Che la si chiami digital transformation, che lo si chiami smart working, che si scelga invece di porre l’accento sulle nuove data-driven company, il risultato è che il mondo del lavoro sta cambiando. E radicalmente. Cambiano i luoghi di lavoro, cambiano gli strumenti, cambiano le modalità e cambiano anche i ruoli dei lavoratori all’interno delle aziende.
A partire dagli information worker, anzi, per essere più precisi dai knowledge worker.
Il termine knowledge worker è stato coniato nel 1959 da Peter Drucker, economista e saggista, che nella sua opera The Landmarks of Tomorrow superava di fatto il concetto di white collar, colletti bianchi, sostenendo non solo che i knowledge worker siano dipendenti di altro profilo, che applicano conoscenze teoriche e analitiche acquisite attraverso percorsi formativi formali per sviluppare nuovi prodotti e servizi, ma soprattutto che proprio queste figure professionali avrebbero rappresentato gli asset di maggior valore nelle organizzazioni del ventunesimo secolo.
Una definizione quantomai attuale, quella di Drucker, che supera coerentemente il certamente più comune ma probabilmente sopravvalutato “information worker”: se è vero, come è vero, che l’informazione di per sé ha un valore minimo se non viene trasformata in conoscenza, ben venga allora l’accezione scelta da Drucker.
Chi è il knowledge worker e quali sono i suoi compiti e le sue responsabilità all’interno dell’azienda
A Drucker riconosciamo il merito non solo di aver coniato il termine, ma anche e soprattutto di aver definito una delle caratteristiche chiave del knowledge worker. “Il suo lavoro è in continua trasformazione, dinamico, autonomo”, scriveva ormai quasi 60 anni fa il saggista, e in effetti al knowledge worker sono richieste, oltre alle competenze specifiche, i cosiddetti hard skill, anche la capacità di innovare in ambienti in continua trasformazione, attitudini nel problem solving, capacità relazionali.
Nel tempo, la letteratura molto ci ha detto sui knowledge worker.
Ad esempio, nel 2010, parliamo dunque di otto anni fa, Harvard Business Review sottolineava come sia più corretto pensare a ogni dipendente e collaboratore dell’azienda in veste di knowledge worker, anticipando quell’idea di conoscenza diffusa e condivisa che rappresenta uno dei principi fondanti dello smart working.
In ogni caso, in sintesi estrema possiamo dire che all’interno di una organizzazione, il knowledge worker deve saper identificare e analizzare le informazioni importanti e rilevanti che più gli servono per risolvere i problemi o completare le attività che sono richieste a loro o ai gruppi di lavoro nei quali operano.
È dunque una figura che lavora in stretta collaborazione con altri colleghi e collaboratori e dunque deve possedere non solo doti analitiche, ma anche capacità comunicative e relazionali.
Deve essere costantemente aggiornato anche sui nuovi strumenti tecnologici, per comprendere quali potrebbero essere utili allo sviluppo delle sue attività.
La nuova svolta, il learning worker
Siamo comunque arrivati a una nuova svolta. Oggi la conoscenza, il bagaglio con il quale si entra in azienda non è assolutamente più sufficiente. Tutti siamo immersi in processi di apprendimento continuo, tanto che in un interessante articolo pubblicato qualche tempo fa su Forbes si sottolineava come sia arrivato il tempo di salutare il knowledge worker, per entrare nella nuova era dei learning worker.
Cambia il modo in cui si valutano i dipendenti, si legge nell’articolo, e l’enfasi si sposta sulla capacità del dipendente di apprendere e di adattarsi, piuttosto che sul fatto che possieda a prescindere gli skill richiesti.
Questo significa, va sottolineato, che diventa compito dell’azienda rendere disponibili tutti gli strumenti e far crescere al proprio interno una cultura orientata all’apprendimento continuo e al continuo scambio di esperienze e conoscenze tra dipendenti e collaboratori,
La stessa azienda, detto in altri termini, deve trasformarsi in una learning organization.
È un modello nuovo, che fa leva su strumenti cognitivi e collaborativi e ancor di non solo si basa su ciò che i dipendenti sanno, ma di fatto accelera la loro capacità di apprendere, aumentando di conseguenza il capitale di conoscenza che sono in grado di creare e di condividere.
Per altro, va detto, c’è una consapevolezza diffusa della necessità e dell’urgenza di questo tipo di cambiamento: la digital disruption è in grado di rendere obsoleti non solo ruoli e figure aziendali, ma anche interi modelli di business nel giro di pochi anni.
Per questo motivo, la capacità di apprendere velocemente diventa – tra i cosiddetti soft skills – uno dei più significativi.
Fortunatamente, la digital transformation non è solo un elemento di disruption, ma supporta il cambiamento in atto, dando al knowledge worker dei veri e propri super poteri.
La capacità di gestire e processare enormi quantità di dati in tempo reale, consente di aumentare le produttività, riducendo il tempo da dedicare ad attività manuali o ripetitive, lasciando dunque al lavoratore la possibilità di concentrarsi sulla componente a maggior valore della propria attività, quella ancora non sostituibile da processi o strumenti automatici.
