. Necessariamente, quindi, si deve andare verso un modello di conservazione delle informazioni non strutturate legate al loro valore. Normative per la sicurezza – come quelle che riguardano l’antiriciclaggio – o la necessità di conservare molti documenti per un possibile utilizzo probatorio, tanto più dopo l’entrata in vigore della firma elettronica, portano le aziende a non disfarsi facilmente delle informazioni non strutturate che entrano o escono via email. In quest’ottica, Symantec e Sun hanno creato una partnership per fornire le infrastrutture e il software necessario a realizzare quello che abbiamo definito l’intelligent archiving. Che permette, da una parte, di implementare politiche di retention degli oggetti legate al loro valore, e, dall’altra, di centralizzare i dati su diversi tipi di repository, mantenendo però sempre la possibilità di ritrovare le informazioni indipendentemente dalla loro posizione”.
Gli fa eco Paolo Bianco (nella foto), senior architect storage practice di Sun: “Le informazioni chiamano in causa dati e processi. I dati stanno negli archivi, i processi sono legati alle persone. Gli aspetti in gioco – legali, di compliance, di tecnologia – sono tanti. Quello che è fondamentale è la capacità di tenere tutto in equilibrio, il che significa anche identificare chi deve avere la responsabilità di tutto questo: l’ufficio legale, gli amministratori di sistema, e così via. Di certo non si può coinvolgere tutte le forze. L’archiviazione delle email è la prima area in cui abbiamo iniziato a investire. In alcuni casi abbiamo riscontrato che lo stesso messaggio era archiviato tre volte in posti diversi. Passare da un modo non intelligente a uno intelligente di gestione dell’email archiving può aiutare le aziende a ottenere risparmi e a essere compliant a livello legale”.
Il direttore di ZeroUno interviene per portare la discussione della tavola su un piano pragmatico per identificare i punti di criticità e ipotizzare alcune soluzioni: “Si avverte un’esigenza forte di razionalizzazione e di sistematizzazione dell’esistente. Di definizione dei livelli di libertà e di regolamentazione tramite policy. Di quale coinvolgimento delle controparti occorre nella definizione delle policy. Infine, di quale ruolo le tecnologie possono assumere per arrivare a una gestione delle informazioni a un livello di ingegnerizzazione simile a quello apportato dagli Erp nella gestione dei processi di business”.
“Il cliente interno – sostiene Epifani, portando subito alla ribalta un problema critico – non sempre ha tempo di spiegare a fondo le sue esigenze, mentre il fornitore non può entrare nella sua testa. Questo spiega perché le aziende spendono l’80% dei loro budget per i progetti It nell’implementazione, salvo poi scoprire che il risultato non è quello sperato”. Il professore de La Sapienza introduce, insomma, una questione prima di tutto di Demand Management. E chiede: “Quanto siamo in grado di ascoltare i nostri clienti interni? La risposta credo sia: poco. Il problema è che loro non sono capaci di esprimersi, e noi spendiamo solo il 20% del tempo nella fase iniziale di un progetto e l’80% in quello dell’implementazione”.
Interviene Bianco: “La tecnologia c’è ed è matura. Il vero problema sta nel dialogo tra le parti, nella capacità di capire il cliente o di far capire al cliente quali siano le sue necessità. La tecnologia c’è, ma non si può pensare che possa supplire all’organizzazione”. Dalla sua prospettiva di manager di una società che sviluppa software, Cristoforetti fa un appunto: “Nel sviluppare la nostra tecnologia, siamo partiti dall’esigenza di capire quali siano le necessità degli owner dei processi e come è possibile fornirgli una risposta. La tecnologia ci consente di interagire sia con i processi sia con gli oggetti e di aiutare l’interlocutore a comprendere come utilizzare la soluzione. Normalmente, invece, succede che le email si stratifichino superando la capienza delle caselle e che quindi si debba chiamare l’amministratore di sistema per spostare da qualche parte il file con i messaggi vecchi”.
A questo punto c’è un intervento dalla platea da parte di un responsabile di un ente della Pubblica amministrazione. “Purtroppo c’è un digital divide tra la Pa e le aziende private. La sofferenza al cambiamento è molto sentita nella pubblica amministrazione, anche perché la maggior parte dei vertici ha una certa età. In più c’è anche un legal divide. I vincoli nella gestione documentale nella Pa sono fortissimi. Per questo motivo sollecitiamo la creazione di una partnership tra le aziende fornitrici di soluzioni e i nostri enti, anche a livello di dirigenti intermedi. Abbiamo bisogno di opinioni, previsioni, contatti che non abbiano esclusivamente un intento commerciale. Dal punto di vista tecnologico, infine, ci servono soluzioni standard”.
Quest’ultimo è un problema di non poco conto. “Spesso – afferma Epifani (che comunque ci tiene a premettere che “si dovrebbe parlare di diverse Pa, non di una sola, così come le aziende sono differenti tra loro”) – nelle pubbliche amministrazioni non ci sono standard perché se si imponessero sarebbe la fine di certi potentati. Ogni comune, per esempio, utilizza un diverso prodotto per l’anagrafe, sul quale ha speso centinaia di migliaia di euro. Spesso – rincara il professore de La Sapienza – si effettuano progetti che non hanno senso, come creare un portale mappo grafico quando basterebbe un semplice Gis per la gestione dei cassonetti”.
Stefano Uberti Foppa non le manda troppo a dire e afferma, all’indirizzo dei responsabili It presenti: “La mia sensazione è che molti di voi stiano assumendo una posizione difensiva, come per sgravarsi dal compito di dare delle risposte. Il punto, invece, è capire quanto la governance dell’informazione possa costituire un’opportunità per andare a individuare nuove risposte da dare agli stakeholder. Il punto è oggettivamente complesso ma credo che il problema maggiore sia agire nella struttura It con una logica di Demand Management per capire meglio cosa possiamo offrire nel presente e nel futuro”.
Una conferma in questo senso arriva da un Cio di una società pubblica di trasporti: “Nello sviluppare il nostro portale, abbiamo spinto molto sulle funzionalità di prenotazione e vendita, mutuando un po’ dai siti delle compagnie aeree. In seguito ci siamo accorti che con le informazioni che venivano in nostro possesso si potevano sviluppare nuovi servizi”.
Nell’information management, così come in altri ambiti, gli uomini It devono appropriarsi di un ruolo di leadership dell’innovazione tecnologica, a partire ovviamente da una accresciuta capacità di comprendere e condividere gli obiettivi di business. “Dobbiamo puntare ad avere, o a identificare insieme ai responsabili di business, una descrizione delle loro necessità. Troppo spesso i dipartimenti It si sentono dire dagli utenti, per esempio, che vogliono la teleconferenza con NetMeeting. Non ci dicono quali sono i loro bisogni, ci forniscono quasi già un’analisi tecnica di quello che desiderano. Questo la dice lunga sull’incomunicabilità”.
C’è, insomma, un rapporto fiduciario e un rispetto delle competenze da (ri)costruire. “E il fattore tempo – conclude Uberti Foppa – non gioca molto a favore. Penso che un modo ottimale di agire, da parte dei responsabili It, sia quello di entrare nelle organizzazioni per identificare delle specifiche aree di innovazione. Su quelle si fanno quindi delle sperimentazioni che poi possono essere estese al resto dell’azienda”.
Quella dell’archiving intelligente delle email può essere sicuramente una delle prime, perché l’esigenza di districarsi al meglio tra le centinaia di messaggi che ogni giorno affluiscono ai desktop è sentita da tutti. Gli strumenti tecnologici ci sono, e il ritorno sull’investimento può essere facilmente verificato.