Big data analytics e tool predittivi sono strumenti straordinari, essenziali per governare il business in un’era contraddistinta da scenari sempre più imprevedibili e da un’elevata volatilità. Ma per creare valore – per l’impresa, per le sue persone e per la filiera a cui fa capo – non è sufficiente adottare piattaforme tecnologiche di ultima generazione e innestarle sui processi: occorre costruire una strategia ad hoc, che consenta non solo di adattare le soluzioni alle reali esigenze dell’azienda, ma anche di farle evolvere man mano che cambiano le sfide organizzative ed economiche sul piano del supply chain management.
Ecco cosa si aspettano le aziende dai tool predittivi
“Generalmente, la prima esigenza manifestata dalle aziende che puntano sui tool predittivi è quella di migliorare i processi di vendita, aumentando i profitti e diminuendo i costi. Questo significa essere in grado di prevedere la domanda del mercato e ottimizzare le stime per allineare tutte le operations” spiega Fabio Filippini, Head of Consulting di The Information Lab, specialista nei servizi di consulenza sui temi della Business Intelligence e degli Analytics.
“Dall’altra parte, si punta a potenziare l’esperienza utente, intesa non solo come customer experience, ma anche come possibilità per gli end-user interni di ottenere maggior supporto nell’utilizzo degli strumenti aziendali. Un altro ambito in cui si inizia a ragionare in termini di predittività è quello della manutenzione, soprattutto nel settore del manufacturing. Raccogliendo e classificando le informazioni storiche e incrociandole con gli input che arrivano dalle piattaforme IoT connesse agli stabilimenti, si possono prevedere con precisione gli interventi necessari a evitare i fermi macchina prima che si verifichi effettivamente un guasto”.
Tutto ciò, pur essendo molto intuitivo sul piano concettuale, richiede un radicale cambio di paradigma a livello operativo per poter passare dalla teoria alla pratica. “Se vogliamo andare alla radice della questione, la primaria esigenza di molte imprese è ancora quella di evolvere verso una completa digitalizzazione dei processi”, dice Mauro Zampieri, Responsabile Data Science & Business Intelligence Solutions di The Information Lab.
“I dati oggi non mancano, certo, ma devono essere convertiti in informazioni per attivare sistemi predittivi realmente efficaci. E ancora non basta. Si tratta solo del primo step: dopo essere riusciti a trasformare i dati grezzi in informazioni, bisogna rendere quelle informazioni intelligenti” prosegue Zampieri.
È solo a questo punto che si può ipotizzare l’adozione di un tool predittivo, che opportunamente sviluppato potrà diventare uno strumento prescrittivo, in grado, quindi, di fornire anche consigli su come agire per ottenere i risultati ottimali in base agli obiettivi prefissati.
La sfida verte soprattutto sulla capacità di centralizzare tutte le fonti informative su un unico pannello di controllo, capace quindi di recepire gli input e generare – autonomamente e tempestivamente – insight, forecasting e segnali di allarme che gli operatori possono utilizzare, a seconda di ciascuna funzione e dello specifico contesto, per intervenire sui processi produttivi, sugli iter approvativi o addirittura direttamente sulle fasi di progettazione di un prodotto o di un servizio.
Come implementare correttamente i tool predittivi, la strategia passo per passo
Quale strategia, dunque, occorre adottare per effettuare in sicurezza questa transizione? Fabio Filippini evidenzia una serie di passaggi chiave, che prendono il via dalla raccolta del dato. “I meccanismi di data collection devono essere stabiliti solo dopo aver definito gli obiettivi aziendali, prevedendo operazioni di pulizia e di preparazione, essenziali per poter poi alimentare gli algoritmi. Si tratta di una fase molto complessa e onerosa, durante la quale bisogna eliminare duplicati e inserire valori mancanti puntando alla standardizzazione di tutti i dataset. A questo punto entrano in gioco i data scientist, che si occupano della scelta degli algoritmi che meglio intercettano le esigenze del business.”
