Big data e analytics: motori per il Digital Marketing

Le prospettive sono molto buone e alcune realtà stanno già sperimentando la potenza degli analytics in contesti di marketing, vendite, mutlicanalità e contatto con il cliente. Non mancano però le criticità che vanno ricercate non tanto nella tecnologia quanto nella ‘cultura dell’analisi’ e nelle competenze che ancora mancano.

Pubblicato il 08 Apr 2014

Il binomio Big data/Analytics trova oggi un proprio ideale ambito di attrazione nel marketing, una delle unità aziendali maggiormente coinvolte dalla digitalizzazione, in particolare per migliorare e rendere più efficaci le attività di customer care o per riuscire a proporre servizi innovativi e personalizzati a un selezionato target di utenti. Costruirsi un vantaggio competitivo richiede però di modellare e ridefinire agilmente i processi di business con l'uso ottimizzato, smart e in real-time, di informazioni provenienti da diverse fonti.

“Gli analytics sono sempre di più uno strumento che dall’analisi della complessità del mercato, intesa come conoscenza di gusti e tendenze dei consumatori, sia raggruppati in cluster sia a livello individuale, fornisce quelle indicazioni utili a sostenere una nuova proposta di prodotto e/o di servizio allineata alle esigenze, continuamente variabili, dei consumatori. – sottolinea Stefano Uberti Foppa, Direttore di ZeroUno, durante un recente Breakfast con l’Analista organizzato con la partnership di Fujitsu e Intel -. I Big data analytics sono una risposta efficace dietro la quale però si nascondono criticità tecnologiche, di processo, di cultura…”.

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“Quello dei Big data analytics è un mondo ancora in osservazione, soprattutto in Italia – ammette Paolo Pasini, Responsabile Unit Sistemi Informativi e Direttore Osservatorio Business Intelligence di Sda Bocconi School of Management -. Si tratta di un fenomeno che richiede di cambiare anche alcuni processi aziendali, nel marketing soprattutto, dove la cultura dell’analisi diventa fondamentale per svolgere indagini sofisticate all’interno della varietà, della velocità e del volume di dati (le 3 ‘V’ dei Big data) in costante crescita”.

I progetti Big data, secondo Pasini, hanno sempre un mix delle 3 ‘V’, ma la velocità di analisi assume un connotato particolare dato che si tramuta in agilità e rapidità decisionale per il business. “Dalle nostre ricerche emergono casi concreti di utilizzo di Big data analytics in svariati ambiti, dalla ricerca e sviluppo al risk management fino al marketing, ma anche per estrapolare insight dalle relazioni con partner esterni, dal mercato e dai clienti nonché, seppur ancora marginalmente, per costruire la conoscenza necessaria a definire le strategie di business future, scenari e modelli di business”.

Dalla tecnologia performante alla revisione dei processi

I relatori dell'evento, da sinistra Stefano Uberti Foppa, Direttore di ZeroUno e Paolo Pasini, Responsabile Unit Sistemi Informativi e Direttore Osservatorio Business Intelligence di Sda Bocconi School of Management

La velocità assume un connotato particolare anche dalla prospettiva tecnologica, perché se il software rappresenta la chiave di volta, il risultato non si raggiunge senza un’adeguata infrastruttura oggi sempre più incentrata, per questo tipo di esigenze, sull’in-memory computing che attraverso la possibilità di caricare grandi moli di dati in una memoria centrale, abilita un’analisi dei dati in tempo reale con la possibilità di svolgere attività previsionali, analisi di scenari e presa di decisioni tempestive.

“In molti casi di Big data analytics, specialmente in ambito marketing, l’It ha un ruolo sempre marginale, soprattutto se si tratta di progetti di social marketing o social/sentiment analysis – invita a riflettere Pasini -. Segnale inequivocabile del fatto che la tecnologia da sola non basta e che sempre più spesso la si cerca fuori dall’It aziendale”.

“Personalmente non vedo come un male il cercare fuori le soluzioni – interviene Laura Casagrande, Ict – Manager Sales and Marketing Consumer di Eni -. In molti casi rappresenta la scelta ottimale per iniziare ad avviare un progetto”. “Scegliere le tecnologie in modalità as a service all’esterno, soprattutto sul fronte software, è un’opportunità per iniziare a comprendere come utilizzarle al proprio interno e con quali prospettive – interviene il collega Daniele Petecchi, Ict Marketing Manager di Eni –. Internalizzare tutto partendo da zero, senza sapere con quali risultati, potrebbe risultare troppo rischioso. La scelta Saas è utile per affrontare i primi step, per testare gli strumenti, ma soprattutto per comprenderne il valore una volta calato nel contesto aziendale. È bene aver presente, però, che anche il Saas richiede delle competenze nell’utilizzo ottimale della soluzione; perché abbia efficacia e produca risultati è bene che il marketing lavori a stretto contatto con l’Ict”.

“Se non si capisce come utilizzare la tecnologia, la complessità aumenta – si inserisce Pierluigi Bucci, Marketing Analyst di Nunatac -. I Big data spesso nascondono l’incapacità del management di prendere decisioni, di interpretare correttamente i dati”.

