Il boom dei Big Data ha da tempo svestito i panni della previsione per diventare un trend in atto. La continua diffusione dei dispositivi connessi, l’aumento della copertura di banda larga fissa e mobile e lo sviluppo dell’Industry 4.0 hanno infatti impresso un’accelerazione importante al business degli Analytics, che solo in Italia vale quasi 1 miliardo di euro (+15% fra 2015 e 2016, dati Polimi). A questa crescita, che segnala un mercato in grande fermento e dalle prospettive positive, fa però da contraltare la questione legata alla governance e in particolare alle competenze richieste ai professionisti dei dati e alle responsabilità che fanno loro capo.
Data Scientist e Chief data officer, le figure emergenti del mondo Big Data
Il Data Scientist e il Chief data officer (CDO), ricorda il rapporto degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano dedicato alla Data Governance, sono le due professionalità emergenti del panorama Big Data, chiamate a governare e valorizzare i fiumi di dati che stanno inondando le aziende IT e non solo.
Il Data Scientist, spiega il report Polimi, è generalmente una figura professionale interdisciplinare che ha un compito ben preciso: estrarre informazioni dai dati, modellizzare problemi complessi e identificare opportunità di business. Un esperto di sistemi di Advanced Analytics a cui si richiedono anche competenze informatiche, matematico-statistiche e di business. Mentre il Chief data officer è un business leader, tipicamente un membro dell’executive management team, che definisce e mette in atto strategie di Analytics. Un professionista che opera in due aree specifiche: la Data Strategy, cioè la valorizzazione dei dati come business asset, e la Data Quality, ossia l’attività indirizzata ad aumentare la qualità del dato stabilendo ad esempio un unico luogo di conservazione.
Dalle competenze alle responsabilità, il profilo dei professionisti di Big Data
Si tratta quindi di due figure decisamente importanti nell’era della Digital Transformation. Anche se, dando un’occhiata al panorama italiano, non sembra che questa importanza sia chiara a tutti. La figura del CDO risulta infatti scarsamente diffusa, nonché poco definita dal punto di vista organizzativo e delle competenze. Eppure la quasi totalità dei Chief information officer (86%) riconosce un ruolo chiave al CDO, ritenendo in particolare che il Chief data officer dovrebbe avere delle responsabilità sulla gestione della qualità dei dati. Meno importanti, ma comunque rilevanti, le responsabilità in materia di sicurezza e presidio dell’architettura tecnologica di integrazione del dato.
Non va meglio con i Data Scientist il cui inquadramento nell’azienda non brilla certo per chiarezza. Al pari del set di competenze richieste. Dove presente, lo Scienziato dei Dati si colloca a metà tra IT e Business e risponde generalmente alla prima divisione. Meno frequentemente opera sotto il cappello di una linea di business o della funzione ricerca e sviluppo. Tra le numerose competenze richieste al Data Scientist i CIO ne individuano alcune più rilevanti (segnalate da un numero di manager compreso fra il 30 e il 45%): competenze analitico-matematiche e statistiche, conoscenza del mercato in cui opera l’azienda e dei processi di business e abilità nella comunicazione. Importanti, seppur con un peso minore (9-18%), le soft skill, le competenze informatiche e quelle di project management.
Privacy, servono esperti ad hoc: nasce il Data protection officer
Oltre al Data Scientist e al Chief information officer c’è però un’altra figura professionale che merita una citazione quando si tratta di Big Data. È il Data protection officer, lo specialista cui spetta il compito di difendere le informazioni personali e sensibili dagli attacchi esterni. Una figura nata con il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) partorito dall’UE e pienamente applicabile dal 25 maggio 2018. Un esperto chiamato a garantire la sicurezza delle informazioni trattate, inviate e conservate dalle aziende a cui spetta un ruolo chiave. L’inosservanza delle nuove regole potrà infatti costare sanzioni pesantissime, fino al 4% del fatturato di gruppo.