“Il secondo compito dei data scientist è quello di allenare il modello sulla base dei dati storici presenti in azienda. Non si tratta solo di ‘nutrire’ il sistema: bisogna verificare se, sulla base delle informazioni passate, lo strumento riesce a comprendere qual è stato l’output effettivo, cosa poi è successo nella realtà dei fatti. Nel caso in cui si verifichino dei disallineamenti, il modello va rimesso a punto. L’ultimo passaggio, forse il più delicato, riguarda l’aggregazione dei dati. È necessario fare in modo che chi dirige i processi sia in condizione di recepire e contestualizzare le informazioni per poi prendere decisioni corrette”.
Filippini rimarca poi un aspetto meno tecnico, ma ugualmente importante: “È fondamentale comunicare in maniera trasparente ed esaustiva, all’interno dell’azienda, i risultati che si vogliono ottenere con i tool predittivi, così che ciascun attore abbia chiaro quali vantaggi può cogliere, anche in prima persona, adoperando lo strumento”.
Supplire alle competenze analitiche
Quanto detto finora, ovviamente, deve fare i conti con le competenze effettivamente disponibili in azienda. È facile elencare i compiti dei data scientist. Ma quante sono le imprese, anche di grandi dimensioni, che dispongono di queste professionalità?
“È qui che entra in gioco una società come The Information Lab”, continua Filippini. “Siamo in grado di supportare a tutto tondo qualsiasi tipo di organizzazione, mettendo a disposizione competenze di data engineering e professionisti come Mauro Zampieri, esperti di algoritmi che possono affiancare le risorse aziendali nel training dei modelli. Con noi lavorano anche consulenti strategici, che accompagnano gli owner di processo nella definizione dell’ultimo delicatissimo passaggio, quello che permette di capire come verranno utilizzate effettivamente le informazioni intelligenti. Questo approccio ci permette di dialogare alla pari persino con clienti più strutturati, che sono riusciti non solo a reperire e a trattenere figure specialistiche e analisti, ma anche a costruire strutture evolute in grado di mettere a disposizione delle varie linee di business tutti i dati di cui gli utenti necessitano”.
Va precisato però, che per affrontare la sfida dei tool predittivi, la disponibilità di competenze analitiche è una condizione necessaria ma non sufficiente. “Io, per esempio, ho un background di conoscenze che contempla anche le discipline del Marketing e del Sales” dice Zampieri. “Ciò costituisce un enorme vantaggio quando bisogna comunicare a profili non tecnici quale è l’effettiva utilità degli strumenti che si stanno implementando. Al tempo stesso, posso interfacciarmi con figure più specialistiche per testare gli algoritmi e assicurarmi che il ritorno sia quello atteso anche dal punto di vista tecnico”.
Specializzazioni, soft skill e competenze trasversali devono quindi muoversi all’unisono per far sì che anche le persone del business colgano immediatamente tutti i vantaggi offerti da questi strumenti di conoscenza.
Tool predittivi e capacità computazionale: quando il cloud gioca in casa
Impossibile, infine, parlare di strategia per l’adozione di tool predittivi senza chiamare in causa il cloud. “Noi suggeriamo sempre ai clienti di passare al modello as-a-service”, conferma Filippini. “A prescindere dai vantaggi che il cloud offre in generale, in questo specifico ambito serve qualcosa di facilmente e velocemente scalabile dal punto di vista della potenza computazionale. I sistemi on premise sono semplicemente ingestibili sotto il profilo dei costi, e comportano investimenti esagerati se un’azienda non ha continuamente bisogno di effettuare analisi predittive. Il cloud, in effetti, gioca in casa, ed è per questo che lavoriamo su diverse soluzioni per offrire ai nostri clienti in modo flessibile la potenza di cui hanno bisogno, quando ne hanno effettivamente bisogno”.