“E’ sotto gli occhi di tutti che oggi le istituzioni sono solite descrivere i bitcoin come qualcosa di estremamente pericoloso. Soprattutto perché, a loro avviso, i bitcoin sarebbero uno strumento che potrebbe favorire operazioni di ‘lavaggio’ del denaro sporco. In realtà, a ben vedere, non sembra proprio così. Nel mio libro, nato grazie al supporto ricevuto dall’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e dei vari docenti che mi hanno sempre sostenuto, tra cui la prof.ssa Mariavaleria del Tufo, ho dimostrato che i bitcoin sono interamente tracciati. Tutte le transazioni in bitcoin sono registrate in un database pubblico, chiamato blockchain. Si tratta di un registro distribuito, liberamente accessibile. Chiunque può controllare chi ha ceduto un determinato bitcoin a Tizio o a Caio, e chiunque può scoprire anche il report storico di ogni transazione.
Per i bitcoin, l’adagio di Giovanni Falcone “segui il denaro e troverai la mafia” sarebbe applicabile in pieno, laddove ce ne fosse bisogno”. Lo dice in un’intervista a Blockchain4Innovation Gaspare Jucan Sicignano (nella foto a fianco), ricercatore in diritto penale presso l’Università Suor Orsola Benincasa e autore del libro “Bitcoin e Riciclaggio”, pubblicato dall’editore G. Giappichelli di Torino nella collana “Leggi penali tra regole e prassi”.
Sicignano, come è possibile risalire a chi movimenta i bitcoin?
Si può controllare, senza particolari sforzi, quale portafoglio possiede un determinato bitcoin, e quale strada ha percorso una determinata valuta per arrivare in una determinata destinazione. Ma, ovviamente, non è tutto pubblico. Infatti, mentre tutte le transazioni sono pubbliche, l’indirizzo a cui è collegato un determinato portafoglio dei bitcoin è anonimo. Ma, attenzione, il sistema è in grado di garantire che l’utente anonimo possa essere comunque identificato in altro modo. Mediante tecniche di digital forensic, infatti, è possibile risalire a coloro che si celano dietro un determinato indirizzo. Inoltre, la gran parte dei bitcoin exchange internazionali richiede una identificazione espressa degli autori di ogni transazione. Onere, tra l’altro, richiesto espressamente dalla recente normativa antiriciclaggio italiana ed europea.
Nel suo lavoro lei contesta anche la vulgata che i creatori del bitcoin siano dei “poco di buono“ che agiscono ai confini della legalità. Chi sono effettivamente i cypherpunk?
Nel corso dei miei studi ho avuto modo di leggere molti articoli sui bitcoin e sono rimasto spesso sorpreso nel leggere le varie teorie sui presunti inventori di questa nuova tecnologia. Addirittura qualcuno ha sostenuto che i bitcoin sarebbero stati creati allo scopo di favorire lo spaccio di stupefacenti su internet. Nulla di più errato. I bitcoin nascono all’interno di una comunità di attivisti, denominati cypherpunk, che, fin dagli anni ’90, ha lavorato a un progetto di moneta digitale. Si tratta di esperti informatici, alcuni anche con esperienze universitarie, già ricchissimi grazie a internet. Non ci sono criminali, spacciatori e commercianti di droga. Anzi, la comunità di cypherpunk è un’aggregazione perfetta, dove ognuno collabora generosamente a progetti di altri, con l’unico obiettivo di creare qualcosa di utile. Sono tutti sostenitori dell’utilizzo open source dei software e contrari a qualsivoglia ipotesi di sfruttamento commerciale delle risorse informatiche.
Come si è evoluto il ruolo dei digital forensic nella ricerca dell’identità dei soggetti coinvolti quando si tratta di risalire a transazioni sospette? Perché si parla sempre più spesso di anonimato “parziale”?
Oggi sono nate vere e proprie discipline che si occupano di questa attività. Si parla spesso di bitcoin forensic e di bitcoin intelligence. Con il primo termine si intende “l’utilizzo di strumenti statistici per aggregare le transazioni e identificare gli utenti”; con il secondo, l’attività di monitoraggio della blockchain, per individuare “indirizzi a rischio riciclaggio” e “per fornire una stima probabilistica del rischio di ogni specifica transazione”. Recentemente, molte aziende si sono specializzate in questo settore, anche fornendo attività di consulenza alle forze dell’ordine. Tra queste, la più nota è Neutrino S.r.l., azienda che si occupa di valutare il rischio di riciclaggio di ogni specifica transazione in bitcoin. Molto conosciuto è anche il Blockchain Intelligence Group di Vancouver, che svolge le stesse attività della Neutrino.
