Quando il top management o lo stesso Cio di una società, avendo presa coscienza della realtà dei big data e compresi i vantaggi per l’impresa che se ne possono trarre, decidono di passare all’azione varando un progetto It, si rischia spesso di commettere un errore di strategia. Nel senso che si tende a focalizzare l’impegno dell’It sugli aspetti di raccolta e sistematizzazione dei dati prima che su quelli della loro analisi. E’ un approccio che capovolge i termini del problema, anteponendo il mezzo al fine. Stante il fatto che il valore di un dato sta nel senso che se ne può trarre è sulla qualità e finalità delle analisi che un progetto di intelligence su big data deve partire, derivando da queste sia la scelta delle fonti utili allo scopo, che condizioneranno gli aspetti di raccolta e dove sarà importante considerare i servizi cloud, sia quella degli strumenti tecnologici necessari.
I dati che vanno analizzati sono non solo ‘big’ nel volume, ma anche molto eterogenei. Comprendono dati strutturati forniti dall’Erp, dalle casse, dalle fidelity card e dai processi transazionali di e-commerce e Crm e dati non strutturati, in forma di file di testo o vocali che provengono dagli stessi sistemi di Crm come dalle telefonate ai call center, dai rapporti dei centri di assistenza, dalle relazioni della forza vendite e quant’altro. Questi poi sono solo i dati di fonte interna all’impresa. Ad essi vanno aggiunti quelli che si possono estrarre dall’analisi delle reti sociali. Di questi dati l’azienda non ha né la proprietà né il controllo, ma proprio per ciò ne deve tenere massimo conto, perché dall’analisi semantica (vedi box) di quanto sulle reti viene espresso si completa il profilo del cliente, attuale e potenziale, conoscendone non solo gli atti (che si possono dedurre anche dalla sola analisi dei dati di fonte interna) ma le motivazioni che li hanno originati. In breve, si può definire un gruppo di persone secondo una serie di parametri (geografici, di età, di censo, di cultura…) tali da ottenere un livello di granularità che in teoria (se le leggi sulla privacy lo permettessero) potrebbe giungere al singolo individuo, venendo a sapere ciò che desidera o rifiuta; ciò che pensa dell’azienda e della sua offerta; ciò che potrebbe fare se fossero soddisfatte certe condizioni. Il tutto per arrivare, è questo lo scopo finale, a formulare una proposta commerciale così mirata ed accattivante da non potere non aver successo.
Per sapere, prevedere, operare
Le analisi applicabili sui dati, strutturati e non strutturati (questi ultimi resi assimilabili ai primi tramite tecnologie di analisi semantica), sono sostanzialmente di tre tipi: descrittiva, predittiva e prescrittiva. Non ci dilungheremo sulle prime due, che descrivono lo stato delle cose e ne prevedono l’evoluzione, perché si tratta di argomenti trattati da tempo dalla nostra testata, mentre l’analisi prescrittiva è relativamente nuova nel mondo della BI anche se presente in campo politico, economico (dove è conosciuta anche come analisi normativa) e medicale. Il suo scopo è orientato più che a fornire un quadro di come si può evolvere una certa situazione, a suggerire le azioni da fare a fronte di tale evoluzione in modo da trarne il maggior vantaggio. Nasce anch’essa, come la descrittiva e predittiva, da analisi automatiche dei dati svolte da algoritmi che sfruttano varie tecnologie: di clustering, data mining, intelligenza artificiale e analisi semantica, ma ne usa i risultati allo scopo di estrarre da un numero molto ampio di variabili inerenti sia il business sia il cliente, una configurazione sulla quale impostare un’azione.
È un concetto complesso e forse si può meglio coglierne il senso con un esempio tratto dalla sua applicazione nel marketing. Qui l’analisi prescrittiva suggerisce, in base appunto alla conoscenza sul business e sugli intenti e sulle dinamiche del cliente acquisita dalle tecnologie di cui s’è detto, come agire per fare un’offerta di prodotto tale per cui il cliente venga ingaggiato sui diversi canali. Oppure, in funzione delle strategie aziendali, come fare affinché certi clienti che comprano solo nei negozi vogliano passare agli acquisti online o viceversa. In breve, il sistema suggerisce all’uomo delle azioni utili ad attuare i suoi obiettivi, e lo fa in quanto conosce profondamente (come s’è detto, al limite teorico del singolo individuo) il comportamento delle persone e del mercato. Naturalmente, perché il sistema possa suggerire delle cose da fare occorre che abbia una base informativa, che va costantemente aggiornata, sugli strumenti di cui l’azienda dispone. Cioè, per restare all’esempio in ambito commerciale, che ‘sappia’ quali promozioni, sconti, mailing e altre operazioni si possono fare.
L’adozione di queste tecnologie è in espansione per l’analisi descrittiva e in primo sviluppo (nella fase delle attese, secondo la curva di evoluzione sviluppata da Gartner) per le soluzioni più avanzate. Secondo una recente indagine di Forrester l’analisi predittiva è vista come ‘the next big thing’ (figura) nelle attività per la conquista del mercato, soprattutto per le società di servizi e prodotti alla persona (Google, per dirne una) e ne è previsto lo sviluppo in forma di app in grado di guidare con suggerimenti mirati il singolo cliente nelle proprie scelte e azioni quotidiane, una cosa che l’avvicina molto al modello dell’analisi prescrittiva.
Sono, al solito, gli Stati Uniti che aprono la strada, ma anche le imprese europee si stanno preparando a una rivoluzione che vede le capacità gestionali del management sempre più supportate (e talvolta sostituite) dalla base empirica fornita dai sistemi di analisi. In Italia purtroppo la situazione è diversa. Il nostro è un paese di contrasti e assieme alle capacità di innovazione che hanno fatto il ‘made in Italy’ e a menti brillanti nella ricerca e sviluppo tecnologico resiste una diffusa mentalità di gestione padronale restia al cambiamento. Ma è soprattutto il persistere di deficienze infrastrutturali a frenare soluzioni che si devono necessariamente appoggiare sulle reti ad alta velocità e sui servizi cloud che da queste dipendono. Non è una cosa che le imprese possano risolvere da sole, ma va almeno detto che questo aggravarsi del ‘digital divide’ è quanto di meno il Paese abbia oggi bisogno.