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Per diventare azienda data-driven serve un vero change management

Cambio di mentalità a livello organizzativo, competenze multidisciplinari, chiarezza sugli obiettivi da raggiungere e definizione dei processi. Sono questi i requisiti che servono per diventare un’azienda data-diven. Le tecnologie di data analysis fanno il resto, con algoritmi di intelligenza artificiale e il data storytelling. Ne abbiamo parlato con Enza Fumarola, CEO di Altea IN, società di Altea Federation

Pubblicato il 18 Ott 2021

change management

Essere data driven è l’ambizione di molte aziende, ma poche lo sono già veramente. Così la data-driven economy – il contesto generalizzato in cui l’analisi dei Big Data è fonte di informazioni a valore – resta un percorso in molti casi incompiuto. La strada però è segnata, e presto il mercato sarà dominato dalle organizzazioni che sapranno padroneggiare i dati.

Il punto è come riuscire a diventare padroni dei dati. Una ricetta uguale per tutti non sembra esserci, ci sono tuttavia dei modelli di riferimento – associati a tecnologie relativamente nuove ma consolidate – che possono fare da guida nella trasformazione in azienda data-driven.

“La chiave di volta è organizzativa, oltre che tecnologica, e i fattori importanti sono tre: change management, competenze multidisciplinari e massima chiarezza sugli obiettivi da raggiungere. La tecnologia provvede al resto”, afferma Enza Fumarola CEO di Altea IN. Ne abbiamo parlato in un’intervista.

Tutti vogliono diventare data-driven

Data-driven è diventato un mantra. Tutte le aziende vogliono esserlo, ma riuscirci è un altro paio di maniche. Passare dalla raccolta di dati a una data analysis efficace è un salto da imparare. Cosa serve? “La presenza di una quantità di dati enorme proveniente da molteplici fonti è ormai una certezza assoluta in tutte le aziende, sia nel settore dei servizi sia in quello della produzione. Tuttavia, le organizzazioni che possono effettivamente definirsi data-driven sono quelle che non considerano questa mole di dati solo dal lato tecnico. Il punto di partenza è a livello organizzativo: non basta la tecnologia digitale, che pure è un elemento fondamentale, ma occorre pensare a un vero e proprio percorso di change management, dove prima di tutto a cambiare deve essere la cultura dei team: da quello utilizzatore del dato a quello gestore del dato”, spiega Fumarola.

Ha accennato agli obiettivi, che cosa intende? “Mi riferisco a un altro aspetto fondamentale che è, appunto, la chiarezza degli obiettivi da raggiungere nel lavoro di raccolta e analisi dei dati. Come sappiamo, e questo è vero per ogni elemento facente parte di un sistema informativo, le tecnologie – dove più dove meno – sono una commodity. E una commodity resta tale se non è inserita in un percorso e associata a un obiettivo preciso, e se quell’obiettivo non viene raggiunto”, risponde la CEO di Altea.

Quali sono i dati utili? L’esempio della manutenzione predittiva

I dati sono tanti, sempre di più, ma non tutti sono sempre utili. Come sceglierli? “Torniamo al tema dell’obiettivo. Non esiste una regola scritta uguale per tutte le situazioni, ma certamente l’analisi dei dati deve avere un punto di arrivo. Ciò implica la conoscenza approfondita del processo di riferimento e dei suoi attori, da chi genera il dato fino a chi se ne serve”.

Un esempio? “Uno molto intuitivo è la manutenzione predittiva in ambito industriale: la fonte del dato è un sensore collocato su una macchina, un prodotto che oggi ha un costo molto basso, ma il vero protagonista non è il sensore, bensì l’ingegnere di prodotto che decide dove posizionarlo. Un altro ruolo fondamentale è in capo a chi disegna il processo nell’area interessata: fatto questo, il dato utile può essere raccolto e letto con le tecnologie più appropriate. Restando alla manutenzione predittiva, un ambito di cui ci occupiamo molto in Altea IN alla luce della nostra specializzazione nel settore manifatturiero, occorre anche distinguere – prosegue Fumarola – tra macchine utilizzate e macchine vendute. Nel primo caso, l’obiettivo è la raccolta e analisi dei dati per prevedere e prevenire i problemi di funzionamento, dunque uno scenario interno; nel secondo caso, invece, il dato diventa un servizio e lo scenario è esterno alla fabbrica, con implicazioni di tipo diverso”.