Secondo uno studio di Agipronews in collaborazione con il Polimi utilizzare i bitcoin per scopi illeciti può addirittura essere più rischioso che utilizzare la moneta tradizionale. Su cosa si basa questa teoria?
Lo studio ha evidenziato, in particolare, che il bitcoin è una delle monete più tracciabili che esistano e che ogni transazione, lecita o illecita, rimane visionabile a costo zero e per sempre. Lo studio richiama un report pubblicato nel 2015 dall’HM Treasury e dall’Home Office UK, secondo cui la rischiosità delle criptovalute per il riciclaggio di denaro e il finanziamento al terrorismo è stata valutata “bassa”. E non è l’unico report intervenuto in questa materia. Dello stesso avviso uno studio redatto da Elliptic, una società che si occupa dei rischi delle criptovalute, e dal Center on Sanction and Illicit Financing, programma della Foundation for Defense of Democracies (FDD), un ente no profit attento alle tematiche inerenti alla politica estera e alla sicurezza nazionale. Lo studio, attraverso un’analisi approfondita di un campione ristretto di transazioni tra il 2013 e il 2016, ha analizzato le tendenze delle attività illecite realizzate mediante bitcoin. Ebbene, secondo i medesimi esperti, la quantità di operazioni illecite commesse mediante bitcoin è molto modesta, pari all’1% di tutte le transazioni che entrano nei servizi di conversione.
E’ possibile che oggi attorno al Bitcoin si registri lo stesso scetticismo che si registrava negli anni ’90 nei confronti di Internet?
Creso proprio di sì. Internet oggi gestisce gran parte degli aspetti della vita di ogni individuo, eppure nei primi anni novanta le previsioni non erano incoraggianti. Newsweek, il 26 febbraio 1995, titolava: “The internet? Bah!”. L’articolo era di Clifford Stoll, un esperto di nuove tecnologie. Secondo l’Autore internet non era appetibile ed era una sciocchezza ipotizzare biblioteche interattive, aule multimediali, comunità virtuali e il commercio telematico. Stoll, in particolare, sosteneva che mai una piattaforma online avrebbe potuto sostituire il quotidiano, mai un cd-rom avrebbe potuto prendere il posto di un insegnante competente e mai una rete di computer avrebbe potuto influenzare il governo. Se Nicholas Negroponte, direttore del MIT Media Lab, prevedeva che in breve tempo sarebbero stati venduti libri e giornali direttamente su internet, Stoll ironizzava: «Uh, certo!». Ed ancora: «prova a leggere un libro su disco. Nella migliore delle ipotesi, è un compito spiacevole: il bagliore miope di un computer goffo sostituisce le pagine amichevoli di un libro. E non puoi portare quel laptop alla spiaggia». Per l’Autore, poi, era impensabile un utilizzo di internet a fini didattici. Allo stesso modo l’e-commerce sarebbe stata, a suo parere, una bufala irrealizzabile. Non mancavano gli allarmi sui rischi connessi all’utilizzo di internet. Per molti internet avrebbe favorito lo spaccio di droga, per altri ancora sarebbe stata la nuova frontiera del riciclaggio. In una intervista dell’11 dicembre 2000, Edward P. Rindler, consigliere speciale dell’allora Presidente degli Stati Uniti d’America, Bill Clinton, sosteneva che internet fosse la nuova frontiera del crimine globalizzato. Spiegava infatti che era possibile riciclare denaro sporco mediante internet. Dello stesso avviso Alessandro Scartezzini, del centro di ricerca Transcrime dell’Università di Trento. Per Alessandro Pansa, direttore del Servizio centrale operativo della Direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato, e Donato Masciandaro, docente alla Bocconi, internet avrebbe rappresentato «un cavallo di Troia» per il riciclaggio del denaro sporco. Ebbene, nelle parole di Stoll e di altri commentatori del tempo si avverte lo stesso tono di gran parte delle critiche che attualmente moltissimi esperti muovono ai bitcoin. Senonché, dopo aver sperimentato cosa internet rappresenta oggi, verrebbe da riprendere scaramanticamente il titolo utilizzato da Newsweek: “The bitcoins? Bah!”.