“Questo perché è fondamentale che avvenga il passaggio dal potenziale informativo creato dalla analytics real time al cambiamento reale dei processi aziendali – risponde Pasini -. Bisognerebbe prima di tutto esplorare e sperimentare per gradi, mantenendo i progetti entro determinati guardrail rappresentati da organizzazione/processi e cultura. La cultura dell’analisi presuppone l’effettivo utilizzo delle informazioni ottenute non solo l’analisi dei dati: il grande potenziale (rappresentato dai dati) se non viene scaricato a terra (utilizzando le informazioni per le decisioni di business) non serve a nulla”.

Sos competenze

“La cultura dell’It su queste tematiche è un po’ carente – ammette Sergio Caucino, Responsabile Architetture, BI e Integrazione di Sorgenia -, ma è basilare che vi sia uno sforzo significativo anche da parte del business; serve prima di tutto una visione armonica del processo. Per rendere efficaci le nuove tecnologie di analytics, servono competenze diverse da quelle dell’It, servono figure come i data steward o i data scientist: il valore, infatti, non sta tanto nella tecnologia (seppur fondamentale), ma nei dati. Sul ‘make or buy’ personalmente credo che non sia importante dove risiedono le tecnologie e i dati (se non ai fini di legge); il valore sta nel come li si utilizza. Non basta saper raccogliere e trasportare i dati, cosa di cui si occupa l’It; serve saperli interpretare, e questo possono farlo solo figure competenti”.

Quella delle competenze è la criticità numero uno anche per Stefano Gatti, Innovation & Data Sources Manager di Cerved Group: “Noi stiamo lavorando proprio in questa direzione, creando un gruppo di data scientist o per lo meno di ‘esperti di dati’. Si tratta di persone che, a nostro avviso, devono mixare competenze specifiche differenti, in particolare in tre direzioni: 1) conoscenza dei dati (i domini su cui i progetti di business si basano e si estenderanno sempre di più); 2) conoscenza della tecnologia (a mio avviso nel campo degli analytics la tecnologia corre velocissima, bisogna capire quale adottare e come utilizzarla: ‘saper scegliere’ diventa un asset strategico); 3) cultura di analisi e impronta metodologica (non esiste un algoritmo Big data, ma una pletora di algoritmi che vanno interpretati e, anche in questo caso, scelti e adottati a seconda di esigenze ed obiettivi aziendali). Si tratta di competenze particolari; non è detto che si possano trovare in un’unica persona, anzi è molto difficile. Noi stiamo creando un team che racchiude in più persone queste capacità”.

Verso quali scenari?

Che siano percorsi molto complessi, quelli verso la digitalizzazione del business, è indubbio. Tuttavia le esigenze di una più efficace capacità di proposta al mercato, a partire dal cliente utente/consumatore, stanno spingendo molte aziende a ‘sperimentare’.

“Sul piano del business noi stiamo affrontando la diversificazione dei prodotti, per cui dobbiamo lavorare prima di tutto sulla comprensione del cliente attraverso lo sharing dei dati”, racconta Casagrande di Eni. “Siamo strutturati per business unit verticali e anche i sistemi transazionali sono verticalizzati. Per poter offrire a un cliente, allo stesso cliente, un ventaglio di prodotti e servizi, dobbiamo sapere esattamente chi è e che rapporti ha già in essere con noi: avere una vista unificata della base clienti è perciò la prima fondamentale tappa obbligata. Il social marketing per ora è ancora inesplorato, è un po’ di ‘frontiera’ ma al nostro interno stiamo ‘facendo pratica’ da diverso tempo attraverso strumenti di condivisione delle idee”.

La multicanalità dei clienti è invece l’obiettivo di Fastweb, racconta il Responsabile Sviluppi Business Intelligence, Nicola Salvemini: “avere dati in real time per noi è fondamentale. Stiamo ragionando sul ‘modello di dati’, lavorando a una sorta di master data management, ma l’It lavora di concerto con il business visto che il dato è di valore prima di tutto per le linee of business e rappresenta l’elemento fondamentale da cui partire per costruire e attuare una strategia (come quella della multicanalità cui stiamo lavorando). Di valore assolutamente critico e sostanziale è la cultura della centralità del dato, non tanto in senso tecnologico, ma di business e per raggiungere tale obiettivo bisogna lavorare sulle persone e sui processi. Per ottenere risultati è necessaria la sponsorship, non il commitment: servono persone del business che ci credono davvero, anche se i risultati, a priori, sono intangibili”.

Concordi sull’approccio ‘sperimentale’ anche Davide Benelli, Business Program Manager di Fujitsu e Marco Soldi, Marketing Development Manager di Intel che, in chiusura, sottolineano come ciò non voglia affatto dire ‘muoversi alla cieca’, ma “individuare piccole aree su cui realizzare un progetto concreto i cui risultati possano poi essere messi a confronto con gli approcci e i processi tradizionali, rendendo così visibile e tangibile il valore di determinate scelte ai board aziendali”, commenta Benelli. Ricordando che, oggi, “la tecnologia open standard rappresenta una chiave di volta importantissima – suggerisce Soldi – perché permette di avviare progetti innovativi ed effettuare ‘esplorazioni progettuali’ a costi accessibili”.

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