La qualità del dato

Quello della qualità del dato è un tema complesso, e lo era ancora prima che si iniziasse a parlare di Big Data. Poi le fonti di produzione dei dati sono aumentate, è arrivato l’IoT e la complessità è aumentata ancora. “Sulla qualità del dato ho letto cose molto interessanti: se da un lato McKinsey ha spiegato che usare i dati vuol dire migliorare le performance di un’azienda anche del venti per cento, una ricerca del MIT Sloan rivela che la qualità del dato incide in negativo per il quindici-venti per cento sul fatturato potenziale, e quindi sulla produttività. Siamo dunque consapevoli che usare i dati è utile, ma stiamo attenti: la qualità del dato può avere un effetto dirompente”.

“Tornando al tema: la risposta alla necessità di garantire la qualità del dato non è una sola e non è solo tecnica. Investe anche l’area organizzativa e richiede un gruppo interdisciplinare composto da figure tecniche, figure di business e data scientist, che diventano responsabili del dato e definiscono una linea guida di regole”.

Come si fa a dare un senso ai dati? AI e data storytelling

I dati vanno raccolti, puliti, analizzati e poi trasformati in qualcosa che abbia un senso associato all’obiettivo da raggiungere, ad esempio intervenire su processi aziendali o modificare comportamenti. I dati devono essere utili all’interno, ad esempio per ridurre i costi, o all’esterno, ad esempio per creare un nuovo servizio. “Qui entrano in gioco l’intelligenza artificiale, il machine learning, con la creazione di algoritmi, che però hanno senso soltanto se prima si sono definiti gli obiettivi e costruito un modello sul quale operare. Dove non c’è l’intelligenza artificiale interviene il data storytelling, una cosa di cui si parla sempre più spesso perché ci si è resi conto che è possibile raccontare una storia attraverso l’utilizzo dei dati. Cosa vuol dire? Vuol dire esplorare a tavolino la relazione tra i dati, e trovare i pattern significativi che permettono di trasformare le analisi in insight, cioè in informazioni che hanno un senso e un valore. Il data storytelling, che è l’evoluzione della data analysis, addirittura ha uno step in più nella data visualization. Molti attori del mercato hanno elaborato tool che permettono, grazie a una grafica sofisticata, di rendere intellegibili i dati”.

Analisi dei dati in tempo reale e anche no

Anche fornire un accesso immediato alle informazioni è diventato importante. Ci sono ambiti in cui l’analisi dei dati in tempo reale fa la differenza. “Quando parlavamo di datawarehouse e business intelligence, il tema del real time rimaneva fuori dalla porta; oggi invece è un prerequisito e fa parte di molte soluzioni. Però bisogna essere realisti: un’analisi dei dati real time non è sempre necessaria e ci sono anche soluzioni che non la contemplano, non per vincoli tecnologici ma per scelte funzionali. Non tutte le analisi richiedono informazioni istantanee. Anche in questo caso, serve sapere ciò che si vuole”.

Altea IN protagonista nella data analysis

Altea IN è una società di Altea Federation, opera come system integrator e collabora con Infor e TeamSystem. “Lato vendor, registriamo evoluzioni importantissime nelle soluzioni di data analysis e predittività rivolte a diversi settori di mercato. Queste applicazioni, grazie al cloud, e nel nostro specifico al mondo AWS, permettono una libertà di azione che solo qualche anno fa sembrava impossibile. Costo dello storage e velocità di elaborazione sono problemi superati. Il cloud ha ampliato la gamma delle opportunità disponibili. Con l’aiuto di un partner esperto nelle tecnologie e nei processi i risultati sono a portata di mano”.

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