Le sfide del modern workplace
Ma quali sono le sfide che il lavoratore – lasciamo perdere per un momento l’accezione con la quale abbiamo deciso di identificarlo – deve affrontare oggi?
Thomson Reuters ne ha identificate quattro particolarmente rilevanti.
In primo luogo la sfida del “Research and Discovery”, che al momento rappresenta ancora una delle attività più complesse e time consuming e che dunque richiede semplificazione, automatizzazione, assistenza da parte di strumenti intelligenti, dal machine learning all’intelligenza artificiale.
In secondo luogo la sfida del sovraccarico di informazioni: siamo in un’era in cui dati e informazioni vengono generati a ciclo continuo e il problema è capire quali sono le informazioni che davvero servono, quando servono. Obiettivo da perseguire? Fare in modo che sia l’informazione a trovare l’utente e non viceversa. Ovvero, fare in modo che l’informazione sia lì, disponibile, quando server.
Terza sfida, la compliance: quando si parla di dati non si può non tenere in considerazione quanto previsto dalle normative vigenti e dalle policy e dai regolamenti aziendali.
Infine, l’ultima sfida è quella di dare senso ai dati: che si tratti di un unico documento o di un insieme di dati eterogenei, è importante riuscire a dare un senso ai dati e alle informazioni, perché da esse possano derivare decisioni e azioni sensate dal punto di vista del business.
Le aziende sono pronte? Quali strumenti per i knowledge worker?
Già nel 2012, uno studio di McKinsey Global Institute dal titolo “The social economy: unlocking value and productivity through social technologies” analizzava il valore economico derivante dall’incremento delle comunicazioni, della condivisione della conoscenza e della collaboration nell’ambiente aziendale.
Lo studio sosteneva che in media un dipendente utilizza il 28 per cento del proprio tempo lavorativo per rispondere alle email e il 20 per cento alla ricerca di informazioni o di colleghi in grado di trasferirle.
Utilizzando strumenti idonei, che dunque facilitano la ricerca delle informazioni, secondo McKinsey, già si potrebbe ridurre del 35 per cento il tempo destinato a questa attività, mentre ulteriori recuperi di efficienza si possono realizzare favorendo una collaborazione più semplice ed efficace all’interno dell’azienda e dei gruppi di lavoro.
È chiaro che questo richiede alle organizzazioni aziendali una trasformazione non solo delle proprie strutture e dei propri processi, ma anche della loro cultura, verso nuove logiche più aperte, meno gerarchiche e impostate su una logica di “trust”.
Il “segreto”, se così possiamo chiamarlo, è spingere la piena partecipazione dei dipendenti che non hanno remore o paure a condividere le loro conoscenze, nella consapevolezza che il loro contributo sarà rispettato.
Tutto questo, va da sé, supportato da strumenti di collaboration, di gestione e analisi dei dati, di knowledge management e strumenti che aiutino ad automatizzare tutte quelle attività ripetitive o time-consuming che rendono meno efficace l’operato del dipendente.
Parliamo di strumenti come i bot, basati su sistemi di intelligenza artificiale, in grado di gestire anche parte delle attività routinarie, a partire dalla gestione degli appuntamenti o delle scadenze.
È un modello win-win quello che si va a sviluppare, che se da un lato pone l’accento sulle performance e sull’efficacia del lavoratore, dall’altro però ne stimola il coinvolgimento e la soddisfazione.
La visione di Teorema
Al tema dei knowledge worker in un contesto di modern workplace da tempo si occupa Teorema Engineering, system integrator triestino, partner storico di Microsoft, che ha messo a punto una propria practice, per la quale ha all’attivo diverse case history di successo.
“Quando parliamo di modern workplace – spiega Vincenzo Cerminara, account manager di Teorema – pensiamo a strumenti di collaboration, di communication e di analisi dei dati integrati per dar vita a una soluzione che semplifichi l’accesso ai documenti e alle applicazioni, che migliori la user experience, che dia all’utente la possibilità di accedere ai propri strumenti e ai propri dati in qualunque momento e da qualsiasi postazione in piena sicurezza e nel pieno rispetto di tutte le normative e le policy. Pensiamo a una soluzione che semplifichi la collaborazione, che migliori l’accesso ai servizi e che aumenti il livello di standardizzazione e di automatizzazione”.
Teorema è pienamente consapevole del fatto che non si tratti di un tema meramente tecnologico, ma che si debba davvero parlare di un processo di change management.
“Se da un lato quello che mettiamo a disposizione dei nostri clienti può essere considerata una Intranet evoluta, basata sulle più recenti tecnologie Microsoft, che aiuta a ridurre i tempi necessari al reperimento delle informazioni o ad alleggerire il carico del dipartimento IT, dall’altro il nostro approccio è prima di tutto metodologico. Con i nostri clienti fissiamo un percorso, segmentato per obiettivi e per ciascuno identifichiamo i servizi e le tecnologie che andremo a implementare, oltre alle persone e le aree aziendali da coinvolgere”.
Il tutto, va da sé, corredato da una attenta valutazione dei benefici ottenibili e misurabili.